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Giulio Cavalli

Arrivare puliti a sera

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Ero molto piccolo quando ho iniziato a suonare il pianoforte. Mica solo giovane, piccolo che allargando la mano fino a che il tiro non mi arrivasse su dal collo e poi in bocca era una mano troppo breve per ambire all’ottava. Corta. Quindi mi esercitavo in quelle scale muscolari di autori dal nome duro come la musica che scrivevano (mi ricordo il Beyer, non avevo forse sei anni) e il suono era semplicemente il rumore di rimbalzo di una ginnastica fatta sulle note. Di continuo. Il limite fisico non importava a nessuno. Avrei potuto anche avere una mano sola ma mi dicevano che attraverso l’esercizio sarei riuscito comunque ad avere un buon suono. Qualcosa che si avvicini ad una melodia. La musica di quegli esercizi era un martello pneumatico su spartito, note che rimandavano alle lime o alla malta, con quello stesso odore che poi risentivo quando pensavo a che testa capiente avrebbe potuto essere capace di immaginare una casa, tutta intera, e sapere già prima di iniziare esattamente dove appoggiarla. Ecco, il mio pianoforte a casa, dopo scuola e nelle ore che per forza dovevo rubare anche al gioco, era il mio cantiere sempre aperto, in sala, dritto che mi aspettava. E mi ricordo la sensazione, si accendeva senza avviso, di riuscire a suonare una scala come non mi era mai riuscita prima, come se in fondo le dita fossero nate capaci di farla per poi dimenticarselo e, tutto d’un colpo, se ne fossero ricordate come ti ricordi quei momenti che nemmeno gli anni sono riusciti ad annegare. Quando succedeva che un ostacolo fosse diventato liscio, agevole, io lo toglievo dall’elenco delle incombenze e con mielosissima soddisfazione lo appoggiavo nel cestino dei bordi superati, delle cose fatte, dei nodi sciolti.

Ecco, mi ricordo, quando alla sera mi capitava di superare una pagina d’esercizio al pianoforte, di poterla girare e tenerla indietro insieme alle cose già fatte, mi ricordo che alla sera mi sentivo pulito. Anche se avevo sudato tutto il pomeriggio ridendo senza fiato  dentro una partita tra scarsi o anche se avevo la tristezza di un litigio, o una sgridata che non ero riuscito a digerire o una domanda senza risposta. Si arrivava puliti a sera. Puliti. E poi tutto il resto degli anni ho sempre cercato quella pulizia lì, nonostante il giorno passato. E quando ho scritto ‘Mio padre in una scatola da scarpe’ l’ho scritto per raccontare che ci sono persone che nonostante tutto l’intorno, ci invecchiano puliti, ci arrivano anziani, puliti, anche se è sera.

Ma dove sono i “saggi” milanesi?

205811948--297347a5-785a-433d-903b-36afac92a31bFatemi capire: dove sono tutti i saggi e grandi esperti di politica milanese che si sentivano offesi quando si faceva notare come il “modello Pisapia” non esiste senza Pisapia? Ma davvero credono, a sinistra o giù di lì, che non si noti, da fuori e da lontano, la loro unica preoccupazione di “non sembrare quelli che rompono” e quindi preferiscono sembrare gli utili idioti del PD?

Tutto va ben.

Quando la ‘ndrangheta è donna: Aurora Spanò

Un articolo da incorniciare del sempre bravo Lucio Musolino:

spanò905-675x905Mente e coordinatrice della cosca Bellocco a San Ferdinando, nella Piana di Gioia Tauro. La moglie è stata condannata a una pena superiore a quella del marito, ritenuto il boss del piccolo paesino in provincia di Reggio Calabria. Lo ha stabilito il Tribunale di Palmi che, al termine di una lunga camera di consiglio, ha inflitto 25 anni di carcere ad Aurora Spanò e 18 anni al marito Giulio Bellocco.
La sentenza del processo “Tramonto” ha registrato la condanna a 3 anni e 6 mesi anche di Giuseppe Stucci e Giuseppe Spanò, rispettivamente il comandante e l’agente della polizia municipale che avrebbero favorito i Bellocco falsificando alcuni atti amministrativi relativi a un esercizio commerciale intestato a una prestanome della cosca.

La ‘ndrangheta è femmina e a San Ferdinando porta un nome ben preciso: Aurora. Per anni boss e per 7 mesi latitante. Oggi, a 58 anni, detenuta al 41 bis. Era lei che, secondo la Direzione distrettuale antimafia, teneva le redini della famiglia mafiosa, costola dell’omonima ‘ndrina che detta legge nella vicina Rosarno. Era lei che imponeva il pizzo e vessava i negozianti costretti a pagare la mazzetta per non subire ritorsioni, che entrava nei ristoranti, banchettava per migliaia di euro e non pagava solo perché l’esercizio commerciale era in un edificio che le era stato confiscato. Era lei che dopo aver prestato a strozzo 600mila euro a due imprenditori della zona si è impossessata di uno stabile di proprietà della famiglia dei creditori, nel frattempo scappati al Nord Italia dove, anche lì, sono stati raggiunti e massacrati di botte. Era lei che, una volta arrestata, minacciava e malmenava le detenute con cui divideva la cella costringendole a rifarle il letto e pulire i servizi igienici.  “Io sono Bellocco anche se non sono sposata!”, era il leit-motiv di Aurora Spanò, intercettata dai carabinieri durante un colloquio dietro le sbarre.

La testimone Maria Concetta Cacciola: “San Ferdinando era dei Bellocco”.
Della capocosca di San Ferdinando ha riferito anche la testimone di giustizia Maria Concetta Cacciola, morta per aver ingerito acido qualche anno fa dopo che i suoi familiari l’avevano costretta ad abbandonare la località protetta e a ritrattare le dichiarazioni rese ai carabinieri. “Giulio Bellocco e la moglie Spanò Aurora – mise a verbale la Cacciola – abitano a San Ferdinando e si può dire che il paese sia di loro proprietà, in quanto sono a conoscenza del fatto che, per qualsiasi investimento, anche per affittare una casa, è necessario chiedere l’autorizzazione a loro”.

Descrizione che la Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria ha riscontrato punto per punto nel corso dell’inchiesta “Tramonto” nell’ambito della quale la figura di Aurora Spanò va ben oltre quella della semplice compagna del boss Giulio Bellocco. Oltre alle intercettazioni inserite nell’ordine di custodia cautelare, le testimonianze vittime raccontano di una famiglia mafiosa di cui tutti avevano e hanno terrore a San Ferdinando. Chi non pagava doveva consegnare le chiavi della propria abitazione ad Aurora Spanò: “Mi disse che ci avrebbe buttato tutti fuori di casa – ha raccontato una delle vittime ai carabinieri – e suo figlio aggiunse che, se non avessimo subito consegnato loro gli appartamenti, avrebbero ucciso i miei fratelli che abitano al Nord. Ho molta paura sia per la mia incolumità che per quella dei miei familiari”.

I racconti dal carcere di Aurora. “Si rivolgevano a noi per avere giustizia”.
Una versione certamente più romantica quella che Aurora Spanò descrive nei suoi “racconti dal carcere”, finiti in un volume collettivo pubblicato dalla Mondadori, con i quali nel 2011 ha partecipato addirittura al premio “Goliarda Sapienza”. “Signor giudice, volete sapere chi sono io? – scrive la donna condannata a 25 anni di carcere – Ebbene, ascoltatemi. Chi fosse mio marito cominciai a scoprirlo con il tempo, e a condividere con lui gioie e dolori. Il mio uomo e la sua famiglia, undici fratelli, erano importanti e rispettati in paese e in tutta la provincia, se non in tutta la Calabria. Le persone si rivolgevano a loro per avere quella giustizia che spesso la legge non riusciva a garantire, per questo motivo nei rapporti delle forze dell’ordine apparivano come dei fuorilegge, perseguiti e accusati di tutto ciò che accadeva in paese, anche quando non c’entravano nulla. A causa di queste dicerie, mio marito fu ricercato attivamente da tutte le forze di polizia e costretto alla latitanza… Qual era l’ambiente nel quale sono vissuta? E come potevo, io, sottrarmi a queste regole?”.

Regole di una ‘ndrangheta che Aurora Spanò, senza pudore, sostiene essere formata da famiglie (mafiose) che vanno quasi in soccorso a uno Stato che in Calabria non riuscirebbe, secondo il suo modo di pensare, a garantire la giustizia.

Sentenze di morte recapitate dalle donne “postine”.
Aurora Spanò non è la prima donna mafiosa condannata a una pena pesantissima. Nel luglio scorso, è andata peggio a Lucia Giuseppa Morgante, vedova del boss Antonino Gallico e madre dei capicosca Giuseppe, Domenico e Rocco Gallico. Accusata di omicidio, la Corte d’Assise di Reggio Calabria l’ha condannata all’ergastolo, con 6 mesi di isolamento diurno. In attesa della Cassazione, la Direzione distrettuale antimafia (guidata dal procuratore Federico Cafiero De Raho) e i giudici di secondo grado ritengono che l’anziana donna (oggi ottantottenne) abbia “svolto il ruolo di ‘postino’ tra il figlio detenuto Gallico Giuseppe e il nipote Morgante Salvatore”. Un postino che, dal carcere, avrebbe consentito al boss ergastolano di fare arrivare gli ordini agli altri affiliati ancora liberi e impegnati in una faida contro la famiglia Bruzzese. Ordini che riguardavano le estorsioni e la gestione delle mazzette ma che in almeno due occasioni, secondo gli inquirenti, sarebbero state “ambasciate” di morte.

Lady ‘ndrangheta: il fuoco della vendetta.
Il matriarcato in chiave mafiosa non è un teorema di qualche magistrato. È un modo di pensare, un modo di essere che, alla luce delle risultanze investigative, colloca la donna nei ruoli più importanti della famiglia di ‘ndrangheta. Così è stato, per esempio, per le sorelle del boss Giovanni Strangio, condannato all’ergastolo per la strage di Duisburg, l’ultimo capitolo della sanguinosa faida di San Luca. In tutta la fase delle indagini e della latitanza del fratello, Angela e Teresa Strangio non hanno mai avuto momenti di cedimento. Sono state loro che hanno tenuto unita la famiglia, che mantenevano i contatti con il congiunto latitante e che, stando alle accuse della Dda, si occupavano addirittura del trasporto delle armi da guerra.

E ancora: negli archivi della Procura di Reggio sono famosi alcuni stralci di intercettazioni dell’inchiesta “Bellezza” in cui era emerso come il fuoco della vendetta cova sotto la cenere delle mogli e delle madri dei mafiosi di Africo. O dell’indagine “Cosa mia” coordinata dal pm Roberto Di Palma che ha scardinato la cosca Gallico di Palmi.

“Legalità contro omertà da Mondragone a Milano”: una recensione di ‘Mio padre in una scatola da scarpe’

(recensione da la Provincia di Cremona)

Schermata 2015-11-29 alle 09.44.19«Michele Landa non è un eroe, e neppure un criminale. Tutto ciò che desidera è coltivare il suo orto e godersi la famiglia; vuole guardarsi allo specchio e vederci dentro una persona pulita. Ma a Mondragone serve coraggio anche per vivere tranquilli: chi non cerca guai è costretto a confrontarsi ogni giorno con gli spari e le minacce dei Torre e con l’omertà dei compaesani». Giulio Cavalli queste cose le conosce bene. La promozione della cultura della legalità contro quella mafiosa è il suo pane da attore, autore e da (ex) politico. Tanto da portarlo, dal 2007, a vivere sotto scorta. Una vita dura, con pochi compromessi, che si riflette nel suo ultimo libro: ‘Mio padre in una scatola da scarpe – Capita a tutti l’occasione di essere giusti’. Cavalli sa cosa vuol dire pagare per un’idea. Quella che non si deve cedere mai, perché un passo dopo l’altro dalla comodità di una posizione un pò sonnolente si passa al compromesso irreversibile. Lui, invece, prima a teatro, poi sulle pagine dei suoi due libri, infine dai banchi del consiglio regionale, ha tenuto il punto. Anche quando nell’agosto 2013 il collaboratore di giustizia Luigi Bonaventura ha raccontato il progetto per farlo uccidere organizzato dalla cosca ’ndranghetista De Stefano-Tegano.

Da allora la sua vita è irrimediabilmente cambiata, sorretta anche dalla sua compagna, Miriana Trevisan. ‘Mio padre in una scatola di scarpe’ non è solo un romanzo, è un progetto: «Ispirato alla vera storia della famiglia Landa – racconta l’autore – il romanzo girerà l’Italia in un reading teatrale (…) Se mi avessero chiesto un romanzo civile, ecco, io, avrei scritto questo libro qui». Anche perché non si nasconde che con questo libro Cavalli spera di dare un contributo alla riapertura del caso – il cadavere di Michele Landa, guardia giurata, venne trovato in un’auto bruciata nel settembre del 2006 – ancora senza colpevoli. Cavalli racconta un’Italia dimenticata e indifesa, in un Sud con l’acqua alla gola, quando non senza del tutto, che forse non assomiglia alla città dell’Expo, ma alla Milano delle intimidazioni agli imprenditori in provincia, al racket degli alloggi popolari, al business ‘calabrese’ del movimento terra, ai piccoli negozi incendiati, alle riunioni di affiliazioni nei ristoranti comprati con i soldi riciclati, ai comuni sciolti per mafia, alle operazioni ‘Infinito’ e ‘Insubria’. ‘Non è un libro poliziesco. È un libro sulla cultura dell’illegalità, sull’abbandono delle tante persone perbene.

Volete un eroe? Se non vi spiace, è curdo.

Avete bisogno, a cicli regolari, di un eroe del coraggio e della difesa di diritti e di libertà?  Eccolo: è Tahir Elci, colui che in un Paese dove dissentire costa davvero (mica un paio di polemiche sui giornali) e che ha sempre parlato a voce alta, senza grande protezione, senza cedere al divismo e sempre con lo sforzo di riportare tutto alla giusta misura. E la giusta misura significa anche sminuire se stessi, appena ci si accorge di diventare simboli e quindi vuoti e muti. Ah, è morto, come tutti gli eroi che si rispettino. Niente di meglio, eh?

Quando scappa una foto

Ieri io e il collega (e amico) Saverio Tommasi abbiamo girato il video per Fanpage.it in cui torniamo al nostro primo mestiere di attori teatrali. E rappresentiamo questi tempi di stranieri, invasori, cattivi, stupidi e fascismi. Lo facciamo come lo sappiamo fare: con la parola e le facce e il dialogo davanti ad una telecamera. Praticamente un “corto teatrale”. Qualcosa mi dice che vi piacerà… via Instagram http://ift.tt/1LF6pVp

L’antimafia senza protagonismo? Semplice: toglietele i soldi.

pecunia_non_olet-600x450Ha ragione il Presidente del Senato (per presunti meriti antimafiosi) Pietro Grasso quando dice che l’antimafia ha bisogno di scrollarsi di dosso il protagonismo. Togliete i soldi. Fate in modo che non ci siano contributi per un’attività che deve essere un dovere costituzionale per i buoni cittadini. Fate in modo che gli amministratori siano bravi amministratori e magari anche antimafiosi, fate in modo che chiunque nel proprio mestiere abbia il piacere e la soddisfazione di prendere posizione sul tema senza contributi aggiunti. Vedrete come sarebbe bello (Gratteri in Calabria lo dice da anni). E vedreste chi rimarrebbe. Ma soprattutto chi no.

Buonanotte.

Armatevi e partite, à la guerre!

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(Il mio pezzo, ironico ma non troppo, per il mio buongiorno su Left. Che torna lunedì)

Era il vertice antiterrorismo ma sembrava qualcosa a metà tra il circo delle pulci e la corsa dei miopi. Il Ministro della Guerra Andrea Orlando ha detto che verranno intercettati anche i videogiochi dei vostri bambini, cambierà tutto: non ci sarà in tutto il Paese una sola casalinga di cui non si sappia le temperatura del forno acceso, non sfuggirà un lavaggio né di bianchi né di colorati e siccome il terrorismo si infila dappertutto sarà vietato per i prossimi mesi stringersi la mano. Ci si saluti piuttosto con un “buongiornoebuonasera” rispettando la distanza di almeno quindici centimetri.

Per facilitare il lavoro dell’intelligence sarà vietato utilizzare parole straniere: al posto di “jeans” si dica e si scriva “braghe di tessuto striato americano”, piuttosto che “ok” si dica “d’accordo rimaniamo intesi su questo punto di mediazione” e non si dica più “Isis” ma “formazione di brigantaggio criminale di ceppo islamico integralista maomettofilo”. Hanno scoperto, al vertice antiterrorismo, che al seguito dei risultati di approfonditi studi, meno fai e meno sbagli e quindi si consiglia di ridurre al minimo le attività essenziali: dormire poco, mangiare leggero, arrabbiarsi democristianamente ed evitare il caffè dopo le 17 e si può avere paura solo dalle 11 alle 14.

(continua qui)

#LEFT cosa ci abbiamo messo dentro

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«Il padrone mi ha detto che dovevo lavorare alle sue condizioni o mi mandava via. E la mia famiglia solo coi soldi di mio marito non può vivere». Questa è una delle tante storie di sfruttamento che vi raccontiamo nel nuovo numero di #Left dedicato al caporalato femminile. Qui il sommario con tutto quello che ci abbiamo messo dentro: http://goo.gl/JqxfPb