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Giulio Cavalli

Ci diamo il buongiorno tutti i giorni

Testata_Left_2015L’appuntamento è per le 9.30 sul sito di LEFT. Un buongiorno per cercare di imparare a guardare anche altrove, pensare senza correnti e semplicemente ritrovarsi. Oggi ho voluto cominciare chiedendomi (e cercando una risposta) dove siano l’ISIS e le altre organizzazioni armate quando non fanno la guerra, lo trovate qui.

Stiamo pensando al nome da dare all’appuntamento quotidiano. Si accettano suggerimenti.

Ah: dal lunedì al venerdì, perché il sabato LEFT dovete andarvelo a prendere in edicola o qui. Perché sono i lettori, che ci fanno giornale.

In centro a Milano la banca la fa la camorra

182639186-6ac49f6f-6579-448d-8160-475586f6bae4-300x225“Vieni a prenderti un caffè”. Non parlavano mai di soldi al telefono, con l’esperienza tipica dei criminali scafati e del resto Vincenzo Guida e Alberto Fiorentino sono criminali a Milano da circa quarant’anni e ormai sanno bene come non lasciare indizi in giro. Vincenzo Guida è il fratello del più famoso Nunzio che dagli anni ottanta fu il proconsole della camorra in Lombardia, alla guida di una famiglia che è riuscita negli anni a stringere accordi importanti con ‘ndrangheta e Cosa Nostra in una federazione criminale che funziona a pieno ritmo.

I due avevano organizzato una vera e propria banca in grado di prestare cifre considerevoli in brevissimo tempo (un imprenditore ha ricevuto 300.000 euro) applicando prestiti usurai e intimidendo poi le vittime con “sottili metodi di stampo camorrista”. L’operazione (denominata “Risorgimento” perché proprio in piazza Risorgimento a Milano i due avevano adibito i tavolini esterni di un bar come proprio “ufficio”) ha portato anche al fermo di altri due italiani, Giuseppe Arnhold e Filippo Magnone, con l’accusa di riciclaggio, mentre per Guida e Fiorentini rimane in piedi l’accusa di esercizio di credito abusivo aggravato dall’uso di metodi mafiosi. Le prime perquisizioni hanno trovato già tre milioni di euro in contante suddivisi in mazzette pronte per il prestito nell’abitazione di Guida. E la frase “vieni a prenderti un caffè” era la formula convenuta per fissare l’incontro.

Ma è la Boccassini a tratteggiare un pezzo di Milano collaborante piuttosto che vittima dichiarando senza mezzi termini come fossero spesso gli imprenditori a bussare alla porta dei criminali, sapendo esattamente di poter trovare una liquidità che difficilmente sarebbe stata reperibile nei canali legali. Per questo l’attività “parabancaria” in realtà presume anche l’esistenza di una classe imprenditoriale “paralegale” nella gestione dei propri interessi. “C’era gente che doveva restituire fino a 75 Mila euro al mese” ha spiegato il capo della Squadra Mobile di Milano, Alessandro Giuliano. Nessuno degli imprenditori ha denunciato. Nessuno. E anche questo è un dato da annotare per tutti quelli che ancora pensano che le “mafie” siano questioni non settentrionali.

(continua qui)

L’orrore delle bugie su Parigi

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Arianna Ciccone e tutti quelli che scrivono per Valigia Blu hanno cominciato da tempo una battaglia per ottenere dal giornalismo anche un po’ di serietà. Sembrerebbe una questione simpatica scritta così se non fosse che sulle false notizie che rimbalzano su tutti i socialcosi del mondo stanno contribuendo a minare una credibilità già piuttosto pericolante dopo anni di servilismi e scendiletto. Per questo vale la pena investire qualche minuto nel post in cui si stila un veloce elenco delle bugie più grosse raccontate sui fatti di Parigi (che dovrebbero avere anche l’aggravante di apologia al lutto) e l’articolo (tradotto) di Claire Wardle sulla necessità di un debunking in tempo reale che i media devono riuscire a fare in tempo reale.

Sono riflessioni che farebbero bene a tutta la categoria.

Detto da un abusivo, poi. Che sono io.

Non un poliziesco ma un’orazione civile (Gazzetta del Sud su ‘Mio padre in una scatola da scarpe’)

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«Michele Landa non è un eroe, e neppure un criminale. Tutto ciò che desidera è coltivare il suo orto e godersi la famiglia; vuole guardarsi allo specchio e vederci dentro una persona pulita. Ma a Mondragone serve coraggio anche per vivere tranquilli: chi non cerca guai è costretto a confrontarsi ogni giorno con gli spari e le minacce dei Torre e con l’omertà dei compaesani». Giulio Cavalli queste cose le conosce bene. La promozione della cultura della legalità contro quella mafiosa è il suo pane da attore, autore e da (ex) politico. Tanto da portarlo, dal 2007, a vivere sotto scorta, dopo la scoperta d’un progetto per farlo uccidere organizzato dalla cosca ‘ndranghetista De Stefano-Tegano.

«Ispirato alla vera storia della famiglia Landa – racconta l’autore – il romanzo girerà l’Italia in un reading teatrale. Se mi avessero chiesto un romanzo civile, ecco, io, avrei scritto questo libro qui». Anche perché non si nasconde che con questo libro Cavalli spera di dare un contributo alla riapertura del caso – il cadavere di Michele Landa, guardia giurata, venne trovato in un’auto bruciata nel settembre del 2006 – ancora senza colpevoli.

«Quando Angela mi ha raccontato la storia di suo padre, che è poi anche la sua – ha spiegato l’autore – io che la storia l’avevo già ascoltata da un giornalista e un amico, Sergio Nazzaro, mentre l’ascoltavo in diretta, così, ho avuto la sensazione che colasse. Non c’era niente di più da estrarre o da spulciare, sarebbe bastato un contenitore. Ecco, questo libro è la pinta di quella storia».

Giulio Cavalli racconta un’Italia dimenticata e indifesa, in un Sud con l’acqua alla gola, che forse non assomiglia alla città dell’Expo, ma alla Milano delle intimidazioni agli imprenditori in provincia, al racket degli alloggi popolari, al business “calabrese” del movimento terra, ai piccoli negozi incendiati, alle riunioni di affiliazioni nei ristoranti comprati con i soldi riciclati. (f.c.)

Finalmente, arresti tra i “Fardazza” Vitale a Partitico

0Gli uomini sono in carcere e le donne assicurano la guida e gli affari della cosca. E’ quanto accertato dalla Polizia di Stato di Palermo che ha arrestato per ricettazione in concorso, aggravata dal metodo mafioso, Maria Gallina, 59 anni, e Maria Vitale, 40 anni, rispettivamente moglie e figlia del boss Leonardo Vitale, gia’ recluso in carcere per mafia. Viene, cosi’ duramente colpita, afferma la polizia, ‘una delle cosche mafiose piu’ pericolose della provincia di Palermo’. Le indagini hanno accertato che mentre i capi del clan dei ‘Fardazza’ di Partinico erano in carcere, le donne della cosca continuavano a reggerne le sorti e gli interessi.

Il palazzo degli orrori

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A Caivano, quartiere Parco Verde, emerge un palazzo degli orrori in cui le violenze su bambini si mischiano con le loro morti mai chiarite. Un buco nero dentro la città che riesce a tessere un silenzio alto quanto un condominio. E torna subito in mente la frase sullo spaventoso “silenzio degli innocenti” che permettono o colpevolmente non si accorgono di quello che succede sullo stesso pianerottolo. Il male ha bisogno del terreno giusto dove l’indifferenza e la disattenzione sono il fertilizzante perfetto. Sarebbe bello sfrugugliare lì in mezzo.

#Mafiealtrove. Un approccio culturale.

2-e1447713698786Un bel lavoro delle parole emerse durante il convegno “Fare le mafie fuori”. Lo pubblica il lavoro culturale qui.

“Come è possibile ri-conoscere un fenomeno mutevole e fortemente ancorato alle interrelazioni con i contesti locali, qual è quello mafioso? Quali caratteristiche dei nuovi contesti possono favorire le attività dei gruppi mafiosi in territori lontani da quelli di origine? In che modo, in definitiva, è possibile individuare e contrastare le attività mafiose oggi?
Studiosi, giornalisti, politici, amministratori, esponenti della società civile e magistrati si sono confrontati su questi temi durante il convegno “Fare le Mafie Fuori”, promosso dalla Fondazione Fondo Ricerca e Talenti.
Il lavoro culturale ha seguito l’evento. Ai diversi relatori abbiamo richiesto un breve intervento sui temi discussi. Ne è venuto fuori un glossario delle parole chiave emerse a Torino, curato da Vittorio Martone e Antonio Vesco. Un autore (o un gruppo di autori) per ogni voce: forme e registri diversi per restituire sguardi autorevoli sul riconoscimento (pubblico, giuridico, scientifico) delle mafie altrove.”

Li armano e poi li combattono /11

Basta andare qui.

Sembra incredibile, ma in Italia c’è chi di giorno indossa i panni del fruttivendolo e la notte gioca a fare la guerra. Un filo rosso che parte da un paesino in provincia d’Imperia e arriva fino a dentro i palazzi di Agusta Westland – Finmeccanica. Nell’inchiesta realizzata da Sigfrido Ranucci, un trafficante d’armi svela alcuni dei meccanismi con i quali le armi arrivano nei paesi africani e in Medio Oriente. Il trafficante racconta anche dell’addestramento fatto sotto copertura nello Yemen dai militari italiani, finalizzato a preparare guerriglieri arabi da utilizzare in funzione anti Isis. Finito l’addestramento, però, nel giro di poche ore i combattenti sarebbero passati nelle fila dei terroristi. Dall’inchiesta emerge soprattutto la storia di una struttura clandestina dedita all’arruolamento di contractor e all’addestramento di milizie. Una struttura formata da un ex camionista e rappresentante di aspirapolveri, coinvolto in passato in un traffico d’armi; un fruttivendolo sospettato di essere il punto di riferimento di Michele Zagaria, il più feroce dei capi del clan dei Casalesi; un colonnello dell’aeronautica in congedo; ex membri della legione straniera ed ex carabinieri. Tutti insieme, coordinati da un ex promoter della Mediolanum, avrebbero partecipato, con vari ruoli, a un progetto di addestramento di milizie su richiesta di un somalo che ha vissuto a lungo in Italia. Ufficialmente la finalità dell’addestramento sembra essere quella di formare milizie anti pirateria da utilizzare nei mari adiacenti il corno d’Africa. Ma è così? E perché il somalo utilizza una struttura clandestina invece di quelle ufficiali per realizzare il suo progetto? Sullo sfondo emerge il sospetto e il rischio che queste milizie possano confluire nelle fila delle organizzazioni terroristiche. Dall’inchiesta emerge anche che l’ex promoter della Mediolanum cercherebbe di piazzare in paesi sotto embargo elicotteri prodotti da Finmeccanica – Agusta, su incarico di Andrea Pardi, cioè del manager della società Italiana Elicotteri che si è reso protagonista circa un mese fa dell’incredibile aggressione al nostro inviato Giorgio Mottola. Pardi, per vendere a paesi in conflitto o sotto embargo, si sarebbe fatto aiutare da politici insospettabili.

Li armano e poi li combattono /10

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Il più vicino territorio italiano (l’isola di Lampedusa) dista dalla Libia 355 km in linea d’aria (mentre dista dalla Tunisia 167 km), ma per qualcuno “l’invasione” dell’ex bel paese da parte della potente armata dell’Isis (che non dispone di un esercito regolare né tanto meno di una marina o un’aviazione da guerra) è prossima, quasi imminente, così al grido di “armiamoci e partite” c’è chi sostiene l’opportunità di un intervento armato italiano in terra libica, ex colonia tricolore un tempo governata. Ma chi ci guadagna da una guerra? Al di là dell’aspetto politico (è noto da tempo che l’Arabia Saudita da un lato, la Russia dall’altra, cercano di ottenere la supremazia nell’area medio orientale, interessi che contrastano quelli di paesi come Iran, ma anche Cina, Stati Uniti e persino Francia e Gran Bretagna) una guerra va quasi sempre a impattare sui traffici legali o illegali di armi di vario genere.

L’Isis, ad esempio, ha iniziato ad essere sotto i riflettori dei media occidentali da un paio d’anni, ossia da quando ha intensificato la sua lotta in Siria e in Iraq contro il regime del presidente sciita Bashar al Assad. Ma l’Isis è legato a Abu Musab al-Zarqawi, un combattente giordano che fonti vicine alla Cia e al partito Repubblicano Usa hanno presentato sin dal 2004 come un “lupo solitario” antagonista di Osama Bin Laden (la cui famiglia aveva fin troppo imbarazzanti relazioni d’affari con la famiglia Bush) per la guida di Al Qaida. Inizialmente descritto come “protetto” dai più alti livelli del governo iraniano al-Zarqawi è stato ucciso nel 2006 da un attacco aereo congiunto giordano-stattunitense dopo aver rischiato, secondo alcune fonti, di essere consegnato proprio dall’Iran agli Usa nell’ambito di un accordo poi sfumato e mai confermato da fonti ufficiali.

Quel che appare certo è che i suoi successori (Abu Omar al-Baghdadi prima, ucciso a sua volta nel 2010, Abu Bakr al-Baghdadi autoproclamatosi “califfo” dell’Isis ora) si trovano di fatto sul fronte opposto dei loro ex protettori, visto che l’Iran al momento schiera le proprie milizie in Iraq per combattere i guerriglieri dell’Isis, mentre l’Arabia Saudita è tra i sostenitori dell’Egitto, impegnato a sua volta come la Giordania a combattere i guerriglieri dopo le ultime uccisioni di civili e militari giordani ed egiziani. Ma oltre a chi ha fornito soldi, armi e coperture all’Isis e ai suoi leader, chi è tuttora tra i suoi sostenitori?

La verità la sanno, forse, i servizi segreti militari, ma certo se il quadro delle alleanze “politiche” è a dir poco variabile e incerto, le fonti economiche del “business” dell’Isis sembrano molto più stabili. La sola vendita di petrolio estratto da una sessantina di pozzi in precedenza sotto il controllo di Siria e Iraq avrebbe permesso lo scorso anno di incassare una cifra che Issam al-Chalabi, già ministro del Petrolio iracheno ai tempi di Saddam Hussein stimò attorno ai 150 milioni di dollari, pur trattandosi di petrolio venduto a “forte sconto” (30-40 dollari al barile quando le quotazioni ufficiali erano ancora attorno ai 100 dollari al barile).
Ai prezzi attuali è tuttavia ipotizzabile che tali ricavi si siano dimezzati o ridotti a un terzo. Ci sarebbero poi i saccheggi compiuti nei territori conquistati: l’assalto alla sola banca centrale di Mossul, città caduta in mano all’Isis nel giugno dello scorso anno, avrebbe fruttato qualcosa come 430 milioni di dollari. Cifre, va ribadito, estremamente difficili da verificare, come non è facile verificare di quali forze disponga nel concreto l’Isis. Nel giugno dello scorso anno secondo Charles Lister il totale dei miliziani era di circa 8 mila uomini mentre secondo Michael Pregent e Michael Weiss, in gran parte dotati di fucili AK-47 come armamento individuale. Sempre dopo la caduta di Mossul l’Isis avrebbe messo le mani su una trentina di carri armati M1 Abram di fabbricazione americana, più varie armi anche pesanti di fabbricazione russa.

Altre fonti hanno indicato la disponibilità di 10-20 carri armati T-54/55, 20-30T-62 e una mezza dozzina di T-72, più alcune decine di missili a medio raggio SA-6 Gainful (utilizzato come sistema antiaereo e con una gittata utile di 24 km massimi, quindi del tutto incapace di colpire obiettivi italiani anche se fosse sparato dalla punta estrema della Tunisia, oltre che dalla ben più lontana Libia). Numerosi anche i missili anticarro, i lanciarazzi (montati su Suv) i lanciagranate e una serie di obici e cannoni anticarro e antiaereo, anche di produzione cinese (ma pure statunitense come nel caso dei missili Stinger), con gettate dai 900 metri ai 27 km massimi. Non è chiaro tuttavia in che misura tale arsenale sia mantenuto in efficienza ed eventualmente da chi. Escluso che possano essere forniti aiuti militari ufficiali, rifornimenti e parti di ricambio potrebbero giungere attraverso canali illegali o comunque non ufficiali.

Da parte sua l’Italia, che dall’intervento armato in Libia voluto dalla Francia ha finora avuto più problemi che benefici, perdendo tra l’altro varie commesse che erano state concesse dal precedente regime libico a imprese italiane in particolare nel settore petrolifero e delle costruzioni e opere civili, oltre che nei trasporti e nella meccanica, con gruppi come Eni, Terna, Finmeccanica, Prysmian o Trevi che hanno visto svanire investimenti pluriennali per decine di miliardi di euro, rischia ora di subire la perdita, nel caso di totale destabilizzazione della Libia, delle forniture di gas (quello del giacimento libico di Bahr Essalam, ma anche quello tunisino di Wafa) che raggiungono il nostro paese attraverso il gasdotto Greenstream, il più grande del Mediterraneo che collega Mellitah, in Libia, con Gela, in Sicilia.

Greenstream, che ha già subito temporanee chiusure nel 2011 e nel 2013, può trasportare sino a 10 miliardi di metri cubi di gas all’anno e per la sua realizzazione Eni, con la francese Total la più esposta tra le major petrolifere occidentali in Libia, ha investito 7 miliardi di euro, ossia poco meno di un anno di interscambio import-export tra Italia e Libia, interscambio che dal 2011, quando è iniziata la rivolta contro il regime di Geddafi si è sensibilmente ridotto e che gli scontri tra varie fazioni libiche, anche prima della minaccia dell’Isis, ha ulteriormente fatto calare, tanto che dai 10,942 miliardi del 2013 (pari a poco più della metà rispetto ai 20,054 miliardi segnati nel 2008), nei primi sei mesi del 2014 si erano fermati a 4,786 miliardi.

Di questi 1,732 miliardi erano rappresentati da esportazioni italiane verso la Libia e 3,054 miliardi da importazioni italiane dalla Libia. Per difendere questi interessi, vale la pena di scatenare una guerra contro un esercito fantasma, consci dei fallimenti di almeno 15 anni di politica occidentale in Medio Oriente? O non è forse meglio provare altre strade, affiancando ad una sorveglianza di tipo militare, che pure ha i suoi costi (Mare Nostrum, l’operazione di pattugliamento marittimo durata un anno, è costata 9,5 milioni al mese per complessivi 114 milioni di euro, Triton, successiva operazione tuttora in essere, costa 3,5 milioni), la cui copertura finanziaria andrebbe trovata verosimilmente con ulteriori tasse o addizionali sulle accise e che peraltro sarebbero di gran lunga inferiori a quelle di una nuova missione militare in terra straniera (per fare un esempio, quella in Afghanistan costa oltre 130 milioni di euro a trimestre, quella in Libano una quarantina, quella in Kossovo oltre 22 milioni), una maggiore cooperazione con forze locali che si oppongono all’Isis?

(fonte)