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Giulio Cavalli

Li armano e poi li combattono /9

La Turchia consente attraverso le sue frontiere la vendita all’Isis di fertilizzante che può essere utilizzato per realizzare esplosivi. A sostenerlo è il New York Times con un’inchiesta dalla città di Akcakale, al confine con la Siria.

Secondo il quotidiano, in queste settimane decine di camion carichi di nitrato di ammonio, un composto chimico che può essere impiegato sia come fertilizzante che per la costruzione di bombe, hanno attraversato la frontiera per consegnare il materiale nella cittadina siriana di Tal Abyad, che si trova sotto il controllo dell’Isis da quasi un anno. Le autorità locali sostengono che è tollerato solo il commercio di fertilizzante a basso contenuto di nitrato, che avrebbe minori capacità esplosive.

Ad Akcakale, tuttavia, sono in pochi a credere che il fertilizzante serva davvero per aiutare i contadini siriani. “Non è per l’agricoltura, è per le bombe”, dichiara Mehmet Ayhan, politico dell’opposizione candidato al Parlamento. Ayhan non si oppone a questo tipo di commercio, dal momento in cui crea posti di lavoro in una città impoverita. “Fino a quando i turchi possono trarne dei benefici, è un fatto positivo”.

Nelle ultime settimane la Turchia ha rafforzato i controlli alle sue frontiere per evitare il passaggio in Siria dei cosiddetti foreign fighters, ma il commercio di beni verso zone controllate dallo Stato islamico continua a essere tollerato. Ma un conto è quando si parla di drink energizzanti, un altro quando si tratta di un fertilizzante usato per realizzare potenti esplosivi. E su questo c’è poco da dire: l’aperto trasporto di nitrato di ammonio nei territori gestiti dall’Isis pone dubbi persistenti sul reale impegno della Turchia a isolare i jihadisti suoi vicini.

Secondo John Goodpaster, un perito chimico consultato dal Nyt, con 90 kg di nitrato di ammonio è possibile equipaggiare un’autobomba, mentre con 9 kg si potrebbe condurre un attacco kamikaze. Nei soli camion rintracciati ne sarebbero state contenute 25 tonnellate. Il nitrato di ammonio è stato utilizzato per compiere diversi attentati, tra cui quello al consolato britannico di Istanbul che nel novembre 2003 causò 27 morti.

Rapporto Amnesty: “Ad Aleppo atrocità indicibili”

Oltre alle vessazioni dello Stato islamico, la popolazione siriana è sottoposta ad “atrocità indicibili” da parte del regime di Bashar al Assad e delle frange più violente delle forze di opposizione. Soprattutto ad Aleppo, dove le forze del regime siriano continuano a commettere “crimini contro l’umanità” bombardando in modo cieco e indiscriminato la città. La denuncia arriva da Amnesty International che non risparmia neppure le forze ribelli, responsabili di “crimini di guerra”.

Nel suo ultimo rapporto l’ong afferma che i raid ininterrotti dell’aviazione siriana contro l’ex capitale economica del paese costringono gli abitanti “a condurre un’esistenza sotterranea”.

Amnesty condanna “gli atroci crimini di guerra e le altre violenze compiute quotidianamente nella città dalle forze governative e dai gruppi di opposizione”. “Alcune azioni del governo ad Aleppo equivalgono a crimini contro l’umanità”, afferma Amnesty.

Il rapporto critica soprattutto il ricorso ai bombardamenti aerei con i cosiddetti barili bomba, un’arma particolarmente devastante e che uccide in modo indiscriminato. “Prendendo di mira in modo deliberato e ininterrotto i civili, il governo sembra aver adottato una politica di punizione collettiva contro la popolazione civile ad Aleppo”, afferma il direttore della sezione Medioriente di Amnesty, Philip Luther. Il presidente Bashar al Assad ha sempre negato il ricorso a queste armi che, secondo Amnesty, “provocano un terrore puro e sofferenze inimmaginabili”.

Ma l’ong critica anche i gruppi ribelli ad Aleppo, una città divisa dal 2012 tra la zona orientale in mano agli insorti e quella occidentale controllata dal regime. Il rapporto assicura che i ribelli hanno commesso “crimini di guerra” utilizzando “armi imprecise come i mortai o razzi artigianali fabbricati con bombole del gas e soprannominati ‘cannoni dell’inferno’”. Questi proiettili, sparati regolarmente dai ribelli contro la parte occidentale della città, hanno causato la morte di almeno 600 civili nel 2014. L’anno scorso i barili bomba hanno ucciso invece almeno 3.000 civili nella provincia di Aleppo. Il rapporto fa riferimento anche al ricorso alla “tortura su vasta scala, detenzioni arbitrarie e sequestri, compiuti tanto dall’esercito che dai gruppi di opposizione armati”.

(fonte)

Li armano e poi li combattono /8

 di Davide Mancino per Wired)
Schermata 2015-11-16 alle 21.47.54“L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà dei popoli e come mezzo di risoluzione delle controverse internazionali.” Facile a dirsi, lo prevede la Costituzione – articolo 11. Ma la realtà è molto diversa: basta guardare in Siria. Secondo i documenti ufficiali dell’Unione Europea e i dati resi disponibili dal Campaign Against Arms Trade (Caat), l’ Italia è il primo partner europeo per le spese militari del regime di Assad. Dal 2001 la Siria ha acquistato in licenza armi nel vecchio continente per 27 milioni e 700mila euro. Di questi, quasi 17 arrivano dal nostro Paese.Il Regno Unito, al secondo posto, supera appena i due milioni e mezzo; segue l’ Austria che ha fornito veicoli terrestri per altri due milioni, poi Francia Germania, e infine Grecia Repubblica Ceca, con poco più di un milione di euro. Dai dati ufficiali si scopre che Parigi e Atene hanno ceduto soprattutto aerei droni, mentre mancano all’appello armi per altri cinque milioni di euro, non dichiarate.

E l’ Italia, invece, cosa ha venduto esattamente? Non sappiamo con precisione quali armi abbiamo esportato, ma qualche indizio ci viene dalla Rete, guardando uno dei tanti video in cui si vedono carri armati siriani fare fuoco – anche sui civili. In quei fotogrammi si distingue il sistema Turms: un visore termico e laser che consente ai carri di sparare con altissima precisione anche in movimento, commercializzato da Selex Es. Ovvero un’impresa del gruppo Finmeccanica – a partecipazione pubblica – firmataria nel 1998 di una mega-commessa da 229 milioni di dollari durante i governi Prodi-D’Alema.

Equipaggiamenti che non sono stati certo fermi: nel 2003 – con Silvio Berlusconi in carica – le consegne raggiungono il loro picco, per poi proseguire fino al 2009. Nel mezzo, però, c’è l’ invasione dell’Iraq da parte degli Stati Uniti. Proprio nel 2003, dopo un’inchiesta del Los Angelese Times, il segretario alla difesa Donald Rumsfeld accusava il regime di Assad di aver fornito armi a Saddam Hussein aggirando l’embargo militare imposto all’Iraq. Gli equipaggiamenti forniti da Damasco sarebbero visori per il puntamento notturno dei carri armati: proprio come quelli venduti dal nostro Paese.

Il dubbio, che successive indagini non hanno mai confermato né smentito, è che a beneficiare dei sistemi prodotti da Selex sia stato proprio l’ esercito iracheno. Non proprio un colpo di genio per la politica estera italiana, chiamata poco più avanti a partecipare alla stabilizzazione del Paese con un proprio contingente.

La storia continua fino ai giorni nostri, quando la guerra civile sconvolge la Siria e spinge Assad a schierare il proprio esercito. I carri armati che sparano sui ribelli – ma anche su semplici civili – hanno la mira più accurata, una precisione garantita dalla migliore tecnologia italiana.

Ma la Siria non è quasi più una nazione che possa definirsi tale: il livello del conflitto è tale che persino l’esercito non ha più il controllo delle proprie armi. Anche i ribelli sono entrati in possesso di carri armati catturati o consegnati da ufficiali disertori, in un crescendo che rende la possibilità (o la necessità) di un intervento militare straniero sempre più incerta e confusa.

Abbiamo ricostruito la storia delle vendite di armi italiane in Siria in una visualizzazione interattiva che vi proponiamo qui di seguito. Per andare avanti nella lettura basta cliccare sulla freccia a destra sulla vostra tastiera oppure a schermo. Per un risultato migliore vi consigliamo di ingrandire la finestra a schermo intero.


(Credit per la foto: LaPresse)

Li armano e poi li combattono /7

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(di Lorenzo Cremonesi, inviato a Erbil da Il Corriere della Sera del 13 agosto 2014)

Viaggiando in piena notte tra Erbil, la capitale della zona autonoma curda, e la cittadina di Dahuk, sulla provinciale che porta in Turchia, salta all’occhio quanto precaria sia la situazione. Dove ancora a fine luglio la minaccia dell’invasione islamica appariva remota, e comunque sotto controllo, ora vige l’incertezza. Larghe fette di territorio sono prese e perdute in operazioni della durata di poche ore. «Siamo pienamente consapevoli del fatto che, nonostante l’intervento militare americano, le forze del Califfato potrebbero ancora attaccarci e riuscire a mettere in dubbio l’esistenza stessa delle aree autonome curde», ammette Fuad Hussein, capo del gabinetto del presidente della provincia autonoma del Kurdistan iracheno Massoud Barzani. «Per questo motivo ringraziamo gli Stati Uniti per il prolungamento dei loro blitz e chiediamo alla comunità internazionale di fornirci qualsiasi aiuto militare possibile», aggiunge.

All’origine dell’evidente disorientamento tra i curdi e le loro richieste di assistenza sta il totale effetto sorpresa causato dell’offensiva lanciata dalle brigate islamiche ai primi di agosto. E’ come se il vecchio mito degli indomiti guerriglieri curdi sempre all’erta sulle montagne fosse un poco ossidato. I giovani sono meno propensi al sacrificio. Il benessere degli ultimi anni li distrae. E gli eroi delle guerre contro Saddam Hussein sono in pensione. Pure, in tanti tra questi rispondono alla mobilitazione, anche se con i baffi grigi e la pancetta. «Sinceramente non ci aspettavamo che i radicali sunniti potessero attaccarci tanto presto. Ci avevano provato a giugno e li avevamo battuti. Quindi avevano concentrato i loro sforzi per la conquista di Bagdad. Ancora adesso stentiamo a comprendere la loro logica. Nell’arco di poche ore hanno distolto uomini e mezzi dal loro obbiettivo principale per lanciarli verso nord», dice il generale Helgurd Hikmet Mela Ali, responsabile per la comunicazione dei peshmerga.

La spiegazione più calzante giunge però dall’esame degli arsenali di carri armati, autoblindo, artiglierie, mitra e munizioni di ogni calibro catturati dalle brigate islamiche all’esercito regolare iracheno durante la loro presa di Mosul e la strabiliante serie di vittorie nel centro-nord del Paese ai primi di giugno. Allora ben sei divisioni regolari irachene armate ed equipaggiate di tutto punto alzarono le mani e si dettero alla fuga praticamente senza combattere. «Da quel momento le ancora disordinate e male armate milizie islamiche hanno subito una trasformazione radicale. Da forse 30.000 guerriglieri più o meno improvvisati sono diventati un vero esercito con oltre 100.000 soldati dotato di armi e mezzi molto più sofisticati dei nostri. Noi usiamo ancora le armi prese all’esercito di Saddam Hussein battuto degli americani nel 2003, loro posseggono il meglio della tecnologia bellica made in Usa. Sappiamo che in due grandi basi a Mosul e una ancora più vasta a Beiji erano stoccati centinaia di gipponi blindati ultimo modello, batterie da 150 millimetri in grado di sparare a oltre 30 chilometri di distanza, oltre a depositi immensi di munizioni di ogni calibro e tipo. Ormai il Califfato è uno Stato, un’entità territoriale organizzata che controlla un’armata super equipaggiata e con ottimi soldati addestrati sui campi di battaglia, specie quelli nella Siria degli ultimi tre anni», spiega ancora Hussein.

Non stupisce che i primi raid Usa abbiano colpito alcune batterie di cannoni che stavano per sparare su Erbil e il suo aeroporto internazionale. Gira voce che gli islamici posseggano anche missili terra-aria, ma non ci sono conferme. «I nostri peshmerga si accorsero subito che i loro bazooka anticarro erano impotenti di fronte alle blindature dei mezzi in mano al nemico. Nella piana di Ninive, attorno ai villaggi cristiani, l’unica scelta possibile è stata la ritirata». Lo stesso avvenne per le unità attestate attorno alla diga che forma il gigantesco bacino idrico di Mosul. I comandi curdi non credono ora che i capi del Califfato intendano distruggerla. «Se lo facessero, l’intera città di Mosul e parte di quella di Kirkuk, assieme a diversi pozzi petroliferi, sparirebbero sotto 11 metri d’acqua. Ma a pagare il prezzo sarebbe anche il Califfato, visto che proprio a Mosul ha posto il suo quartier generale. Usano la diga per ricattarci: se noi dovessimo cercare di riprenderla e loro si sentissero minacciati, allora sì che potrebbero distruggerla», dice Hikmet.

Uno scenario diverso presenta invece la regione della montagna di Sinjar, nelle regioni occidentali al confine con la Siria, ove sono tutt’ora intrappolati migliaia di yazidi. «Quella zona è complicata. Tutto attorno vivono tribù arabe sunnite, che sono passate nei ranghi del Califfato, specie dopo la sua cattura della città di Tel Afar. Ciò rende difficilissimi i movimenti dei peshmerga. Le colonne islamiche hanno preso i villaggi uno per uno, causando la fuga di massa delle popolazioni. I nostri soldati sono accorsi per salvare le loro stesse famiglie e si sono uniti all’esodo dei profughi», ricorda Hussein. La presenza massiccia di volontari locali ha dato un importante vantaggio agli islamici: la conoscenza del terreno. I comandanti curdi guardano preoccupati alla commistione tra jihadisti fanatici arrivati dall’estero (parlano di ceceni, libici, afgani, cinesi, ma anche olandesi, francesi, inglesi) e guerriglia sunnita locale. Per combatterli chiedono carri armati, moderne armi anticarro, aerei, elicotteri, munizioni. Conclude Hussein: «Noi non possiamo farcela da soli. Voi europei dovete capire che la nostra battaglia è la vostra battaglia. Dopo Erbil il Califfato mirerà a Roma, Londra, Parigi».

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7e0bde0e29b0fb71ea0471224596dcaaAnche quest’anno è stato pubblicato il report annuale “Don’t bank on the bomb” a cura di PAX e dell’International Campaign to Abolish Nuclear Weapons (ICAN) con il quale le due organizzazioni intendono incrementare la trasparenza sui finanziamenti delle armi nucleari e stimolare il dibattito pubblico a sostegno della loro delegittimazione.

Come sempre il report, chiaro nelle sue argomentazioni, evidenzia una carenza di informazioni ufficiali di pubblico dominio sulla produzione e sugli investimenti delle medesime armi.

Esso non riporta ogni singolo investimento e non include gli investimenti fatti da governi, università o chiese, ma solo dalle istituzioni finanziarie, prendendo in considerazione una varietà di fonti (rapporti delle ONG, report delle istituzioni finanziarie, siti web e altre fonti pubbliche).

I nove Paesi dotati di armi nucleari (Cina, Corea del Nord, Francia, India, Israele, Pakistan, Federazione Russa, Regno Unito e Stati Uniti) stanno modernizzando i propri arsenali. Alcuni di essi si giustificano dietro la pretesa della manutenzione, mentre altri annunciano apertamente la produzione di nuove tecnologie e piani di sviluppo.

Ad esempio, il Congressional Budget Office nel gennaio 2015 ha comunicato che gli Stati Uniti spenderanno circa 350 miliardi di dollari nei prossimi dieci anni per potenziare e mantenere il proprio arsenale nucleare. Si arriverà a 1.000 miliardi di dollari nell’arco di trenta anni. Il solo programma di radicale modernizzazione delle testate nucleari tattiche B61, di cui 70 sono sul territorio italiano, costerà circa 10 miliardi di dollari. Queste testate saranno destinate ad essere trasportate dai nuovi aerei F35, 90 dei quali saranno acquistati dall’Aeronautica italiana come è stato confermato dalla recente legge sul Bilancio dello Stato 2016” nota Maurizio Simoncelli, vicepresidente dell’Istituto di Ricerche Internazionali Archivio Disarmo (IRIAD).

Si stima che la spesa mondiale per queste armi sia di oltre 100 miliardi di dollari ogni anno. Questa spesa serve per assemblare nuove testate, modernizzare le vecchie e costruire missili, sistemi di lancio e tecnologie di supporto.

Se la maggior parte del finanziamento per le armi nucleari proviene da contribuenti che hanno sede all’interno dei Paesi nucleari, una parte consistente proviene anche da investitori privati di Paesi non-nucleari.

All’interno del report, le istituzioni che finanziano queste attività sono elencate in tre gruppi in base alla misura del loro coinvolgimento nel finanziamento dell’industria militare nucleare intesa come insieme delle aziende che producono componenti chiave per testare, sviluppare, mantenere, modernizzare e dislocare le armi nucleari:

a)   Nella cosiddetta “Hall of Fame” rientrano 13 istituzioni finanziarie a livello globale (5 in più dello scorso anno) che in maniera attiva e significativa hanno adottato, applicato e pubblicato politiche globali di prevenzione contro qualsiasi tipologia di finanziamento ai produttori di armi nucleari. Queste istituzioni finanziarie cosiddette “virtuose” si trovano in Danimarca, Italia, Paesi Bassi, Norvegia, Svezia e Regno Unito;

b)   40 istituzioni finanziarie (cc.dd. “Runners-Up”), invece, hanno intrapreso una strada di esclusione parziale dei finanziamenti;

c)   382 banche, compagnie assicurative, fondi pensione di 27 diversi paesi (“Hall of Shame”) investono significativamente nell’industria delle armi atomiche. 238 hanno sede in Nord America, 76 in Europa, 59 in Asia e nel Pacifico, 9 in Medio Oriente. Si tratta di 29 istituzioni in meno rispetto all’anno precedente.

Per quanto riguarda l’Italia vi sono alcuni esempi virtuosi e altri meno. Banca Etica rientra nella “Hall of Fame”. Unicredit e Intesa San Paolo nella lista dei “runners-up”. Nel complesso, 11 istituti bancari italiani hanno concesso una somma totale di 4 miliardi e 149 milioni di euro a 26 società. L’azienda Finmeccanica, di cui il 30,2% è del Ministero dell’Economia e delle Finanze, fa parte della “Hall of Shame”. A partire dal 2013 è legata alla produzione di testate destinate a far parte dell’arsenale francese e attraverso la joint venture MBDA e di un programma per la consegna di veicoli di supporto al missile balistico intercontinentale dell’esercito statunitense.

La gran parte dell’opinione pubblica globale concorda sull’inaccettabilità delle armi nucleari. In che modo, dunque, è possibile facilitare la loro eliminazione? Quali pressioni si possono realisticamente effettuare? Se le nucleari sono le uniche armi di distruzione di massa a non essere ancora illegali, quali lezioni si possono trarre dalle esperienze passate sulla messa al bando di altre armi “inumane”?

Innanzitutto, delegittimare le armi nucleari e dimostrare l’opposizione della Società Civile al loro possesso aiuta gli sforzi negoziali per renderle illegali, facilitandone di conseguenza l’eliminazione. Nessuna arma, infatti, è mai stata eliminata senza essere stata messa al bando e senza essere prima stata delegittimata dalla società.

Come la società civile, anche le istituzioni finanziarie nel tempo hanno accolto questo principio, ma, come dimostra il report, la strada è ancora lunga.

Infatti, i 10 maggiori investitori, tutti con sede degli Stati Uniti, da soli hanno fornito capitali per più di 209 miliardi di dollari. Tra questi i primi 3 (Capital Group, State Street e Balckrock) hanno investito più di 95 miliardi.

In Europa, i maggiori investitori sono BNP Paribas (Francia), Royal Bank of Scotland (Regno Unito) e Crédit Agricole (Francia).

53 istituzioni finanziarie, invece, hanno pubblicamente messo in moto politiche virtuose, 18 in più rispetto al 2014.

ABP, un fondo pensione olandese, ha deciso di interrompere i rapporti con le società indiane Larsen & Toubro e Walchandnagar.

Fonds de Compensation, un fondo investimenti lussemburghese, ha deciso di bloccare definitivamente i finanziamenti ad AecomFluor e Huntington Ingalls.

Infine, Nordea, una banca svedese, ha annunciato nel maggio 2015 di voler escludere dai propri finanziamenti la Boeing, a causa del coinvolgimento della stessa nella produzione di componenti per i missili Trident D5.

SEBSwedbank (banche svedesi), Co-operative Bank (Regno Unito) e la Pensioenfonds Horeca & Catering (Olanda) hanno rafforzato politiche simili.

La pubblicizzazione delle politiche che proibiscono gli investimenti ai produttori di armi nucleari può dar vita ad un effetto domino di delegittimazione che coinvolge altre istituzioni finanziarie.

È quanto accaduto con alcune delle “Hall of Fame” e “Runners-up”  che hanno discusso diversi modi per prevenire i finanziamenti delle armi nucleari.

Questo sistema di delegittimazione, volto ad interrompere i flussi finanziari, ha trovato efficace applicazione nella precedente campagna internazionale contro le “cluster bombs”.

A differenza delle armi nucleari, queste sono state chiaramente bandite tramite uno specifico trattato internazionale, nonostante non tutti i paesi abbiano cessato di produrle o acquistarle.

Il suo successo evidenzia come la pressione economica abbia un grande ruolo nell’interrompere la produzione delle armi “inumane”, anche quando queste armi sono ancora vendute a paesi che non rientrano nel regime dei trattati.

Pertanto, secondo il Rapporto, tagliare i finanziamenti privati alle aziende del settore nucleare militare può certamente dimostrarsi una strategia efficace per bloccarne la produzione, non sostenibile da parte dei singoli stati.

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Il rapporto completo è reperibile QUI.

La sintesi del rapporto è stata curata da Emanuele Greco, Maged Srour, Maria Carla Pasquarelli.

(fonte)

Li armano e poi li combattono /5

popolimissione

A far discutere, di recente, è soprattutto l’invio di armi e di uomini dall’Italia all’Iraq, in funzione anti Isis – inchiesta di Ilaria de Bonis per “Popoli e Missione”
Il nostro Paese non solo spende una fortuna per il settore della Difesa (nel mirino della società civile per l’improvvido acquisto degli F35), ma è anche tra i Paesi europei che più esportano armi in Medio Oriente. Quest’anno l’Italia ha persino superato Francia e Germania nella vendita di armi verso Israele: il dato viene dall’Osservatorio permanente sulle armi leggere e politiche di sicurezza e difesa. Per impedire di “gettare benzina sul fuoco” in aree del mondo in cui l’equilibrio è già molto precario – alla vendita si è aggiunto anche l’invio gratuito di armi all’Iraq la Rete Italiana Disarmo ha chiesto al governo chiarimenti. I centri di ricerca che vi aderiscono producono periodicamente analisi puntuali delle relazioni governative, segnalando le numerose vendite di sistemi militari nelle zone di conflitto, ai regimi autoritari e anche ai Paesi fortemente indebitatati che spendono rilevanti risorse in armamenti.

Solo lo scorso anno – informa Rete Disarmo – su un totale di poco più di 2,1 miliardi di euro di esportazioni autorizzate, comprensivo dei “programmi intergovernativi”, quasi il 51,5% ha riguardato Paesi non appartenenti né all’Ue né alla Nato, cioè un insieme di Paesi che non fanno parte delle principali alleanze politiche e militari dell’Italia. In particolare, oltre 709 milioni di euro, pari al 33% delle autorizzazioni sono state rilasciate ai Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa. Ma soprattutto nel 2013 sono stati effettivamente esportati verso questi Paesi (in cui non è inclusa la Turchia) sistemi d’armamento per quasi 810 milioni di euro pari al 29,4% del totale.
«L’Italia – spiega l’analista Giorgio Beretta – è il maggiore esportatore dell’Unione europea di sistemi militari e di armi leggere verso Israele: si tratta di oltre 470 milioni di euro di autorizzazioni per l’esportazione di sistemi militari rilasciate nel 2012 (dati del Rapporto Ue) ed oltre 21 milioni di dollari di armi leggere vendute dal 2008 al 2012». In percentuale, oltre il 41% degli armamenti regolarmente esportati dall’Europa verso Israele sono italiani. Ma a far discutere, di recente, è soprattutto l’invio di armi e di uomini dall’Italia all’Iraq, in funzione anti Isis. Il nostro governo ha deciso di inviare: un aereo Kc-767 per il rifornimento in volo, due velivoli senza pilota Predator, 280 militari, tra istruttori delle forze curde che contrastano l’Isis ad Erbil e consiglieri degli alti comandi delle forze irachene. Francesco Vignarca, coordinatore della Rete Disarmo, ci ha spiegato che le obiezioni a questa decisione sono svariate: anzitutto c’è il non trascurabile dettaglio della provenienza di queste armi che sarebbero parte di uno stock di munizioni ed armi dell’ex Unione Sovietica, confiscate nel 1994 alla nave Jordan Express. Con ogni probabilità oggi poco efficaci. E dunque la funzione di questo invio sarebbe puramente simbolica: dimostrare ai Paesi della coalizione che l’Italia è presente sul campo. In ogni caso, «uno dei rischi più grossi è che quelle più operative finiscano nel buco del mercato nero. C’è il forte timore che possano andare nelle mani sbagliate», ha spiegato Vignarca. E anche nell’universo curdo le “mani sbagliate” non mancano.

«La sparizione di armi in quella regione è un dato di fatto ampiamente documentato dai rapporti del Pentagono e da Centri di ricerca come il Sipri di Stoccolma», scrive la Rete Italiana Disarmo. Insomma «il rischio è che si vada ad ampliare un incendio», aggiunge Vignarca. Ma l’obiezione assunta non solo dai movimenti pacifisti, suggerisce che in questo contesto mediorientale così incerto e magmatico, armare il nemico del nostro nemico non paga. In generale, la guerra all’Isis andrebbe fatta con altre armi, suggeriscono ricercatori, analisti e docenti. Ad esempio quella del taglio alle risorse finanziare. Isolare finanziariamente l’Isis, impedendogli di rivendere il petrolio estratto o di commerciare con i Paesi del Golfo, sarebbe una vittoria ben più grande. In un bel libro collettivo, dal titolo “La crisi irachena. Cause ed effetti di una storia che non insegna” (a cura di Osservatorio Iraq e Un Ponte per…), la ricercatrice dell’Università di Pavia, Clara Capelli, scrive proprio questo: che l’Isis non è un mostro invincibile e che è da combattere facendo appello alla strategia. Tra le possibili alternative per sottrarre risorse c’è quella di individuare i mediatori tra l’Isis e gli acquirenti del petrolio,e costringerli a non fare da tramite per lo smercio di petrolio le cui risorse vengono impiegate per arricchire i terroristi.

(fonte)

Li armano e poi li combattono /4

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di Mariella Colonna

Uno studio internazionale, Conflict Armament Research (patrocinato dall’UE), ha reso noto che i terroristi dell’Isis utilizzano armi e munizioni fabbricati in Usa, Russia e Cina. Lo studio – realizzato da osservatori inviati nelle zone di conflitto che hanno lavorato accanto ai peshmerga curdi tra luglio ed agosto di quest’anno – è stato possibile grazie alla raccolta e analisi di bossoli sparsi nei luoghi degli scontri armati con gli jihadisti nel nord dell’Iraq e nella Siria settentrionale. Questo lavoro ha tracciato una mappatura dei materiali bellici in dotazione al Califfato.

Lo studio dice che l’approvvigionamento armato dell’Isis ha diverse provenienze: una parte è in capo a gruppi antigovernativi e a pezzi della sicurezza siriana e irachena corrotti. L’altra arriva dalle incursioni jihadiste che hanno permesso all’organizzazione di raccogliere sul campo armi di fabbricazione americana date in dotazione all’esercito iracheno nel periodo post-Saddam. Ben oltre l’80percento delle circa 2000 cartucce raccolte risultano prodotte in Cina, Russia, Serbia e Stati Uniti. Di queste, più di 300 cartucce per fucili M4 ed M16 consegnati dagli Usa alle forze di sicurezza irachene durante l’occupazione dell’Iraq, sono state prodotte al Lake City Army Ammunition Plant, una fabbrica in Missouri di proprietà del governo americano che produce 4milioni di proiettili di piccolo calibro ogni giorno per l’Esercito Usa. Ma non è tutto. Le munizioni in mano all’Isis comprendono anche bossoli fabbricati dalla californiana Sporting Supplies International Inc e cartucce con il marchio Wolf. Gli M16 sono l’arma usata dagli americani nel 2003 per liberare l’Iraq, utilizzati qualche settimana fa dagli jihadisti durante l’assedio e la conquista di Mosul.

In seguito ai furti di armi commessi dallo Stato Islamico a danno dell’esercito iracheno, si legge nello studio, il Congresso americano si è fatto carico di nuove forniture di armi e munizioni ai militari iracheni e ad alcuni gruppi siriani, limitandosi a richiederne il controllo al Dipartimento di Stato. Controllo non privo di errori perché nel 2007 Washington ha pubblicato un rapporto che evidenziava lo smarrimento di 190mila armi in Iraq che molto probabilmente hanno equipaggiato un esercito.

L’analisi inoltre Conflict Armament Research mette in risalto che anche la Russia ne è coinvolta. Probabilmente indirettamente. Se si considera che Mosca è alleata di Bashar al-Assad al quale fornisce armamenti, ma Damasco è un obiettivo dell’Isis. Infatti, secondo gli osservatori la conquista di Ḥamā è stata fatta principalmente allo scopo di approvvigionamento di armi e munizioni. Perciò Putin risulta il secondo fornitore del Califfato.

I dati dimostrano inoltre che larga parte delle munizioni di produzione cinese sono state inviate in Siria e in Iraq e da lì portati nella zona di guerra. Una piccola parte proviene dall’Iran, paese sostenitore del governo iracheno a guida sciita ed alleato di Assad. Una minima parte proviene dalla terra dove tutto è iniziato.

(fonte)

Li armano e poi li combattono /3

Il deputato iracheno Qasim Al-Araji ha detto al parlamento iracheno che il suo gruppo, l’Organizzazione Badr, è in possesso di prove documentate che il governo degli Stati Uniti sta fornendo il sedicente Stato Islamico con armi e aiuti militari. Si allunga quindi la già lunga fila di persone che accusano gli USA di fornire aiuti e armi all’Isis. Ormai non si tratta piu’ di voci isolate, ma di un coro plebiscitari0.

Secondo quanto riportato da Almasalah, giovedì il capo del gruppo parlamentare Badr ha condiviso queste informazioni con il Parlamento sostenendo che il gruppo è in possesso di prove contro gli USA e affermando che presto saranno in grado di condividere le prove documentate.

L’Organizzazione Badr è un ramo delle Brigate Badr, l’ala militare del Consiglio Supremo per la rivoluzione islamica in Iraq (SCIRI), che si è formato durante la guerra del 1982 tra Iran e Iraq e consisteva principalmente di esuli iracheni e rifugiati in Iran. Dal momento dell’invasione a guida americana del 2003, il gruppo ha cambiato il nome da “Brigata” a “Organizzazione” e sono quindi diventati un partito politico iracheno ufficiale. Il gruppo mantiene un’ala militare ed è salito alla ribalta nella lotta contro lo Stato islamico in Iraq, in particolare per il suo ruolo nella liberazione della Provincia di Diyala, a febbraio.

Comandanti delle milizie e funzionari governativi dicono che il Gen. Ghassem Soleimani, un potente generale iraniano, è il capo della strategia nella lotta dell’Iraq contro i militanti sunniti, lavorando in prima linea a fianco di 120 consulenti della Guardia rivoluzionaria del suo paese per dirigere miliziani e forze governative sciite, anche nei più piccoli dettagli della battaglia.

Le affermazioni di Al-Araji sul  sostegno militare degli Stati Uniti allo Stato islamico non sono le prime nel loro genere. Nel mese di gennaio, Hadi Al-Ameri, il Segretario Generale del Badr, ha riferito a Press TV che un aereo americano aveva lanciato armi all’Isis nella provincia di Salahuddin in Iraq. Sotto il video di un elicottero USA che lancia aiuti allo Stato Islamico

Secondo Press TV, uno studio condotto da un gruppo con sede a Londra ha anche scoperto che i militanti Stato islamico avevano usato “quantità significative” di armi contrassegnate come “di proprietà del governo degli Stati Uniti.”

Si ritiene anche che le armi  siano state trasferite allo Stato islamico da altri gruppi ribelli in Siria,  chiamati “moderati” da parte del governo degli Stati Uniti. Il senatore americano Rand Paul aveva già rimarcato la possibilità di trasferimento di armi ai terroristi dello Stato islamico, affermando che “uno dei motivi per cui ISIS si è avvantaggiato è perché stiamo armando i loro alleati.”

Badr non ha ancora rivelato i documenti, per cui non è chiaro se la nuova prova potrebbe rivelare casi analoghi di  supporto, ma solo involontario, allo Stato islamico.

A proposito di ISIS, musica e teatro e cultura.

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Era successo con Khaled al Assad, il rinomato archeologo barbaramente ucciso. Era successo anche con la sparatoria al Museo del Bardo a Tunisi. E poi al Bataclan, la “sala da spettacolo” che è al centro della cronaca di queste ore. Il terrorismo teme la bellezza, il terrorismo ha bisogno di una massa stolida che non sia capace di elaborare soluzioni, alternativa, in una parola sola: cultura.

E chissà se davvero non succederà anche che ci renderemo conto di quanto passi anche da lì, da una concezione di passatempo “etico” oltre che spassoso, dal ruolo così importante delle parole recitate, cantate o scritte. Mi dico: chissà se ci riusciremo anche noi, oltre che loro, a capire quanto sia potente la cultura.