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Giulio Cavalli

Dal teatro civile al romanzo civile: Marco Ostoni su ‘Mio padre in una scatola da scarpe’

(L’articolo originale è qui):

Schermata 2015-10-13 alle 18.27.26Leggi e ti sembra di vederlo, anzi di ascoltarlo. Lì, sul palco impegnato in uno dei suoi affabulanti e avvolgenti monologhi in cui il ritmo è dettato dal sapiente alternarsi di pause e recitativi, con la voce un po’ impastata e lo sguardo pensoso, con le iridi verdemare che illuminano un gesticolare lento e compassato. Quei tratti, insomma, che lo hanno fatto conoscere e apprezzare al pubblico lodigiano le cui ribalte ha calcato per anni da protagonista. C’è tutto Giulio Cavalli in questo Mio padre in una scatola da scarpe, romanzo d’esordio dell’attore, regista, autore e saggista di Lodi (con una breve pausa anche in veste di consigliere regionale), da pochi anni trapiantato a Roma, ma là come qua costretto a vivere sotto scorta per le ripetute minacce ricevute dalle cosche in risposta ai molti strali da lui lanciati al loro indirizzo. Cosche che indubbiamente non molleranno la presa dopo aver letto questo libro, un j’accuse ancora più forte dei precedenti (anche del volume-denuncia, nonché pièce teatrale, Nomi, cognomi e infami) perché forgiato di quel metallo prezioso che si chiama letteratura, con la capacità unica che ha la letteratura di scuotere, emozionandoli, i lettori e di smuoverne così, dal profondo, le coscienze.
E ci si emoziona non poco leggendo le quasi 300 pagine del romanzo che racconta la storia (vera) di Michele Landa, uomo per bene di Mondragone, nel Casertano, vissuto con la schiena dritta in una terra dove i più la piegano – la schiena – per paura, per quieto vivere o per convenienza, ma alla fine spezzato da quella Camorra di cui non ha mai accettato i codici di comportamento.
Ci si arrabbia, ci si indigna e si piange accompagnando Michele dagli anni dell’adolescenza – dopo un’infanzia segnata dalla morte precoce della madre e da quella del padre, alcolista e violento – all’età adulta. Un lungo tragitto cadenzato dall’amicizia inossidabile con Massimiliano, lo “scemo del paese” in realtà più acuto e saggio di molti presunti “sani”; dal fidanzamento e quindi dal matrimonio con Rosalba “la silenziosa”; dalle gioie (e dalle fatiche) della paternità, fino ad arrivare al drammatico e straziante epilogo. Cavalli, se pure qua e là carica di qualche eccesso verboso il linguaggio, pagando dazio all’inesperienza da una parte e all’oralità del cantastorie dall’altra, riesce a ricreare con buona mimesi il clima di omertà e paura insieme che impasta la vita dei Mondragone, i cui abitanti sono soggiogati dalla prepotenza dei Torre, che rende tutti (o quasi) muti, ciechi, sordi ma soprattutto servi. Mentre lui, Michele, si rifiuta – ignorando i consigli del nonno – di vivere «in punta di piedi», di abitare la sua terra in silenzio, diventando invisibile per difendere se stesso e la famiglia.
«Voglio abitare in un luogo – dirà a Rosalba il giorno in cui la chiederà in sposa – dove Massimiliano può essere felice e mio nonno invecchiare sereno. E voglio figli che sanno scegliere il bene e il male».
Proprio come ha saputo fare lui, pagando quella scelta di coraggio con la morte.
(Cavalli presenterà il suo libro ai lodigiani mercoledì 14 ottobre, alle 21, al Caffè Letterario)

Giulio Cavalli, Mio padre in una scatola da scarpe
Rizzoli Editore, Milano 2015, pp. 276, 19 euro

Cocò: quando un bimbo è solo uno scudo umano

Il pezzo di Niccolò Zancan per La Stampa:

nicola-campolongo-coco-660x400Cocò non era lì per caso. Cocò stava lavorando anche se non lo sapeva. Cocò era stato arruolato da suo nonno. Doveva fare semplicemente se stesso: il bambino. Il nonno spacciava, lui stava al suo fianco. Vorranno mica ammazzare un bambino di 3 anni? Cocò è stato ucciso nella guerra fra due clan rivali in terra di ’ndrangheta, per il predominio nella zona della Sibaritide, in provincia di Cosenza. Era lo scudo umano di suo nonno. Gli hanno sparato in testa. E adesso, dopo un’indagine durata un anno e mezzo, i carabinieri e la direzione distrettuale antimafia di Catanzaro sono sicuri di aver individuato i responsabili. Sono due rivali in affari.

Sono due piccoli trafficanti emergenti. Si chiamano Cosimo Donato detto Topo e Faustino Campilongo detto Panzetta: «Due spacciatori di stupefacenti operativi fin dal 2003. Essi si rifornivano di stupefacente da Iannicelli, il quale, a sua volta, lo prelevava dagli zingari di Cassano allo Ionio». Le 289 pagine dell’ordinanza di custodia cautelare firmate dal gip di Catanzaro fanno paura. Perché per capire quello che è successo la notte fra il 16 e il 17 gennaio 2014 bisogna partire da lui, da Nicolas Junior Campolongo dettò Cocò.

Giuseppe Iannicelli era sua nonno. Uscito da poco dal carcere, era tornato a trafficare cocaina ed eroina ma aveva bisogno di incrementare gli affari. Molti parenti erano ancora in cella, tutti dipendevano da lui. «Giuseppe Iannicelli era dedito allo spaccio di sostanze stupefacenti, dapprima in seno alla consorteria ’ndranghetistica degli zingari, quindi avvicinandosi al sodalizio storicamente contrapposto dei Forastefano».

Cambiando alleanze criminali, cercando di allargare il suo giro, sapeva di essere in pericolo. Ecco perché quando andava a consegnare la droga in conto vendita alla sua rete di pusher e quando tornava ad esigere i crediti, portava sempre con sè la compagna Ibtissam Touss e il piccolo Cocò. Li caricava in auto.

Erano la sua assicurazione sulla vita. «Cocò era utilizzato da Iannicelli al fine di scongiurare agguati», hanno dichiarato a verbale due testimoni e un pentito. Così ha spiegato il figlio stesso di Iannicelli: «Si accompagnava a Cocò e alla marocchina perché era convinto che in loro presenza nessuno avrebbe potuto fargli del male». Molti sapevano. Sapevano che il bambino era stato arruolato. Sapevano che gli equilibri criminali della zona si erano rotti.

È una storia di ‘ndrangheta, di boss e manovalanza. Di capannoni incendiati per ritorsione. Di pestaggi esemplari davanti ai bar del paese. Pistole e minacce. Matrimoni combinati a pagamento. Soldi da spartire. Famiglie intrecciate e segreti. E in quel contesto che Giuseppe Iannicelli si scontra con «Topo» e «Panzetta». Loro sono i suoi spacciatori tra Firmo, Lungro ed Acquaformosa. Ma mentre lui cambia alleanze, loro restano legati al clan degli zingari. Chi comanda?

Iannicelli è sempre più solo. Fino a rendere Cosimo Donato e Faustino Campilongo preoccupati che si possa pentire, che incominci a collaborare. Forse è quello il momento in cui prendono la decisione. Ma prima chiedono protezione al boss di Altomonte, Saverio Donato.

Il procuratore aggiunto Vincenzo Luberto il 3 settembre 2015 firma un’integrazione urgente all’inchiesta da sottoporre al gip. È un’intercettazione ambientale: «Dalla conversazione si evince che Cosimo Donato e Faustino Campilongo hanno ricevuto mandato, da parte di persona non menzionata, di rubare un’autovettura e assassinare una persona. L’incarico sarebbe stato accettato». Parlavano di Giuseppe Iannicelli. Lo avrebbero ammazzato, lui con il suo scudo umano.

Tutto è stato ricostruito. Così il collaboratore di giustizia Pasquale Perciaccante, dissociato dalla cosca Abruzzese: «Non si fidavano tanto di questo Iannicelli. Perché parlava sempre, tenìa la bocca troppo sporca, parlava sempre parlava». Giuseppe Iannicelli è stato attirato in una trappola con una scusa. Hanno sparato a lui, a Cocò e alla signora Ibtissam Touss, «la marocchina».

 

L’auto data alle fiamme, i cadaveri carbonizzati per eliminare le tracce. Erano trascorse poche ore, ma le famiglie criminali intercettate già parlavano di come verificare se si potessero recuperare 7 mila euro che doveva avere Iannicelli: «Impossibile, tutto bruciato». «Topo» e «Panzetta» erano in paese poche ore dopo il triplice omicidio.

Li ha visti persino Giuseppe Iannicelli Junior: «Le mani nere, unte. I loro vestiti puzzavano di benzina. Erano agitati, impauriti». Ma nessuno è andato a parlarne spontaneamente alle forze dell’ordine. I due killer guadagnavano bene. Cambiavano auto spesso. Si vantavano: «Hai visto che non siamo due poco di buono?».

Piccolo tesoro a forma di teatro. A Napoli, rione Sanità.

12094727_1034918286547940_6992202052362085515_oDavvero fateci un salto, al Nuovo Teatro Sanità di Napoli, proprio in mezzo a quel quartiere che vorrebbero raccontarvi come solo degrado e miseria e invece è capace di seminare piccoli miracoli. Dentro c’è il teatro, con tutte le sue eleganze e i suoi riti ma anche un’umanità che presidia il luogo con un’energia dal sapore partigiano e con uno stare insieme che sarebbe da insegnare nelle scuole. L’AMICO DEGLI EROI ora è uno spettacolo diverso, con la fortuna di respirare quell’aria.

Altro che periferia: ci sono luoghi in questa nostra Italia teatrale che hanno centrato le città in cui abitano meglio del campanile.

 

Quando scappa una foto

#vetrineromane #miopadreinunascatoladascarpe #soddisfazioni le mie lettrici che mi mandano foto. E la soddisfazione di un libro che è già più adulto di me. via Instagram http://ift.tt/1LHfOT2

#Left cosa ci abbiamo messo dentro

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COVER STORY

PROPAGANDA PERMANENTE


Informazione su misura

di Corradino Mineo

A Matteo Renzi serve che giornali e telegiornali suonino all’unisono la grancassa. Che vedano la ripresa, diffondano ottimismo, cancellino le minoranze. Cronaca di un circolo vizioso

 

Le parole sono proiettili

Ilaria Bonaccorsi intervista Giovanni Minoli

Oggi a Radio24, «Che nel 2012, quando vinsi l’Oscar per la divulgazione storica con La “Storia siamo noi” la Rai mi ha mandato via». I talk show perdono ascolti, la Rai non è più servizio pubblico. La televisione ha vinto e la politica ha perso. «Va raccontato il bicchiere mezzo pieno, così come la parte vuota. Questa è onestà intellettuale».

Matteo non vede non sente non parla

di Loris Mazzetti

Tutto merito di un buon suggeritore

di Luca Sappino

Più di un portavoce e più di un consigliere, Filippo Sensi, in arte @nonmfup è l’uomo chiave della comunicazione del premier. E’ Renzi, forse più dello stesso Renzi.

 

Società Left

 

droghe
Come si riducono danni (e morti)

di Alessandro De Pascale

Come lavorano gli operatori che si occupano di riduzione del danno in un rave in Val D’Orcia

politica
La Quercia che seppellì il Pci

di Stefano Santachiara

Nel 1989 un militante scrisse a Veltroni suggerendo di inserire nel simbolo una quercia che evocasse la rivoluzione francese. Questa è la sua versione

mafia
A undici anni sai che lavoro fa tuo padre

di Giulio Cavalli

Poco dopo l’arresto di Gregorio Malvaso, sua moglie decide di raccontare quello che sa ed entra con i figli nel programma di protezione

tennis
Se uno smash abbatte i pregiudizi

di Alessia Laudati

Ritratto di Althea Gibson che decenni prima delle sorelle Williams sfidava la segregazione razziale sui campi di terra rossa

 

Esteri, Left

 

Afghanistan
MSF si racconta: «Da 14 anni sotto le bombe»

di Umberto De Giovannangeli

Dopo la strage di Kunduz abbiamo sentito Loris De Filippi, presidente della sezione italiana

Serbia
Qui terra di nessuno, dall’altra parte l’Europa

di Michela AG Iaccarino

Sulle tracce dei rifugiati siriani lungo la frontiera serbo-croata

portogallo
Dopo la Grecia, ora la sinistra parla portoghese

di Tiziana Barillà

Dopo il voto nel Paese lusitano, parla Marisa Matias europarlamentare del Bloco de Esquerda

Spagna

Gitana e senatrice

di Ilaria Giupponi

Intervista con la senatrice andalusa Silvia Heredia Martin, gitana: «Non mi hanno votato perché sono o non sono gitana»

New York

Open studios, a cena tra i quadri

di Maurita Cardone da New York

Gli studi degli artisti aperti in un’area della città che cambia

Cultura, Left

 

storia
Nasce il museo dell’arte in ostaggio

di Simona Maggiorelli

I capolavori rubati dai nazisti e mai più ritrovati: un museo alle porte di Milano ne tiene viva la memoria in 3D

graphic novel
Una macchietta coi baffetti

di Massimo Basili

Una biografia a fumetti racconta la storia del fuhrer. L’ha disegnata nel 1971 il giapponese Shigeru Mizuki

medicina
Premio Nobel, quella donna che salva i poveri con l’artemisia

di Pietro Greco

musica
Erica Mou, adesso io devo andare

di Giorgia Furlan

Giovanissima, da Sanremo al premio come “artista veramente indipendente”al MEI, la cantautrice pugliese si racconta

La bellezza di andare in scena (con ‘L’amico degli eroi’)

Schermata 2015-10-09 alle 20.35.05Eccoci alla fine siamo andati in scena. Tutti. Con Cisco dal vivo e la solita meraviglia che è il Teatro Fraschini quando Pavia è appena appena autunnale.

E posso dirvi che “L’amico degli eroi” è diventato adulto, respira a tempo e ha la forma che avevamo in testa. Se piace o no certo ce lo dirà il tempo, i chilometri e principalmente vuoi ma di sicuro siamo riusciti a mescolare i fatti (fatti, eh, mica opinioni: fatti accertati) insieme a quel tono di teatralità che ci interessava più di tutto. La storia dei tre (Marcello, Silvio e Vittorio) è la storia di un Paese che scopre convergenze tra persone inimmaginabili e credo che davvero sull’asse Berlusconi-Dell’Utri-Mangano-Cinà si potrebbe scrivere un manuale di patti mafiosi in salsa lombarda.

Ancora una volta, come ci era già successo per Andreotti, tocchiamo con mano quanto poco sia conosciuta la sentenza e quanto poco sia stata raccontata la verità. E allora noi proveremo a teatrare ancora più forte.

Marino: i forti con i deboli e la differenza tra sindaco e testimonial.

marino-dimissioniDetto questo Ignazio Marino ha compiuto una lunga serie di azioni poco opportune per di più comunicate nel modo più sbagliato. Oggi noi discutiamo quindi del fallimento politico o del fallimento del comunicatore? Questo è il punto da chiarire. E dobbiamo essere consapevoli, ovviamente ognuno con le proprie idee, che nel giudizio che da oggi per il sindaco di Roma è diventata una difficilissima pressione c’è dentro tutta la superficialità e il malpensare popolare che è montato come panna ma è rimasto nascosto nel merito. Ignazio Marino è un testimonial sprovveduto per la capitale. Forse sì. Non ha le spalle larghe per sopportare la lava vomitata dai fanfaroni. Ma se deve essere fatto fuori, si parli anche di politica. Anche.

Ne ho scritto (poco prima delle dimissioni) qui.

(La vignetta è di Mauro Biani, azzeccatissima. Al solito.)