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Giulio Cavalli

A Bari la mafia non è mafia: è passione

avere-le-cornaA Bari gli omicidi che hanno insanguinato la città nel 2013 sono stati derubricati a vendette per motivi passionali dalla sentenza del rito abbreviato. Non importano i clan, l’onore da lavare e l’esibizione della violenza. La parola mafia scompare. Come se fosse una brutta storia di decenni fa.

L’articolo è qui.

Ma guarda un po’: giudizio immediato per i “cronisti” del caso Crocetta-Borsellino

Io aspetto sempre quelli che “sapevano tutto”, quelli che urlavano “che schifo” e i cronisti sacerdoti dell’antimafia:

1438064658-0-intercettazione-crocetta-tutino-indagati-i-giornalisti-dell-espresso-dalla-procura(ANSA) Palermo. La procura di Palermo ha chiesto il giudizio immediato per Piero Messina e Maurizio Zoppi, i giornalisti dell’Espresso che, a luglio scorso, pubblicarono la notizia, poi rivelatasi falsa, di un’intercettazione in cui il medico Matteo Tutino (in foto) avrebbe detto al presidente della Regione Rosario Crocetta a proposito dell’ex assessore alla Salute, Lucia Borsellino“questa va fatta saltare come suo padre”. I due cronisti sono accusati di calunnia e di diffusione di notizie false ed esagerate.

“andrebbe antologizzato e studiato a scuola”: ‘Mio padre in una scatola da scarpe’ secondo Pupottina

(la recensione originale è qui)

Schermata 2015-10-05 alle 18.06.38GIULIO CAVALLI, scrittore e autore teatrale, da tempo impegnato nella lotta contro le mafie, ha scritto un romanzo importante, di grande impegno civile, di altissimo valore morale e di denuncia, che andrebbe antologizzato e studiato a scuola, come punto di partenza, testimonianza per capire e approfondire il discorso sulla legalità.

Il romanzo è ispirato alla storia vera della famiglia Landa. La vicenda è ambientata a Mondragone, che è un paese per gente di poche parole, ma che a occhiate sa farsi capire eccome.

Lì vive Michele Landa, il quale non è un eroe e neppure un criminale. Tutto ciò che desidera è coltivare il suo orto e vivere felicemente con la sua famiglia, costituita da moglie e quattro figli.

Ma la vicenda inizia molto prima, quando Michele, orfano, vive con il nonno che è il suo punto di riferimento, colui che gli insegna come vivere o sopravvivere a Mondragone.

Qui non esistono carabinieri o polizia; qui a Mondragone ci sono le guardie e i ladri, bianco e nero e tutto in mezzo gli altri che sono altri per il tempo che serve a decidere se nella vita vuoi essere bianco o nero, guardia o ladro: abitare tutta la vita semplicemente lì in mezzo è possibile. Può essere che tu non te ne accorga, ma sei già o sporco di bianco o sporco di nero.

A Mondragone, inoltre, serve coraggio anche per vivere tranquilli: chi non cerca guai è costretto a confrontarsi ogni giorno con gli spari e le minacce dei Torre e con l’omertà dei compaesani.

Michele impara molto dal nonno: la saggezza per riuscire a vivere con dignità ed onestà senza scontrarsi con i Torre. Bravo, Michele! Vedete? Michele ha imparato come si vive a Mondragone.

Michele, infatti, ha imparato davvero quali sono le regole e i compromessi per poter sopravvivere ed altro non chiede di fare con l’amata Rosalba, i figli e la nipotina, Michelina, mentre rapidamente scorre il tempo che lo porta a poche settimane dalla pensione. Qui le brave persone per difendersi diventano invisibili. È così che si vive in una terra paralizzata dalla paura.

Come anticipato dal titolo, MIO PADRE IN UNA SCATOLA DA SCARPE, il finale è dolorosamente tragico, ma durante la lettura lo si dimentica, tanto si vorrebbe la storia avesse un epilogo diverso.

Con una scrittura coinvolgente, sintetica, dinamica, incisiva, lo scrittore GIULIO CAVALLI ha il coraggio di raccontare un’Italia di cui non si parla abbastanza, quella dimenticata e indifesa, di chi cerca di sopravvivere dove la legalità è soltanto un concetto astratto non preso in considerazione da nessuno, nemmeno da chi dovrebbe tutelare i più deboli. I morti meriterebbero di essere presi in considerazione.

‘Mio padre in una scatola di scarpe’ è agghiacciante perché vero (di Rita Fortunato)

(l’articolo originale è qui)

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(Recensione di Rita Fortunato)

Una storia donata va sempre accolta. Questo è il pensiero che mi ha portata ad accettare la proposta di Barbara Reverberi di leggere Mio padre in una scatola di scarpe. Si tratta di un romanzo civile edito Rizzoli, scritto da Giulio Cavalli e comparso nelle librerie italiane il 17 settembre. Fresco fresco di stampa, insomma e che ho anche avuto la fortuna di incontrare sugli banconi per libri allestiti a #PordenoneLegge.

Barbara mi ha subito detto che è un romanzo bellissimo e che lei, personalmente, l’ha divorato.

Per quanto riguarda il verbo “divorare” aveva ragione ma, più che bellissimo, ho trovato l’opera agghiacciante. Ti spiego perché…

Mio padre in una scatola di scarpe è agghiacciante perché vero

Con agghiacciante non intendo dire che Mio padre in una scatola di scarpe non sia un buon libro. Fondamentalmente è un romanzo d’inchiesta tratto da una storia vera, fatta di mafia e omertà. Temi forti, dolorosi, di quelli che non si vorrebbe affrontare perché, quando te li trovi scritti neri su bianco, ti agghiacciano.

L’ho letto in due giorni e avrei voluto che finisse in maniera diversa, che non rimanesse in sospeso. Tuttavia uno scrittore non può accontentare sempre il lettore, soprattutto quando il suo obiettivo è quello di ricordare che ancora esiste una cultura dell’omertà.

Una cultura che sta stretta al personaggio principale e perno attorno al quale ruota tutto il racconto,  Michele. Per amore, il nonno cerca di inculcargli questa filosofia in tutti i modi:

“Qui le brave persone, per difendersi, diventano invisibili”.

È una persona normale, Michele. Vorrebbe solo vivere a casa sua, metter su famiglia e garantire un futuro a figli e nipoti. Assieme a lui, poche brave persone appaiono nella trama del romanzoMassimiliano, considerato lo scemo del paese ma con un cuore d’oro, il nonno e le sue cene domenicali con il nipote e la dolcissima e coraggiosa Rosalba, detta la silenziosa.

Volente o nolente, il lettore non può fare a meno di affezionarsi a queste persone, ad augurar loro tutto il bene possibile. Ad essi va l’ammirazione dell’amico milanese Giulio:

“Quelli che cambiano il mondo sono quelli che non si fanno avvelenare dal mondo”.

Ma niente è ciò che appareMio padre in una scatola di scarpe parla di un’indifferenza che non è solo espressione di codardia o servilismo da parte delle persone semplici, ma anche l’unico comportamento da adottare per sopravvivere in una terra violenta comandata da violenti. Gradualmente (ed è qui che la cosa si fa particolarmente agghiacciante) ci si addentra in un contesto e in una storia dove la desensibilizzazione al dolore la fa da padrone perché, in fondo, ci si abitua a tutto, anche ai soprusi. Non c’è scelta.

Vi è un’educazione alla paura e alla sopravvivenza scambiata per coraggio in una vita quotidiana che impedisce agli abitanti di Mondragone, località dove si svolgono i fatti, di compiere il loro dovere civico e permettere che la giustizia faccia il suo corso.

“Michele, nella vita ci vuole coraggio a rinunciare. Anche a rinunciare ai principi, se serve”.

Nessuno sembra voler spezzare la catena che anno dopo anno stringe il paese in una morsa soffocante di incomprensioni, malelingue e indifferenza. Tutto ciò che accade, anche i gesti di umanità sono visti con sospetto e manipolati per mettere in cattiva luce le brave persone, distruggere la loro reputazione e creatività. La coscienza, in questo romanzo, sembra proprio non esistere. Al massimo vi è rabbia repressa e dolore raccolto e nascosto

Mio padre in una scatola di scarpe è un romanzo logorante e, sinceramente, andrebbe donato ai giornalisti che ricamano notizie prestando orecchio alle voci e non verificando le fonti, ai carabinieri che preferiscono screditare il cittadino medio pur di non perdere i ricavi e gli interessi che li legano a chi dovrebbero incarcerare, alle persone che sparlano e si fanno belli sulle miserie e i dolori altrui, convinti che andare a messa la domenica sia sufficiente per sciacquare la coscienza dalle loro ipocrisie e meschinità.

Non saprei bene cosa aggiungere sull’opera con la quale Giulio Cavalli esordisce in veste di scrittore se non che il libro andava scritto e che merita di essere letto. In mezzo a tanti testi fondamentalmente inutili, privi di messaggio, un romanzo civile come questo spicca dalla massa, per la sua agghiacciante veridicità.

Autore: Giulio Cavalli
Titolo: Mio padre in una scatola di scarpe
Casa Editrice: Rizzoli
Pagine: 288
Anno di pubblicazione: 17 settembre 2015
Prezzo di copertina: € 18

Io faccio la madre

CAVALLIPadre18“Quando ancora le chiedono come sta, cosa fa, al mercato o alla piazza di Mondragone, lei risponde: “La madre”. E risponde con dentro una traversata oceanica, un giro del mondo in mongolfiera e una vittoria olimpica. La madre. Senza perifrasi, incertezze: la madre”.

(dal mio libro, Mio padre in una scatola da scarpe)

E quindi, il trattamento riservato al Prefetto Caruso?

marini-store-528x400A proposito di mafie, antimafia e beni confiscati vale la pena rileggere l’audizione in Commissione Antimafia dell’ex Prefetto Giuseppe Caruso, al tempo direttore dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata. Caruso (era il 5 febbraio dell’anno scorso) disse che più di qualcosa non funzionava nella gestione dei beni confiscati e piuttosto che essere ascoltato s ritrovò addirittura a doversi difendere.

Ecco, mi piacerebbe sapere se qualcuno si prenderà la responsabilità politica di questo svarione che ha portato la Commissione a fare un buco nell’acqua.

Il verbale dell’audizione lo trovate qui.

Come state, ex civatiani, nel regno dei cieli?

pippo-civati-matteo-renziMatteo Pascoletti con il suo post di oggi:

Perché questo disprezzo mi sa di chi in passato, incontrando il dominus che guidava un altro carro, ne ha fiutato l’aroma di potere, e ha avuto come un’epifania: per guadagnare prossimità è importante stare dietro la scia del dominus, e il dominus è soprattutto un’opportunista di genio, abile a parlare e ad agire in funzione degli spazi che deve aprire a se stesso mentre corre verso la cima; per cui l’arte di stare nella scia del dominus diventa arte politica a tutti gli effetti, e nell’ebbrezza la si scambia per realismo. Perché un leader è una funzione sociale, e il carisma mediatico è un incantesimo collettivo: imparare a parteciparvi è sostanziale alla sopravvivenza politica, o a professioni che vi ruotano attorno. Per cui il dominus avrà sempre bisogno di essere seguito lungo la scia che traccia, prediligendo seguaci che si muovano rapidi e con perfetto sincretismo, magari anticipando i suoi desideri; meglio recidere che deviare o rallentare. Non può perdonare gli errori o le debolezze, se non come forma di magnanimità, ossia come un tiranno che si concede il piacevole lusso di graziare il condannato. Persino chi, con stoica virtù, non vuole sacrificare i princìpi (onestà intellettuale vuole si riconoscano le eccezioni), deve imparare i meccanismi dell’incantesimo, se non vuole restare travolto.

Ma non è quest’ultimo il caso di molti ex civatiani, la cui acredine strafottente verso chi credevano un potenziale dominus nasconde un terrore ben preciso: il ricordo di quando si è corso il rischio di restare a vita in cantina a bere vino acetato, ricordo che guasta in parte il sapore dello champagne che ora si sorseggia al piano di sopra, o che al limite si vede sorseggiare. Guardando al passato con gli occhi del presente, non possono che pensare a una propria debolezza intrinseca che, un giorno, potrebbe condurli fuori scia; un destino assimilabile alla morte politica. È dunque un bisogno intimo l’esorcizzare quella paura: proiettato pubblicamente, quel bisogno prende la forma dello stivale in faccia a chi sta dietro, mentre si sfoggia il sorriso da mejo fichi der bigonzo. Sarebbe quasi comico assistere, dalla propria beata irrilevanza a tasso zero di tessere, a questo sfoggio di petti in fuori e pance in dentro, ai vari “Pippo / Pippo / vieni a pescare con noi / ci manca il verme”, al narcisismo quasi patologico che computa le critiche e persino i “vaffanculo” alla voce “engagement”, se non fosse per l’appunto l’espressione di una volontà egemone che, evidentemente, ha studiato Weber all’università per meglio glossare gli slogan che un ghostwriter o uno spin doctor mettono in bocca al dominus.

 

Gli spari, le scuole e la ciclicità del male (americano)

STELLEPISTOLE.CARLOTAncora una volta. Ancora Obama. Le inquadrature, le solite, quelle per i messaggi di cordoglio di Stato e le lacrime di sottofondo. Forse negli USA avranno un manuale di regia per le stragi da fuoco e forse un capitolo intero sulle stragi da fuoco e al college. Ci sono drammi come quello accaduto in Oregon che fiaccano per la loro imperturbabile ciclicità: come se fossero insiti nell’umanità di questo secolo, come se fossero il purgatorio che ci tocca e che possiamo solo raccontare o peggio come se fossero il simbolo dell’ineluttabilità del destino. Forse, invece, sono più banalmente le stigmate della pavidità politica di un Paese che non riesce a svincolarsi dalle sue lobby.

Era il 2002 quando il regista Michael Moore proiettò per la prima volta il proprio film documentario ‘Bowling a Columbine” in cui raccontava gli USA e quel suo smodato e dissennato amore per le armi. Fu celebre la scena in cui il documentarista mostra il fucile ottenuto “in omaggio” con l’apertura di un conto corrente bancario: armi come cadeaux promozionali. Con quel film Moore divenne Moore, il celebre regista vinse l’Oscar nell’anno successivo e ne seguì un dibattito accesissimo.

E poi? E poi siamo qui, oggi, tredici anni dopo a commentare la stessa notizia, con gli stessi toni, puntando sulle stesse colpe e snocciolando gli stessi numeri: quelli dei morti e quelli di una nazione che non impara dai propri errori. Ma se una critica rimane contemporanea per decenni di chi è la colpa? Il Presidente degli USA, Obama, ha dichiarato “siamo l’unico Paese moderno al mondo dove queste sparatorie sono diventate una routine” e ha accusato il Congresso e i governatori (quindi la politica, in fondo) di non averci messo troppo impegno. Colpa della politica, quindi. Certo. Ma più che di una legge che probabilmente andava già scritta dopo il massacro della Columbine High School in cui morirono 12 studenti (era il 20 aprile del 1999, nel secolo scorso) le vittime che oggi piangono gli Stati Uniti sono le stesse che stanno lì dove la politica non riesce ad essere più forte dei grumi economici.

(continua qui)

Bum!

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La chiamano modernità e invece e la natura che ogni tanto, nonostante i calci in testa, riesce per qualche secondo a mettere la bocca fuori dallo stagno.

«Voglio che la Chiesa e la mia comunità sappiano chi sono: un sacerdote omosessuale, felice e orgoglioso della propria identità. Sono pronto a pagarne le conseguenze, ma è il momento che la Chiesa apra gli occhi di fronte ai gay credenti e capisca che la soluzione che propone loro, l’astinenza totale dalla vita d’amore, è disumana».

(monsignor Krzysztof Charamsa, teologo, ufficiale della Congregazione per la Dottrina della Fede e segretario aggiunto della Commissione Teologica Internazionale vaticana, qui.)