Vai al contenuto

Giulio Cavalli

Un’intervista. Fuori dal teatro.

Schermata del 2015-09-22 09:04:05(di Daniele Ceccherini, fonte)
Genova 

In occasione della rassegna “Bellezza dell’arte al cinema” durante la quale c’è stata l’intitolazione dell’Arena nei giardini E.Guerra a Peppino Impastato, abbiamo intervistato Giulio Cavalli che allAlbatros di via Rogerrone (Genova, Rivarolo).’ è andato in scena con il suo spettacolo teatrale “Nomi, Cognomi e Infami“.

Giulio Cavalli scrittore e autore teatrale è noto per il suo impegno con spettacoli e monologhi teatrali di denuncia alla criminalità organizzata. Collabora con varie testate giornalistiche e ha pubblicato diversi libri d’inchiesta tra cui recentemente Mio padre in una scatola di scarpe.

Nomi, Cognomi e Infami è il mio spettacolo più longevo, è del 2006, è il tentativo di raccontare che la risata contro la mafia funziona… Mi dispiace che in questo paese l’antimafia culturale sia demandata tutta ad una sorta di volontariato e non ci sia un progetto istituzionale, io credo che il teatro sia il metodo migliore perché non ci sono mediazioni… Nel giornalismo ho usato l’inchiesta per cercare di capire cosa mi stava accadendo e per dare delle spiegazioni, perché per non essere delegittimato bisogna avere dei dati dietro, il teatro è l’occasione di poter parlare di alcuni angoli nascosti mettendoci la faccia. Il teatro civile in Italia è sempre molto strano, perché il teatro civile nasce come movimento culturale per poter riaprire processi che si sono archiviati, in Italia invece è quasi sempre un funerale laico molto tranquillo… L’ultimo libro Mio padre in una scatola di scarpe, è una storia vera di una famiglia di Mondragone convinta che basti non avere a che fare con la mafia per non avere problemi e invece proprio in quella famiglia c’è una vittima che è il padre. In questo paese secondo me ci siamo affezionati tantissimo ai paladini dell’antimafia, all’eroe senza macchia e ci siamo dimenticati di sapere che abbiamo il dovere di affezionarsi anche al diritto ad avere paura… Mi fanno più paura alcuni pezzi delle istituzioni che i mafiosi. I mafiosi che sono riusciti a ripulirsi e diventare istituzioni più che paura sono una preoccupazione più che per me per il bene di questo paese.”

Ecco l’intervista video integrale a Giulio Cavalli:

Gli scrittori italiani? Non esistono.

notte_scrittori

“Gli scrittori italiani? Non esistono. E, tranne rarissime eccezioni, sono un gruppo di ininfluenti che si accaniscono gli uni contro gli altri per sottrarsi misere copie, che si invidiano per premi che nessuno ricorda più, che si vendono per comparsate tv. Che odiano per il successo altrui e invidiano persino per un processo che può distruggere e compromettere, ma dà visibilità e quindi… Invidierebbero anche un funerale, se pieno di persone e vicinanza. Gli scrittori italiani? Che cercano la candidatura politica (e poi la nascondono) per uno stipendio sicuro. Non è sempre stato così e non vale per tutti. Parlo però per la parte maggiore. Da questi non puoi aspettarti nulla. E anche il pubblico se ne accorge e li legge sempre meno”.

(Roberto Saviano intervistato qui)

Il Fatto Quotidiano scrive di “Mio padre in una scatola da scarpe”

Schermata del 2015-09-21 18:42:16

di Mario Portanova (fonte)

Parliamo tanto della mafia, ma poco delle sue vittime. Certo, non saltiamo un anniversario dei generali caduti sul campo, com’è giusto che sia, ma come in tutte le guerre muoiono anche i soldati, i civili che non c’entrano nulla. E poi ci sono i profughi. Quelli che sono costretti a lasciare la propria terra – non se la prenda ilpresidente Renzi, ma purtroppo succede – perché non vogliono sottostare a prepotenze e compromessi con i boss, e quelli che invece restano, seppellendosi però nella muta ribellione delle “brave persone” che per sopravvivere devono rendersi “invisibili”. Così descrive questi profughi stanziali Giulio Cavalli in “Mio padre in una scatola da scarpe“, appena pubblicato da Rizzoli (288 pagine, 19 euro).

Il libro romanza una storia vera e, appunto, dimenticatissima. Quella di Michele Landa, metronotte ucciso e bruciato aMondragone, in provincia di Caserta, la notte tra il 5 e il 6 settembre 2006 mentre montava la guardia a una grande antenna per i telefoni cellulari a Pescopagano, in una zona di prostitute e spaccio. Gli mancava una manciata di giorni alla pensione e al sogno modesto di dedicarsi all’orto e ai nipoti. Ancora oggi non abbiamo neppure lo straccio di un indiziato, ma non è questo il cuore del libro di Cavalli, autore ed attore teatrale, ex consigliere regionale in Lombardia e finito sotto scorta per le pesanti minacce ricevute in seguito ai suoi spettacoli di denuncia antimafia. Cavalli scrive un romanzo d’amore e d’omertà, un giallo all’incontrario dove il delitto arriva alla fine ma l’assassino si svela fin dalle prime pagine. Michele Landa è appunto un profugo nella sua terra, un orfano dalla vita difficile che fin da piccolo ha dovuto ingoiare l’insegnamento del nonno: sii sempre onesto ma fatti i fatti tuoi, stai lontano dai mafiosi ma non provare mai a ribellarti se ha davvero a cuore i tuoi cari. Precetti che Michele osserva facendo violenza su se stesso, e che per giunta alla fine non lo salveranno. Di lui alla fine restano poche ossa carbonizzate dentro la scatola da scarpe che dà il titolo al libro.

Non sappiamo chi è l’esecutore materiale, come si leggerebbe in un atto giudiziario, ma sappiamo tutto del contesto in cui quel delitto è maturato. Un paese dove nessuno sente vede parla, dove la famiglia di camorra (nel romanzo, i Torre) può tutto, perché in grado di somministrare la morte ma anche la vita, dato che controllando le principali attività economiche può dispensare “il posto fisso” che caccia il fantasma della disoccupazione senza uscita. E lo Stato? E’ rappresentato da carabinieri indolenti e complici, così lontani dai famosi reparti speciali che firmano le grandi operazioni antimafia che finiscono su tutti i giornali. Allora ha ragione il presidente Renzi, è “macchiettistico” dire che in Italia la criminalità organizzata controlla “intere regioni”. Diciamo più correttamente che controlla parte della Campania, parte della Calabria, parte della Sicilia, parte della Puglia. E poi – in proporzione minore – parte dell’hinterland di Milano, parte della Brianza, parte del torinese, parte di alcuni quartieri romani… e sempre nella capitale, parte del Settore appalti. Molti profughi di questa lunga e sanguinosa guerra attendono di essere soccorsi.

LA FRASE. “Questa è una terra che va abitata in punta di piedi, Michele, va abitata in silenzio, qui le brave persone per difendersi diventano invisibili, Michele, in-vi-si-bi-li”.

Quelli che sventolano Tsipras

Il leader della sinistra greca conferma le percentuali di gennaio. E la sua vittoria di oggi forse ci dice anche che qui da noi di Grecia ne abbiamo capito poco e che Tsipras è stato sventolato un po’ troppo e un po’ a caso. Ne ho scritto qui.

alexis_tsipras_greek_prime_minister_graffiti

Il sud, le mafie e la disperazione sociale

mafia

La mafia non è un elemento costitutivo del Sud. Non è un prodotto di una cosiddetta cultura meridionale. Caratterizzarla in questo modo oscura le reali ragioni d’essere di questi gruppi. Questo va detto forte e chiaro. Al contempo, tuttavia, è imperativo non nascondere la testa sotto la sabbia, e capire quali ideologie e valori ne possono favorire l’operato in specifici luoghi e tempi.

Vale la pena leggere Travaglino qui.

Il problema del Colosseo è una classe politica con il senso dei gladiatori

Nuova immagine (3)Dunque il Colosseo diventa la perfetta pietra dello scandalo. Quello che i migranti sono per Salvini, per Renzi sono i diritti dei lavoratori e la cultura quando non serve da zerbino a qualche marchio della grande industria del lusso.

I beni nazionali sono quello che erano i leoni per gli antichi romani: divertimento puro da esporre allo straniero, senza nessuna considerazione per l’arte. Qui, da noi, il Colosseo serve per farci un logo su carta intestata o una statuetta da portare in dono nei viaggi internazionali.

Per fortuna qualcuno come Vittorio Emiliani rimette un po’ di dati in fila:

Con piglio decisionista napoleonico Matteo Renzi ha varato in giornata un decreto legge (si è perso il conto, credo) col quale i servizi museali vengono equiparati a quelli ospedalieri, ai trasporti pubblici, ecc. Cosa non facile sul piano giuridico e che però accontenta la “pancia” di chi non sopporta i sindacati. Il problema di fondo era questo? No, proprio no. L’hanno notato Massimo Cacciari, Tomaso Montanari, Simone Verde e non molti altri (quorum ego, diceva il Brera). Il problema centrale è rappresentato dalle risorse cronicamente scarse che i governi destinano ad Arte & Cultura: nel 2006, ultimo governo Prodi, non erano un granché però rappresentavano ancora lo 0,40 % del bilancio statale. Col governo Berlusconi si sono più che dimezzate precipitando allo 0,19. Va precisato, a questo punto, che, secondo dati Istat, nel 2011 l’Italia – col formidabile patrimonio che ha ereditato – figurava al 22° posto nella classifica della spesa, in assoluto e in percentuale sul PIL, sotto la media Ue e dopo Malta, Cipro e Bulgaria. Non dovremmo arrossire e indignarci per questo che la causa di quasi tutto?

Pare di no. La nota integrativa al bilancio statale per il triennio 2014-2016 prevede un ulteriore calo delle risorse da spendere per “tutela e valorizzazione (fa sorridere) dei beni e delle attività culturali e del paesaggio” pari all’8,3 % . Calo ancor più marcato, così imparano ( – 9,4 %), per i beni archeologici: dove avrà scovato il ministro Franceschini i 20 milioni di euro da destinare alla hollywoodiana Arena Colosseo già celebre per la sua superfluità Il primato però nella riduzione delle risorse toccherebbe ai beni artistici, architettonici e paesaggistici (messi assieme in un gran minestrone): – 10,3 %. Quanto all’organico dei dipendenti ministeriali, in certi casi è già dimezzato, coi musei e gallerie che aprono quando possono (nel polo Bologna-Ferrara il personale è sceso da un’ottantina a meno di venti addetti).

Secondo dati sindacali, con le nuove piante organiche varate con decreto (e ti pareva) da Franceschini in agosto, i dipendenti del Ministero – che erano a quella data 25.175 – devono scendere a 19.050 Condite tutto ciò col silenzio/assenso su grandi opere, lottizzazioni, villaggi, ecc, e con la sottomissione delle Soprintendenze

L’articolo è qui.

Quando scappa una foto

Mio figlio che legge il mio libro. E prima di aprirlo mi dice “vediamo se hai fatto qualcosa di buono”. Altro che i critici. #miopadreinunascatoladascarpe via Instagram http://ift.tt/1QPd3xs

Legittima difesa. Ovviamente.

CPRrT12VEAELfoN.jpg-large

Questo bimbo crescerà, distruggerà la nostra cultura, ha già il portamento dell’assassino e potrebbe essere colui che ruberà il cliente più importante ai nostri figli. E mangerà, vorrà dormire. Inevitabilmente occuperà spazio. Perdio, fermiamolo adesso.

Vorrei essere qui. Al rione Sanità.

Mario Gelardi è coraggioso. Mica come i paladini da copertina, figurarsi, piuttosto è coraggioso come lo sono tutti quelli che restano, che vogliono restare, che quando qualcosa puzza decidono di abitarci dentro con l’armamentario per imbiancare le pareti nei loro prossimi cent’anni.

Mario Gelardi è direttore del nuovo teatro Sanità che sta proprio nel cuore del rione napoletano al centro delle cronache in questi giorni. Ci fa teatro, Mario con i suoi, come se fosse a Parigi, nel centro di Milano oppure in un’oasi nel deserto: al nuovo teatro Sanità si crede che tutto ciò che è bello svolge la sua funzione. Senza compromessi: bello per il bello, lavoro come lavoro, apertura come apertura.

Eppure il nuovo teatro Sanità non sta nell’elenco dei teatri che contano, secondo alcuni, perché ha disimparato la mediazione al ribasso. E c’è da capirli. Roberto Saviano ne ha scritto qui:

Il Nuovo Teatro Sanità è una realtà teatrale necessaria che ha sede in una bellissima chiesa sconsacrata, in uno dei quartieri più difficili di Napoli e si mantiene grazie al sostegno di chi crede che al Sud ciò che manca sia soprattutto ascolto, equilibrio e opportunità. Questo sostegno non arriva dallo Stato che ha deciso, tramite il giudizio insindacabile di una commissione di esperti, che la proposta del Teatro non meriti gli “aiuti” statali destinati alle compagnie under 35.

La nuova stagione teatrale (con il contributo importante e non pubblicizzato di qualcuno accusato spesso di lucrare sulla Campania) ha un titolo che è un manifesto sociale: Vorrei essere qui.

E io ho l’onore di aprirla, questa stagione dove la resistenza alla bruttezza è un esercizio quotidiano. Ed è uno dei regali più belli che potessi ricevere. Fateci un salto, credetemi. Alla faccia della messa in scena di chi crede che basti qualche divisa in più per controllare un quartiere.

(ah, questa settimana Mario ha regalato un suo monologo meraviglioso per il nostro numero di Left)

12017594_10206601982240269_8095990207112629397_o