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Giulio Cavalli

La condanna a Grillo vista dal paese dei cialtroni e degli avvoltoi

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Senza cadere nel gioco del “tutti ladri” perché “nessuno sia ladro” mi chiedo (e non trovo una risposta) se davvero sia da un’affermazione fatta da Grillo, come mille altre, contro una lobby di pensiero che si debba ripartire per mettere argine ad una classe politica che trova nell’iperbole detta un male minore rispetto alle spericolatezze etiche delle malefatte. Mi chiedo se qualcuno di noi abbia mai pensato di denunciare una delle milioni di bugie che ci vengono propinate quotidianamente, mi chiedo se davvero qualche magistrato non abbia mai intravisto un’apologia di reato nelle parole di una Santanchè qualsiasi, tanto per citarne una?

Ben venga la condanna per un linguaggio molesto di cui avremmo bisogno di liberarci per davvero ma allora ci dovrebbero essere decine di dirigenti politici condannati subito domani per “associazione politicante di bene pubblico per interesse privato”. Un reato così, una cosa da “inettitudine al governo” o un reato di cialtroneria o un rinvio a giudizio per atteggiamento avvoltoio. Perché altrimenti se ne colpisce uno senza sapere che sarà il santo e il martire della prossima incazzatura.

Ed è patetico un Paese che trasforma un comico in un Pertini o Mandela mentre gli altri con il sangue che gli gocciola in tasca ridono fuori scena.

Ne ho scritto qui.

Un’alleanza conforme

“Noi stiamo governando con Renzi e abbiamo deciso di intraprendere un percorso di riforme per guidare l’Italia. Io quindi sarei per una alleanza alle amministrative che sia conforme a quella dell’attuale governo”

(Beatrice Lorenzin, ministro della Salute ed esponente di Ncd)

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La mia intervista a Radio24 sull’uscita del mio romanzo “Mio padre in una scatola da scarpe”

CAVALLIGiulio Cavalli è un attore e uno scrittore che combatte le mafie attraverso l’utilizzo della forma artistica e delle parole.
Vive sotto scorta da molti anni, ma tira dritto e non demorde.
E’ partito con uno spettacolo su Genova 2001 e la morte di Carlo Giuliani. Ha poi messo in scena la narrazione sulla strage all’aeroporto di Linate, ha raccontato storie di bambini comprati e sfruttati. Poi è passato alle mafie al Nord, al processo Andreotti.
Il suo prossimo spettacolo sarà su Marcello Dell’Utri.
Proprio in questi giorni pubblica “Mio padre in una scatola di scarpe”, un romanzo ispirato alla vera storia di Michele Landa.

420 milioni di euro a settimana

dollari-buco-nero-estesaAll’apice del suo splendore, Pablo Escobar intascava 420 milioni di dollari a settimana ed era uno dei signori della droga più ricchi di tutti i tempi. I soldi arrivavano in quantità così esagerate che Escobar era costretto a nasconderli nelle sue aziende agricole sparse per la Colombia, in magazzini diroccati e perfino dentro i muri delle case dei membri del cartello. Come racconta il fratello del boss, Roberto Escobar: “Pablo guadagnava così tanto che ogni  anno il 10% del suo patrimonio cash veniva mangiato dai ratti, perso o distrutto dall’umidità”.

i parla circa di 2,1 miliardi di dollari, visti gli introiti di cui si parlava, che il capo del cartello di Medellin non si accorgeva nemmeno di perdere per tanto fosse ricco. In un’intervista del 2009, Juan Pablo Escobar aveva detto che suo padre bruciò 2 milioni in banconote per riscaldare lui e la famiglia durante una fuga notturna. Uno dei problemi maggiori del boss era poi organizzare tutti quei soldi: Roberto Escobar scrive che il cartello spendeva circa 2,500 dollari tutti i mesi per le fascette necessarie per legare le mazzette di banconote.

(fonte)

Cose belle intorno a un libro

Giovedì, mezz’ora prima della presentazione del mio nuovo romanzo a Milano presso il Circolo della Stampa (info qui) la Onlus Pepita ha deciso di lanciare un flash mob contro le prevaricazioni. Tutte.

Sono le quotidiane magie che le storie ci permettono di annodare.

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Il mio romanzo avrei voluto scriverlo dieci anni fa

CAVALLINe parlavo giusto qualche giorno fa mentre stavamo rivedendo gli ultimi dettagli prima dell’uscita del mio romanzo (Mio padre in una scatola da scarpe, Rizzoli, esce il 17 settembre, mi raccomando): questo libro è quello che avrei dovuto scrivere dieci anni fa.

Sono nato teatrante ma poi i casi della vita mi hanno portato all’obbligo di difesa. Legittima difesa. Incessante legittima difesa perché un teatrante minacciato non è cosa, non si fa, non piace mica solo alla mafia ma anche e soprattutto a coloro che dell’investigazione ne dovrebbero fare un mestiere e invece si occupano di relazioni accondiscendenti per i propri superiori. Alla fine molto di quello che ho scritto e portato in scena in questi anni è servito più a difendermi piuttosto che raccontare. Fino a questi ultimi mesi.

Quando ho deciso che davvero non vale la pena spendersi per giustificazioni che sono orme leggere, passibili di qualsiasi lettura, mentre i critici per pregiudizio hanno la mano pesante e lo sguardo strettissimo. Non è propriamente voglia di piacere a tutti i costi, qualcosa di più destruens: cercare di abitare dentro lo spazio disegnato e arredato dagli altri. Ecco: ho passato gli ultimi dieci anni a mentre mi convincevano che avrei dovuto chiedere scusa. Per cosa, poi. Per l’etica calcolata che qualcuno non può permettersi di farsi sporcare.

Ho scritto un romanzo perché è il mio lavoro, quello che non ho mai avuto il tempo di fare. Raccontare l’ordinarietà di vite quotidiane che si ritrovano comunque, senza fari e senza microfoni sotto la bocca, ad avere l’occasione di essere giusti. Lasciare perdere gli eroi usati come soprammobili e scendere nell’umanità, quella di giorno e lavoro e sudore e contesto e salsa, andare lì dove c’è una poesia, un libro o uno spettacolo che è rimasto incastrato nei meccanismi quotidiani. Avrei voluto avere il coraggio di fottermene già dieci anni fa, raccontare le battaglie degli altri piuttosto che difendere la mia dagli stupidi, perché è lì la bellezza, tra le cose che scavalchiamo per noia e per disattenzione.

Sono in ritardo di dieci anni. Ma ci sono tutti i miei anni dentro.

La mafia dell’antimafia e i meriti di Telejato e Pino Maniaci

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A Palermo sta succedendo un bordello. Quando tra gli indagati c’è un presidente di una sezione del tribunale (in questo caso Silvana Saguto che si occupa di misure di prevenzione) significa che qualcosa di odioso sta accadendo: arricchirsi sui beni confiscati è un tradimento triplo: alla legge, all’etica e a Pio La Torre.

Eppure questa storia che riempi i giornali è stata raccontata per la prima volta da Pino Maniaci e la sua piccola Telejato. E non ho potuto non ricordarlo in questo articolo:

Eppure ricordo benissimo i sorrisini che accompagnavano le denunce di Pino Maniaci come se in fondo un giornalista così poco pettinato, così puzzolente di sigarette e fuori dall’antimafia borghese avesse una credibilità tutta da dimostrare. Non bastano le minacce, non bastano le inchieste: nel salotto buono dell’antimafia ci entri solo se hai imparato le buone maniere, le cortesie istituzionali e la moderazione. Mica per niente uno come Peppino Impastato ci avrebbe pisciato sopra all’antimafia di maniera che va forte in questi anni. E anche Pino Maniaci, certamente. Ora che l’indagine è in corso (ed è “terribilmente seria” come ci dice qualcuno dagli uffici appena perquisiti nel Tribunale di Palermo) partirà la solita litania dei contriti che piangeranno lacrime di polistirolo.

Il resto è qui.

La mafia di Ostia che si bulla su facebook

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Il capostipite della famiglia Spada, che secondo la DDA insieme ai Fasciani (e imparentata con i Casamonica) controlla le attività illegali di Ostia su facebook sfoggia la propria prepotenza contro le istituzioni e i giornalisti che scrivono di lui. La violenza dei vicoli oggi si srotola anche sui social network e vedrete che fra qualche anno qualche “professore” ci dirà che non ce ne siamo accorti. Noi.

Ne ho scritto qui.

Che scandalo se il mafioso in tivù non ha la cravatta

Vespa-Casamonica-739x445Nel Paese in cui Cosa Nostra ha investito soldi nei canali televisivi di Berlusconi (basta leggersi la sentenza definitiva della condanna a Dell’Utri), nel Paese in cui l’imperituro Andreotti andava per boschi con i boss, quello in cui un sottosegretario non parlava con i Casalesi ma era egli stesso Casalese (leggetevi la sentenza di Nicola Cosentino), nel Paese in cui l’ex Presidente della regione Sicilia avvisava un mafioso di essere ascoltato dalle forze dell’ordine, nel Paese in cui l’amico di Nitto Santapaola ha il monopolio del gioco d’azzardo, in questo Paese qui, dove anche i giornalisti ogni tanto capita che siano scelti dalla criminalità, in questo Paese qui tutti indignati per i Casamonica.

Perché, si vede, che anche per i mafiosi, temiamo soprattutto gli zingari mentre non ci accorgiamo degli altri.