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Giulio Cavalli

La chiusura del Cocoricò e la differenza tra realisti e benpensanti

Condivido quanto ha scritto Deborah Dirani:

 Chiudere per 4 mesi il Cocoricò è un po’ come serrare le porte della stalla dopo che i buoi sono andati in gita. Pensare di risolvere, o quanto meno contenere, il problema di quelli che si sfondano di Ketamina o MDMA levandogli una discoteca è davvero come cercare di vincere una guerra armati di piumini da cipria. Eppure questa è l’unica soluzione che è venuta in mente a Roma dopo il clamore mediatico suscitato dalla morte di un ragazzetto che si era calato un pasta.

Come a dire che la colpa è del locale e di chi lo gestisce. Come se i gestori di un locale potessero veramente mettersi di traverso agli spacciatori, ai ragazzini che ti chiedono se vuoi spendere, intendendo se ti vuoi comperare una pillolina della felicità. Come se il problema di quelli che passano i loro week end a smascellare sudandosi l’anima fosse qualcosa di pratico e non di sociologico, o psicologico, se si preferisce.

Come se non esistessero alternative al sabato sera al Cocco, come se non esistessero altri posti in cui ballare con le sinapsi sconnesse e gli occhi pallati. Come se non esistessero i rave, le tribe, e quelli che la vita se la vogliono vivere col cervello a metà.

La realtà è che per i prossimi 16 week end non si venderà una sola pasta di meno a Riccione e in tutto il resto d’Italia, che il provvedimento applicato con urgenza dal Viminale non salverà neanche una vita. Perché la vita quando ti cali una pasta o ti piombi di Ketamina te la giochi sempre ed è solo questione di fortuna, o di consapevolezza, se all’alba del giorno dopo sei ancora qua a veder sorgere il sole.

Bologna e i suoi trentacinque anni

Ogni volta che è il 2 agosto e che si parla di Bologna e io che avevo 3 anni quando è scoppiata la bomba, mi viene da chiedermi cosa si dovrebbe fare davanti a tragedie così. Mi spiego: mi chiedo che dovere abbiamo noi di fronte ad una strage che abbiamo letto o sentito raccontata perché non abbiamo potuto rendercene conto. E mi dico che forse la cosa migliore sarebbe, piuttosto che condividere parole prêt-à-porter, domandarsi se davvero abbiamo studiato tutto quello che con difficoltà ci hanno lasciato da studiare, se davvero sappiamo e abbiamo fatto sapere abbastanza. E io ogni anno mi sento così inefficace il 2 agosto. Ogni anno.

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La nuova Unità riesce ad innervosire anche Mucchetti (PD)

unità-chiusaIo non so se vi è capitato di leggere ultimamente una copia de l’Unità “rinata” nel ventre del renzismo. Se non avete avuto occasione di leggerla, beh, buon per voi e per la vostra ecologia intellettuale ma se ne avete sentito parlare forse vi siete già accorti di come improvvisamente anche Emilio Fede esce riabilitato dal giornalismo sdraiato del quotidiano fondato da Gramsci. Massimo Mucchetti (ex vicedirettore del Corriere della Sera nonché senatore del PD) ha scritto una lettera al direttore. Vale la pena leggerla:

“Caro direttore, perché non ti fai un paio di giri da noi, ai gruppi Pd del Senato e della Camera”. Inizia così una lettera al vetrioli indirizzata dal senatore Democratico Massimo Mucchetti al direttore dell’Unità Erasmo D’Angelis.

“Sai – continua l’ex vicedirettore del Corriere della Sera – i primi giorni della tua direzione hanno suscitato un certo stupore in chi crede che un giornale italiano – anche un giornale di partito – non debba mai dare impressione di imitare la Pravda. E invece il commento di oggi alla bocciatura della delega al governo sul canone Rai ha indotto un mio vecchio collega a chiedermi: “Ma quel Frulletti lì non sarà mica stato a scuola da Cernenco?”. Cernenko, capisci, non Stalin o Breznev: Cernenko”.

“Il direttore de l’Unità – ho ricordato all’immemore – è passato dalla redazione del Manifesto – chiosa Mucchetti – i brividi dell’eresia li ha provati in gioventù. Adesso segue l’etica della responsabilità. I lettori vanno formati, non informati; vanno galvanizzati, mica depressi”.

Ogni tanto a quest’ora

Tipo adesso, che ho appena finito di scrivere un articolo così veloce che sembrava non dovessero mai smettere di battere i tasti, ogni tanto a quest’ora mi rimangono in testa delle idee, mica poche, di una storia, di un pezzo o di un’inchiesta da provare ad annusare e ho le dita così stanche come penso che siano stanche le gambe stanche delle persone anziane che si preoccupano delle proprie gambe. E le idee mi rimangono in testa ma non mi arrivano alle dita come si ci fosse un imbuto ostruito in mezzo al petto.

E allora vado a dormire con la speranza che domattina, quando mi sveglio di mattina, domani, le idee non siano appassite e le abbia ancora tutte lì, chiare e in fila come sono adesso che è sera, senza nemmeno un piega sgualcita.

Così penso che la mia scrittura è l’orma migliore che mi potesse capitare di imparare a lasciare.

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Rai, la montagna e il topolino

161653797-edeae8c7-6972-488d-a46a-c320a1c831d9Sulla riforma Rai vale la pena leggere l’intervista di Enrico Mentana. Perché al di là che Mentana sia Mentana:

È una Gasparri 2.0. Si è aggiornata la vecchia legge con qualche modifica, come i maggiori poteri del direttore generale che sarà ancora più legato a Palazzo Chigi. Concordo sul ruolo di capo azienda forte, ma poi bisogna vedere chi ci metti. Per il resto, aspettiamo, il testo definitivo ancora non c’è.

L’intervista è qui.

E intanto il boss Cimmino è già tornato a casa

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Sono molto curioso di leggere le motivazioni con cui il tribunale del Riesame ha accolto la richiesta di annullamento di custodia cautelare del boss Luigi Cimmino, arrestato in pompa magna 11 giorni fa. Chiunque studi di camorra sa che il progetto di appropriarsi della zona tra il Vomero e Arenella, soprattutto per quel che riguarda le estorsioni, per Cimmino era una priorità. E siccome noi su giornali leggiamo degli arresti, molto più in piccolo la scarcerazione e poi quasi mai le motivazioni attendiamo con ansia il deposito delle motivazioni. Con ansia.

#Gaza: i disertori d’Israele che si rifiutano di bombardare

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Udi Segal, 19 anni, israeliano, sta aspettando di essere preso e incarcerato nella prigione militare Prison Six dalle autorità del suo paese. L’accusa è aver rifiutato di arruolarsi nell’esercito: “Israele può continuare questa occupazione, ‘but not in my name’, non nel mio nome”, racconta a IlFattoQuotidiano.it. Un sondaggio del Jerusalem Post rivela che l’86% dei cittadini israeliani si dichiara favorevole all’operazione Protective Edge. Dall’altra parte, però, almeno 50 soldati dell’Israel Defense Force hanno annunciato il loro rifiuto di partecipare all’operazione e migliaia di rappresentanti delle comunità ebraiche di tutto il mondo, guidate dal movimento di ebrei ortodossi antisionistiNeturei Karta, stanno manifestando nelle piazze contro l’attacco israeliano a Gaza.

Secondo il quotidiano israeliano Haaretz, ieri in tremila sono scesi in piazza Rabin, a Tel Aviv, per manifestare contro i raid d’Israele sulla Striscia. “L’appoggio del paese alla politica del primo ministro,Benjamin Netanyahu, è ancora forte – spiega Segal – ci sono molte persone, però, che sono stanche di questa guerra. Solo tra i miei coetanei, conosco almeno 120 o 130 ragazzi che hanno preso la mia stessa decisione”. A New York, Parigi, Londra, migliaia di ebrei hanno manifestato in strada al grido di “Palestina libera” e “no allo stato d’Israele” per protestare contro la politica militare del premier israeliano. A capo della maggior parte di queste manifestazioni c’erano gli ebrei ortodossi di Neturei Karta, un movimento antisionista nato a Gerusalemme nel 1938.

Il principio che muove il gruppo e i rappresentanti dell’ortodossia ebraica che non appoggiano le idee sioniste, però, non è di matrice politica, ma religiosa. Sostengono, infatti, che la costituzione di uno stato d’Israele violi le leggi della tradizione religiosa. Secondo i testi sacri, la diaspora ebraica è il frutto dei numerosi peccati commessi dal popolo d’Israele e solo l’avvento del Messia potrà restituirgli una patria. L’accusa mossa da Neturei Karta nei confronti dei sostenitori dello stato ebraico è quella di violare le leggi della tradizione religiosa, strumentalizzandola per meri fini politici. I membri del movimento sostengono che l’Onu, riconoscendo lo stato d’Israele, abbia commesso un’ingiustizia anche nei confronti del popolo ebraico.

“Quando mi sono avvicinato all’età della leva obbligatoria – racconta Segal – ho iniziato a leggere, studiare e documentarmi sul conflitto tra Israele e Palestina. È più di un anno che mi informo sui giornali e studio la storia e ho deciso che non posso prendere parte a questa occupazione”. In Terra Santa molte altre persone hanno deciso di fare obiezione di coscienza per protestare contro l’occupazione israeliana nella Striscia di Gaza e nella West Bank, rischiando il carcere come Udi Segal. “Non so ancora di preciso quanto rimarrò in carcere – continua Segal -, anche se la pena prevista in questi casi è di circa 6 mesi. Non basterà questo a farmi cambiare idea in futuro”. Anche 50 soldati israeliani hanno deciso di rifiutare qualsiasi incarico nei territori occupati. Lo hanno comunicato con una lettera al Washington Post in cui spiegano i motivi che hanno portato alla loro decisione: “Ci opponiamo – scrivono – all’esercito israeliano e alla legge sulla leva obbligatoria perché ripudiamo questa operazione militare”.

Quello di Udi Segal, però, non è un caso isolato. Il primo risale 1954, quando Amnon Zichroni, militare, chiese di essere sollevato dal servizio militare perché pacifista. Da quel momento in poi sono molti i movimenti che raggruppano, per motivi diversi, obiettori di coscienza o militari che si rifiutano di servire l’esercito. Nel 1982, durante la guerra tra Israele e Libano, è nato il movimento Yesh Gvul formato da veterani dell’esercito che si rifiutarono di combattere per Israele al confine con il Libano. Questo “rifiuto selettivo” si estese, successivamente, anche ai territori occupati. Il più famoso e nutrito gruppo di militari che hanno deciso di non combattere nei territori occupati è l’Ometz LeSarev o “Coraggio di rifiutare“. I 623 componenti del movimento, formatosi nel 2002, si sono rifiutati di combattere nella Striscia di Gaza e in West Bank, ma hanno giurato di servire fedelmente il loro paese in qualsiasi altra operazione militare. Per questo, nel 2004, il gruppo è stato candidato al premio Nobel per la pace.

(fonte)

(la lettera dei soldati)