Vai al contenuto

Giulio Cavalli

Non serviva Cantone per capire che il “favore” di Expo a Farinetti non fosse una grande idea

renzi-farinetti-655496Dedicare Expo all’alimentazione e rischiare di lasciare i visitatori senza ristoranti italiani. È lo spettro che accompagna l’amministratore delegato, Giuseppe Sala, da quando martedì ha ricevuto i rilievi dell’autorità anticorruzione presieduta da Raffaele Cantone sull’appalto diretto affidato a Eataly: ottomila metri quadrati, 20 ristoranti e circa 2,2 milioni di pasti da distribuire. Il tutto assegnato senza gara d’appalto.

L’Anticorruzione il 29 gennaio ha chiesto la documentazione relativa al contratto. Sala ha subito spiegato che era stato assegnato direttamente per “l’unicità” della catena di Farinetti e ha consegnato quanto chiesto. Svolti tutti gli accertamenti, Cantone il 7 aprile ha risposto, chiedendo nuova documentazione e sollevando numerosi dubbi sulla legittimità del contratto stesso. In tre pagine che il Fatto ha potuto leggere, Cantone, dopo aver ricordato che l’appalto è stato deliberato dal cda nel giugno 2013, quindi quando ancora l’autorità che presiede non era stata istituita, avanza dieci rilievi specifici a Sala invitando la società a chiarire altrettanti aspetti dell’affidamento diretto sollevando più volte la violazione del Protocollo di legalità.

“Quali sono le circostanze che hanno portato alla proposta di collaborazione avanzata da Eataly?”. Secondo: “Sulla base di quali valutazioni è stata determinata l’unicità tecnica di Eataly, atteso che non risulterebbe effettuata alcuna preventiva ricerca di mercato”. E già questo sarebbe sufficiente a far preoccupare Sala: chi ha deciso, perché e sulla base di cosa? Ma è solo l’inizio. “Qual è l’importo atteso dei ricavi –indicato solo nel verbale del Cda in 44 milioni di euro – e, di conseguenza, su quali basi sono state determinate le royalties che la concessionaria retrocederà, quantificate nel 5% del fatturato, cui si somma un ulteriore 1% per fatturati sopra i 40 milioni”. Esatto: da contratto a Farinetti spetta il 95% del fatturato che servirà anche a coprire le spese vive, ha più volte spiegato il patron di Eataly.

E proprio alle spese Cantone arriva al quarto rilievo chiedendo “qual è l’ammontare stimato dei costi correlati alla concessione, essendo prevista la deduzione delle spese per la realizzazione delle celle frigorifere e risultando ‘a carico di Expo gli oneri derivanti dai consumi di elettricità e di acqua’”. E, in definitiva, “qual è il valore stimato del contratto di concessione da determinarsi ai sensi dell’art. 29 del decreto legislativo 163/2006” che regola gli appalti pubblici?

Leggendo i quesiti dell’Autorità anticorruzione il contratto tra Expo ed Eataly appare piuttosto lacunoso. O forse redatto con leggerezza. Tanto che al nono punto Cantone è costretto a rilevare come “l’inserimento della clausola per cui ‘il presente contratto può essere modificato solo su accordo di entrambe le parti da stipularsi per iscritto’ non appare ammissibile trattandosi di un contratto pubblico”. E manca la “previsione, tra le cause di risoluzione per inadempimento e le clausole risolutive espresse, della violazione agli obblighi derivanti dal Protocollo di legalità”.

Ancora: “Non sono indicate penali legate al livello del servizio reso, nonostante tra le richiamate caratteristiche di unicità vi sia un’offerta alimentare di qualità a prezzi accessibili”. Sulla presunta unicità Cantone però solleva un ulteriore dubbio: l’articolo due del contratto di concessione prevede che “all’interno del perimetro Eataly potrà altresì, previa approvazione da parte della direzione di Expo, organizzare e svolgere specifiche iniziative ed eventi culturali e didattici, volti a valorizzare la propria esperienza, a promuovere e valorizzare il patrimonio enogastronomico nazionale e a diffondere i valori connessi a Expo”.

Ma così, scrive Cantone, “le vantate peculiarità di Eataly non risultano teleologicamente connesse con la prestazione dedotta in contratto, che, per come descritta, consisterebbe genericamente nella ristorazione e somministrazione di alimenti e bevande al pubblico, ancorché di livello qualitativo elevato”.

INFINE:visto che Eataly prevede di dividere gli spazi che ha ricevuto in concessione in 20 aree regionali con il coinvolgimento di circa 100 ristoratori, Expo “come intende regolare i rapporti con tali operatori terzi, anche nell’ambito del Protocollo di legalità?”. Protocollo che prevede, fra l’altro, controlli antimafia anche sui fornitori di vitto. Protocollo, va detto, firmato dallo stesso Sala. Ora la società ha pochi giorni di tempo per rispondere: perché avete affidato la ristorazione a Eataly?

(fonte)

Cosa ha detto la Corte di Strasburgo su Diaz, Italia e sul reato di tortura

Tra le diverse interpretazioni (e le solite penose manipolazioni) sulla sentenza della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo vale la pena leggere il pezzo di Katia Bonchi per “Il Manifesto”:

CCDBt6iW4AAduJe.jpg:largeIl blitz alla Diaz durante il G8 di Genova deve essere qua­li­fi­cato come «tor­tura», alla poli­zia è stato con­sen­tito di non col­la­bo­rare alle inda­gini e la rea­zione dello Stato ita­liano non è stata effi­cace vio­lando l’articolo 3 della Con­ven­zione euro­pea dei diritti dell’uomo. Lo ha sta­bi­lito la Corte euro­pea di Stra­sburgo (Cedu) che ha accolto il ricorso di Arnaldo Cestaro, uno dei 92 mani­fe­stanti, pic­chiati e ingiu­sta­mente arre­stati la notte del 21 luglio 2001. Cestaro, all’epoca 62 enne, uscì dalla scuola con frat­ture a brac­cia, gambe e costole che hanno richie­sto nume­rosi inter­venti negli anni successivi.

Una sen­tenza che pesa come un maci­gno per un Paese le cui isti­tu­zioni hanno mini­miz­zato fino all’ultimo quanto accadde in quella che, gra­zie alle parole di uno dei poli­ziotti inter­ve­nuti, è nota come la «macel­le­ria messicana».

La sen­tenza, decisa all’unanimità, per la prima volta con­danna l’Italia per vio­lenze qua­li­fi­ca­bili come tor­tura, esclu­dendo che i fatti pos­sano essere con­si­de­rati solo come «trat­ta­menti inu­mani e degra­danti» e sot­to­li­neando la gra­vità delle sof­fe­renze inflitte e la volon­ta­rietà deli­be­rata di inflig­gerle. La Corte respinge anche la difesa del governo ita­liano secondo cui gli agenti inter­ve­nuti quella notte erano sot­to­po­sti a una par­ti­co­lare ten­sione: «La ten­sione – scri­vono i giu­dici – non dipese tanto da ragioni ogget­tive quanto dalla deci­sione di pro­ce­dere ad arre­sti con fina­lità media­ti­che uti­liz­zando moda­lità ope­ra­tive che non garan­ti­vano la tutela dei diritti umani».

La Cedu entra poi nel cuore del pro­blema: la rea­zione (o non rea­zione) dello Stato ita­liano a ciò che avvenne.

«Gli ese­cu­tori mate­riali dell’aggressione non sono mai stati iden­ti­fi­cati e sono rima­sti, molto sem­pli­ce­mente, impu­niti» e la prin­ci­pale respon­sa­bi­lità di ciò è adde­bi­ta­bile alla «man­cata col­la­bo­ra­zione della poli­zia alle inda­gini». Ma la Corte va anche oltre e lamenta che «alla poli­zia ita­liana è stato con­sen­tito di rifiu­tare impu­ne­mente di col­la­bo­rare con le auto­rità com­pe­tenti nell’identificazione degli agenti impli­cati negli atti di tor­tura». I giu­dici ricor­dano che gli agenti devono por­tare un «numero di matri­cola che ne con­senta l’identificazione». Per quanto riguarda le con­danne «nes­suno è stato san­zio­nato per le lesioni per­so­nali» a causa della pre­scri­zione men­tre sono stati con­dan­nati solo alcuni fun­zio­nari per i «ten­ta­tivi di giu­sti­fi­care i mal­trat­ta­menti». Ma anche costoro hanno bene­fi­ciato di tre anni di indulto su una pena totale non supe­riore ai 4 anni.

La respon­sa­bi­lità di tutto ciò non è stata né della Pro­cura né dei giu­dici ai quali il Governo ita­liano secondo la Corte ha pro­vato ad attri­buire la «colpa» della pre­scri­zione. Anzi, al con­tra­rio, i magi­strati hanno ope­rato «dili­gen­te­mente, supe­rando osta­coli non indif­fe­renti nel corso dell’inchiesta».

Il pro­blema, secondo la Corte, è «strut­tu­rale»: «La legi­sla­zione penale ita­liana si è rive­lata ina­de­guata all’esigenza di san­zio­nare atti di tor­tura in modo da pre­ve­nire altre vio­la­zioni simili».

Infatti «la pre­scri­zione in que­sti casi è inam­mis­si­bile», come inam­mis­si­bili sono amni­stia e indulto.

La Corte ritiene neces­sa­rio che «i respon­sa­bili di atti di tor­tura siano sospesi durante le inda­gini e il pro­cesso e, desti­tuiti dopo la con­danna». Esat­ta­mente il con­tra­rio di quanto acca­duto. Forse anche per que­sto «il Governo ita­liano non ha mai rispo­sto alla spe­ci­fica richie­sta di chia­ri­menti avan­zata dai giu­dici di Strasburgo».

Dall’ex capo dell’Ucigos Gio­vanni Luperi al diret­tore dello Sco Fran­ce­sco Grat­teri al suo vice Gil­berto Cal­da­rozzi, al capo del reparto mobile di Roma Vin­cenzo Can­te­rini, i mas­simi ver­tici della poli­zia hanno pro­se­guito le loro bril­lanti car­riere fino alla con­danna defi­ni­tiva. Per molti di loro è arri­vata nel frat­tempo l’agognata pen­sione, per gli altri nes­suna desti­tu­zione da parte del Vimi­nale ma solo l’interdizione per 5 anni dai pub­blici uffici dispo­sta dai giu­dici, ter­mi­nata la quale potranno rien­trare in ser­vi­zio. Per i capi­squa­dra dei pic­chia­tori del nucleo spe­ri­men­tale anti­som­mossa di Roma, con­dan­nati ma pre­scritti prima della Cas­sa­zione (rite­nuti però respon­sa­bili agli affetti civili) non risul­tano san­zioni disci­pli­nari, tan­to­meno per i loro sot­to­po­sti mai identificati.

«I ver­tici delle forze di poli­zia hanno rice­vuto in que­sti anni sol­tanto atte­sta­zioni di stima e soli­da­rietà» com­menta il pro­cu­ra­tore gene­rale di Genova Enrico Zucca, che ha soste­nuto l’accusa con­tro i poli­ziotti in primo e secondo grado — e mi rifiuto di cre­dere che lo stato non abbia fun­zio­nari migliori di quelli che sono stati con­dan­nati». «Quando nel corso dei pro­cessi insieme al col­lega Car­dona par­la­vamo di tor­tura citando pro­prio casi della Cedu ci guar­da­vano come fos­simo pazzi», ricorda con un piz­zico di ama­rezza mista alla sod­di­sfa­zione per una sen­tenza che con­si­dera però «scon­tata». Per il magi­strato, che spesso si trovò iso­lato anche all’interno della stessa Pro­cura nell’inchiesta più sco­moda «biso­gna pre­ve­nire fatti di que­sto genere e in Ita­lia non abbiamo anti­doti all’interno del corpo di appar­te­nenza. Le dichia­ra­zioni dopo la sen­tenza defi­ni­tiva dell’allora capo della poli­zia Man­ga­nelli non sono solo insuf­fi­cienti ma dimo­strano la man­cata presa di coscienza di quello che è suc­cesso. Fece delle scuse, sì, ma par­lando di pochi errori di sin­goli, senza riflet­tere sulla vastità del fenomeno».

La sen­tenza che ha con­dan­nato l’Italia a un risar­ci­mento di 45 mila euro ad Arnaldo Cestaro arriva a quat­tro anni dal ricorso. I legali di Cestaro, gli avvo­cati Nic­colò e Nata­lia Pao­letti, che non hanno nep­pure atteso la sen­tenza di Cas­sa­zione per rivol­gersi alla Cedu, espri­mono sod­di­sfa­zione: «Siamo molto con­tenti, soprat­tutto per il fatto che la corte ha rile­vato l’enorme man­canza dell’ordinamento interno ita­liano, vale a dire la non pre­vi­sione del reato di tor­tura e lo invita quindi a a porre dei rimedi». Per il loro cliente anche un risar­ci­mento supe­riore a quanto nor­mal­mente dispo­sto dalla Corte per casi simili «anche se – dice l’avvocato — par­lare di cifre rispetto alla vio­la­zione di deter­mi­nati diritti, è svilente».

«La sen­tenza della Corte di Stra­sburgo – com­menta il sin­daco di Genova Marco Doria — rico­no­sce la tra­gica realtà delle vio­lenze per­pe­trate alla Diaz e mette a nudo la respon­sa­bi­lità di una legi­sla­zione che non pre­vede il reato di tor­tura e, per que­sta ragione, lascia sostan­zial­mente impu­niti i col­pe­voli. È una sen­tenza di grande valore, non solo da rispet­tare, ma da con­di­vi­dere pie­na­mente». «Uno stato demo­cra­tico – aggiunge il sin­daco — non deve mai tol­le­rare che uomini che agi­scono in suo nome com­piano atti di bru­tale vio­lenza con­tro le per­sone e i diritti dell’uomo. È, que­sta, una con­di­zione essen­ziale anche per difen­dere la dignità di quanti ope­rano invece negli appa­rati dello Stato secondo i prin­cipi della Costituzione».
Il video del Tg3 Ligu­ria la mat­tina dopo la mat­tanza alla Diaz.

L’Italia, che potrebbe fare ricorso con­tro la sen­tenza, sarà costretta a ottem­pe­rare con una legge ad hoc.

«Il modello – spiega l’avvocato Pao­letti – potrebbe essere per esem­pio quello fran­cese, che pre­vede per la tor­tura una pena base di 15 anni, aumen­tata a 20 in caso sia un pub­blico uffi­ciale a com­met­terla e a 30 in caso di infer­mità per­ma­nente per la vit­tima, ma si sa che il nostro Paese è molto ’bravo’ a ottem­pe­rare con molta len­tezza alle sen­tenze della Cedu».

Nell’attesa, comun­que lo Stato ita­liano potrebbe essere costretto a sbor­sare molto per risar­cire le altre circa 60 parti civili della Diaz che hanno fatto ricorso in blocco dopo la sen­tenza defi­ni­tiva. Se quella di Cestaro può essere con­si­de­rata una sentenza-pilota, si può ipo­tiz­zare un risar­ci­mento di quasi 3 milioni di euro. Senza con­tare i pro­cessi civili per le vit­time non solo della Diaz ma anche di Bol­za­neto, che sono appena cominciati

Toh! Per il CSM Di Matteo non va bene per la procura nazionale antimafia

Di-Matteo-Messina-Denaro-Riina-combo-624x300Magistrato simbolo della lotta antimafia, pubblica accusa nel processo per la trattativa Stato-mafia ma Nino Di Matteo non andrà alla procura nazionale antimafia. Il Csm ha bocciato la sua al concorso per la copertura di tre posti alla procura nazionale antimafia. Il plenum gli ha preferito tre colleghi meno noti, tra cui Eugenia Pontassuglia, pm del processo di Bari sulle escort che frequentavano le residenze di Silvio Berlusconi.

La decisione è stata presa a maggioranza. Oltre a Pontassuglia, gli altri nuovi sostituti della Procura guidata da Franco Roberti sono il sostituto procuratore napoletano Marco Del Gaudio, pm del processo all’ex presidente di Finmeccanica Pierfrancesco Guarguaglini e il sostituto Pg di Catanzaro Salvatore Dolce, titolare di diverse inchieste sulle cosche calabresi. A Di Matteo sono andati 5 voti, contro i 16 attribuiti agli tre magistrati scelti.

Un anno fa aveva Di Matteo aveva chiesto al Consiglio superiore della magistratura di passare alla procura nazionale antimafia di
Franco Roberti. “Da parte mia non c’è alcuna intenzione di lasciare il lavoro cominciato. È solo una domanda come tante altre che ho fatte nel corso della mia carriera – aveva detto Di Matteo al fattoquotidiano.it –. Se dovesse essere accolta non vuol dire che dovrei abbandonare la indagini sulla Trattativa, dato che esiste la possibilità di applicare i magistrati in servizio alla Dna alle inchieste che conducevano in precedenza”. Ma per il magistrato, più volte minacciato dal boss Totò Riina e sottoposto al livello più alto di scorta, non ci sarà questo problema.

(clic)

Uno su tre

corruzioneC’è un’ansa battuta questa mattina che dovrebbe essere tenuta in tasca o almeno a mente tutte le volte che sentiamo l’odore dell’ottimismo forzato sulle grandi opere, il vero feticcio di questi ultimi anni:

Tra frodi ai finanziamenti pubblici e sprechi nella Pubblica amministrazione, lo Stato ha subito un danno di 4,1 miliardi nel 2014. Lo rende noto la Gdf nel suo ‘Rapporto annuale’. Oltre 3.700 le persone denunciate per reati contro la Pa. Appalti pubblici per 1,8 miliardi, più di un terzo di quelli controllati e monitorati, sono stati assegnati illecitamente nel 2014. La Gdf ha effettuato verifiche su 220 appalti; denunciate 933 persone, di cui 44 arrestate.

Genova, G8 e tortura: grazie Arnaldo Cestaro

La condanna dei fatti di Genova da parte della Corte europea per i diritti dell’uomo è merito di un anziano signore piccolo ma agguerrito. Ci siamo conosciuti in Piazza Alimonda qualche anno fa e il mio abbraccio oggi è per lui.

3155Il 21 luglio del 2001, durante il G8 di Genova, Arnaldo Cestaro era il più anziano dei manifestanti presenti all’interno della scuola Diaz a Genova. Durante i pestaggi della polizia riportò la frattura di un braccio, una gamba e dieci costole. Oggi Cestaro ha vinto il ricorso presentato alla Corte di Strasburgo sui pestaggi al G8 di Genova, ma si sentirà davvero risarcito solo quando sarà introdotto il reato di tortura: “I soldi non risarciscono il male che è stato fatto. E’ vero, è un primo passo quello di oggi, ma mi sentirò davvero risarcito solo quando lo Stato introdurrà il reato di tortura”, afferma Cestaro.
G8, Cestaro: “Ho le scene del massacro sempre davanti”
Condividi

“Oggi ho 75 anni ma non cancellerò mai l’orrore vissuto. Ho visto il massacro in diretta, ho visto l’orrore del nostro Stato. Dopo quindici anni, le scuse migliori sono le risposte reali, non i soldi. Il reato di tortura è una cosa legale”, ha dichiarato l’uomo dopo la sentenza.

Arnaldo Cestaro è nato ad Agugliaro, in provincia di Vicenza, l’11 maggio del 1939. Oggi ha 75 anni e vive a Padova. Fin da giovane aveva aderito al Partito Comunista e, nell’estate del 2001, partì per Genova con i compagni delle sezioni di Rifondazione Comunista di Vicenza e di Montecchio Maggiore. Arrivato nel capoluogo, il 21 luglio partecipò alla manifestazioni pacifiche della mattinata e, verso sera, decise di trascorrere la notte in città ma, non conoscendola, chiese quindi consiglio ad una signora che lo accompagnò alla scuola Diaz.

Cestaro entrò nell’edificio e cercò un posto dove trascorrere la notte. Si sistemò proprio a ridosso della porta d’entrata, sul pavimento in legno della palestra. Uscì a mangiare un boccone e poi rientrò, stanco e provato dalla giornata. Si addormentò quasi subito ma poco prima della mezzanotte sentì un rumore infernale e pochi istanti dopo la porta di ingresso venne sfondata. In un primo momento pensò ad un attacco dei black bloc, ma ben presto si rese conto che si trattava di una irruzione della polizia. Arnaldo cercò di difendersi dai manganelli, gridando di essere una persona anziana e pacifica. E’ lui l’uomo con i capelli bianchi citato dal vice questore Michelangelo Fournier nella deposizione davanti ai giudici, durante il processo per i fatti della Diaz. Fournier definì quell’irruzione una “macelleria messicana” e raccontò ai magistrati di aver urlato “basta!” ai poliziotti che stavano picchiando un’uomo anziano. Quell’uomo anziano era proprio Cestaro: quella notte venne portato in ospedale con dieci costole rotte, un braccio e una gamba rotte, la testa piena di ematomi e il corpo pieno di lividi. I colpi gli provocarono plurime fratture. L’uomo fu operato subito all’ospedale di Genova e qualche anno più tardi di nuovo al Careggi di Firenze. Le ferite, riferisce la Corte, gli hanno procurato danni permanenti, con debolezza persistente del braccio e della gamba destri.

Oggi ha ottenuto un risarcimento danni di 45 mila euro dalla Corte di Strasburgo che ha riconosciuto che, al G8, le forze dell’ordine fecero vere e proprie “torture”. Come racconta uno dei suoi avvocati, “A Cestaro lo Stato ha già pignorato i 35 mila euro di risarcimento che gli vennero riconosciuti in sede penale. Aveva delle cartelle di Equitalia e lui non fece in tempo nemmeno ad intascare quella cifra. Lo Stato gliela pignorò immediatamente”.

Appena ha saputo la notizia del ricorso vinto dai suoi legali, Cestaro ha pensato: “Siamo davanti ad un primo passo. Subito però – ha aggiunto – ho pensato all’orrore vissuto e mi è venuta tanta amarezza perchè la legge sulla tortura avrebbe già dovuto essere introdotta da tempo. Fummo sottoposti a reali torture. Ne porto ancora le conseguenze e penso che, se il Parlamento non agirà, il male che hanno fatto a me lo faranno ad altri”. Arnaldo Cestaro ogni anno torna a Genova sui luoghi del G8. Amici da riabbracciare, ma anche ricordi dolorosi. “E ogni volta penso che quello che abbiamo vissuto non deve più succedere”, dice con amarezza.

(fonte)

L’appalto vinto dal cugino di Delrio (e organizzato da sua moglie)

Non accenna a placarsi a Reggio Emilia la questione dell’appalto vinto dalla società del cugino del sottosegretario alla presidenza del Consiglio Graziano Delrio, allora sindaco della città, nel giugno del 2009. Il M5s, dopo avere letto l’inchiesta del Fatto (“Reggio Emilia, Delrio e quell’appalto da 140mila euro alla ditta del cugino“) sull’affidamento dei lavori di ristrutturazione della scuola dell’infanzia Allende, ha chiesto l’accesso agli atti. “Abbiamo scoperto” spiega il consigliere comunale del M5s Matteo Olivieri, “che il Comune era consapevole della piccola quota di partecipazione della funzionaria dell’ufficio gare, Enrica Montanari, alla società che poi si è aggiudicato l’appalto”. Come il Fatto aveva raccontato infatti la Delrio Bonfiglio & figli di Delrio Paolo Sas era amministrata dal cugino del sindaco Delrio, Paolo Delrio, che in qualità di socio accomandatario possedeva il 99 per cento della Sas. Mentre il restante uno per cento era intestato a Enrica Montanari. In pratica la funzionaria responsabile dell’unità appalti e contratti del Comune non era solo la moglie del titolare ma era lei stessa socia accomandante (senza poteri di amministrazione) con una quota minima. Proprio l’ufficio della dottoressa Montanari inviò gli inviti alle 20 società che il Comune decise di coinvolgere nella gara a inviti. Dalle carte si scopre che il 14 aprile del 2009 i dirigente dell’ufficio tecnico “scuole e nidi di infanzia” del comune di Reggio Emilia, Ilaria Martini, scrive a “Enrica Montanari, Ufficio gare” quanto segue: “Si trasmette l’elenco delle ditte da invitare alla procedura negoziata relativa all’ampliamento e ristrutturazione della scuola dell’infanzia Allende”. L’elenco è composto di 20 ditte e include la società del marito Paolo Delrio, cugino del sindaco. Dopo un mese e due giorni, il 16 maggio, parte il fax di invito alle venti società preselezionate per partecipare alla “gara” con termine perentorio entro il 3 giugno. Rispondono solo in quattro. Il 5 giugno proprio nell’ufficio appalti e contratti,si decreta la vittoria della società di Paolo Delrio (& funzionaria-socia-consorte ) che presenta l’offerta più bassa. Sottolinea il consigliere Olivieri del M5s “a leggere le carte, Enrica Montanari aveva conoscenza dell’esistenza della ‘gara’ un mese prima degli altri contendenti”. Non solo. Quello stesso giorno, il 5 giugno 2009, Paolo Bonacini, dirigente del Servizio Affari Istituzionali del Comune, dal quale dipende l’ufficio di Enrica Montanari, scrive alla Procura di Reggio Emilia: “Si richiede il rilascio del certificato del casellario giudiziale intestato alle 2 persone di cui all’elenco allegato per controllo autocertificazione relativa alla gara d’appalto”. In pratica, prima di aggiudicare definitivamente (cosa che accadrà il 24 giugno 2009) alla Delrio Bonfiglio e figli di Del Rio Paolo Sas, il Comune vuole sapere cosa risulta al casellario sui soggetti che figurano nella visura storica estratta il giorno stesso e allegata alla richiesta. Peccato che, sotto la richiesta per due, si legga un solo nome: Delrio Paolo. “sembra quasi che”, commenta Olivieri, “il Comune si sia fermato un attimo prima di chiedere il casellario di una sua funzionaria perché avrebbe svelato a tutti che stava assegnando un appalto a una società nella quale era presente lei stessa con una piccola quota”. Anche il consigliere Ncd Cristian Immovilli ha presentato un’interrogazione sul ruolo di Enrica Montanari e sugli appalti ottenuti dal cugino dell’ex sindaco Delrio. Secondo l’assessore Catellani, la dottoressa Montanari non aveva comunicato ufficialmente la sua partecipazione ma il regolamento del Comune non lo imponeva. Invece la società del cugino ha ricevuto pagamenti per 793 mila euro dal 1997 al 2010, sia prima che dopo l’elezione di Graziano Delrio a sindaco nel 2004. Nell’elenco fornito dall’assessore, però, non ci sono i 140 mila euro della scuola Allende, forse perché il pagamento era stato contestato.

(Fonte)

La rivoflessione arancione

Tra i tanti motivi per cui vale la pena leggere LEFT questa settimana (in edicola da ieri) c’è un pezzo che ho scritto raccogliendo le sensazione dei vari dirigenti di partito sulla rinuncia di Giuliano Pisapia a ricandidarsi sindaco di Milano. Devo dire che difficilmente ricordo un silenzio più rumoroso dopo l’annuncio di Giuliano (hanno finto di rammaricarsi ma non gli hanno chiesto di ripensarci) e ascoltando alcune voci sia del PD che di SEL si coglie quanto la rivoluzione arancione forse abbia faticato nel trovare dirigenti all’altezza. Ovviamente questo non lo dicono i vari segretari di partito ma ascoltandoli (e riportandoli su pagina) mi ha colto una grigia malinconia: sotto la brace brucia una mai sopita soddisfazione di vedere il civismo fallire e così il partitismo (nella sua forma peggiore) può ricominciare a dire di tutto senza dire niente, lasciando a Giuliano gli eventuali fallimenti e portandosi in campagna elettorale le note positive da rivendere alla prossima votazione. Peccato.

(Per chi crede che questo post sia anche pubblicità per LEFT: sì, certo. Mi auguro di avere a lungo un posto così comodo e umano per allenare il muscolo della curiosità)

A proposito del PD, di Mele, di Emiliano e della parola che funziona

Michele Emiliano (tra le altre cose anche segretario del PD in Puglia), dopo il polverone suscitato dalla “resurrezione” politica di Mele candidato sindaco, frena:

“L’ipotesi è completamente destituita di fondamento. Non risulta che Cosimo Mele abbia fatto richiesta ditesseramento, né che il Pd di Carovigno gli abbia offerto di entrare nel partito”, precisa il segretario regionale del Pd Puglia. “Per quanto riguarda invece la presentazione di liste del Partito Democratico e la concessione da parte della segreteria regionale del simbolo del partito per le prossime elezioni comunali in Puglia – continua Emiliano, confermando la notizia – deve essere chiaro a tutti i militanti del Pd che non può accadere che accordi politici a livello cittadino (che pure potrebbero avere in astratto giustificazione in esperienze amministrative e vicende umane di riscatto personale positivamente constatabili dalla comunità locale), vengano assunti senza tenere conto delle evidenti implicazioni politiche negative su tutto il PD regionale e nazionale. Questa irrevocabile posizione del Pd della Puglia, è stata più volte comunicata ai dirigenti del Pd di Carovigno che sono tenuti ad osservarla”.