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Giulio Cavalli

‘Ci vorrebbe una militanza del bello’ (la mia intervista per L’Indro)

(l’articolo originale è qui)

Schermata del 2015-04-01 19:54:41Attore, scrittore, regista, politico: per Giulio Cavalli non si tratta di quattro carriere distinte, ma degli aspetti coordinati di un’unica attività coerente, tesa a mantenere viva l’informazione e la coscienza critica sui fenomeni criminali del nostro Paese. Ne è un esempio L’innocenza di Giulio, una disamina del processo a Giulio Andreotti che ha assunto sia la forma del libro-inchiesta, sia quella di spettacolo teatrale. Eletto due volte consigliere regionale in Lombardia, la prima volta con IdV e la seconda con SEL, dal 2009 vive sotto scorta a causa delle minacce ricevute da mafiosi a causa dei suoi spettacoli, ma rifiuta ogni mitizzazione: in una recente intervista a Radio Diciannove ha dichiarato: «Tra la vita sotto scorta e una cartella di Equitalia, mi deprime ancora di più la seconda». Il suo nuovo spettacolo, ironicamente intitolato L’amico degli eroi, è incentrato sulla figura di Marcello Dell’Utri, il dirigente Fininvest e senatore di Forza Italia recentemente condannato per mafia in via definitiva. La produzione avviene interamente attraverso la formula del crowdfunding, cioè con una raccolta fondi anticipata attraverso la Rete.

Perché uno spettacolo su Marcello Dell’Utri?

Diceva Mark Twain che non bisogna aver paura di ciò che non conosciamo, bensì di ciò che riteniamo vero e invece non lo è. Ed io ho il terrore che qualcuno si sia convinto che i veri boss, quelli che hanno tirato le fila della criminalità organizzata in Italia, siano stati due subnormali come Riina e Provenzano, e si dimentichi di porsi le domande giuste su chi ne siano state le vere menti dal 1992 a oggi. C’è un processo in corso, e in un Paese normale a fianco del processo indiziario ci deve essere anche un processo sociale e culturale. È a quest’ultimo che vorremmo dare un po’ di spinta.

Come e quando è nato L’amico degli eroi?

In realtà è nato già quando scrivevo L’innocenza di Giulio. La riflessione che feci allora con Caselli e Lucarelli è che se l’andreottismo è riuscito a rinascere come un’araba fenice evidentemente lo ha fatto attraverso il dellutrismo. I risultati giudiziari sono stati poi estremamente diversi: nel caso di Andreotti si è riusciti a far rientrare tutto sotto un’innocenza mai verificata, mentre con Dell’Utri è stata inevitabile la condanna. A me la figura di Dell’Utri interessava particolarmente, perché è il tipico siciliano che è diventato molto “lombardo”, cioè è riuscito ad abbinare la peggiore sicilianità, la conoscenza degli ambienti mafiosi, con l’imprenditorialità “turbo” (turbo anche dal punto di vista etico) della peggiore Lombardia.

Stai dicendo che Dell’Utri è stato l’avanguardia dell’ascesa della Mafia al nord?

Io penso che la Storia ci dica che Dell’Utri sia stato il primo a far sognare alla Mafia, a Cosa Nostra, di poter avere interlocutori altissimi e un ruolo da protagonista all’interno della politica italiana. Si è passati dalla Mafia gregaria, talvolta utile idiota, di Giulio Andreotti, alla Mafia protagonista delle decisioni politiche di questo Paese.

Il tuo spettacolo è finanziato attraverso il crowdfunding. È stata una scelta derivata dalla volontà di evitare condizionamenti, o un obbligo dovuto all’impossibilità di produrlo in altro modo?

Per la verità non abbiamo mai neppure provato a finanziare lo spettacolo in modo tradizionale. So che sarebbe molto “epico” raccontare di avere ricevuto dei no, ma non abbiamo mai neppure posto la domanda. Anche se da noi sono ancora sperimentali, teniamo presente che in Europa le produzioni in crowdfunding sono ormai una realtà consolidata, direi quasi abituale, sia per la letteratura che per il teatro. E ricordiamoci che ci troviamo in un Paese in cui a decidere le sorti produttive di uno spettacolo sono politici la cui cultura teatrale è pressoché inesistente. Ti confesso che, dopo essermi dovuto confrontare con piccoli assessori molto più che, come sarebbe normale, con i miei referenti, che dovrebbero essere i miei spettatori e i miei lettori, mi sono detto: visto che il mio pubblico mi ha sempre dimostrato fiducia, facciamolo diventare protagonista. Questo serve anche a responsabilizzarlo: in Italia si parla tantissimo, spesso anche esagerando, di come l’informazione sia controllata, asservita; ma poi, quando c’è la possibilità di partecipare a un meccanismo di autonomia, tutti si tirano indietro.

Credi che il crowdfunding possa essere praticato anche da spettacoli meno politici del tuo, e quindi senza una componente di militanza?

Io credo si sì. Anzi, mi auguro che in Italia si riscopra presto la “militanza del bello”, che è stata ciò che nei secoli scorsi ha reso grande questo Paese nel campo della cultura, dell’arte e anche del teatro. Una militanza così sarebbe proprio utile, e tra l’altro politicamente trasversale. È vero che ora come ora il crowdfunding è un metodo di finanziamento che viene associato soprattutto alle startup, il feticcio di questi ultimi anni. Ma sono convinto che sia proponibile anche per il teatro, e per spettacoli, per così dire, “più teatrali” dei miei. Non credo che solo il teatro civile abbia questo onore e onere, una partecipazione al Bello troverebbe adepti anche in questo Paese. Del resto ci sono esempi di spettacoli partiti con previsioni di pubblico bassissime che si sono rivelati grandi sorprese, il che dimostra che chi tiene in mano i fili della produzione teatrale nazionale spesso si è dimostrato strabico, o perlomeno miope. La nascita di spettacoli indipendenti potrebbe anche far rinascere una critica più popolare, che non sia il risultato della masturbazione di un circolino di quattro o cinque “monopolisti alla critica” che la sottraggono agli altri.

La cifra che ti sei posto come obiettivo per il crowdfunding non è ancora stata raggiunta. Lo spettacolo andrà in scena comunque?

Andrà in scena comunque. Tieni conto che abbiamo avuto un’antipatica sorpresa, e c’è un’indagine in corso : la raccolta fondi era stata sospesa perché si era presentato un coproduttore che poi si è rivelato fasullo. Ma sono assolutamente convinto che riusciremo a raggiungere la cifra in tempi brevissimi.

Si è trattato di un’operazione di boicottaggio, di una truffa o di cos’altro? Non lo so. Sicuramente la persona in questione aveva precedenti penali anche per truffa, e amicizie vicine ad ambienti ndranghetisti. Se è stata una coincidenza, è stata mitologica, fantascientifica. Se non lo è stata, se ne occuperanno le forze dell’ordine.

giulio20050033 In questi giorni Sky ha trasmesso le prime puntate di 1992, una serie televisiva in cui Marcello Dell’Utri è uno dei personaggi. Le hai viste?

Sì. Noi però con questo spettacolo abbiamo voluto fare una cosa molto diversa. Non abbiamo voluto fare una ricostruzione storica, perché volevamo evitare di fare a Marcello Dell’Utri il piacere di essere considerato già Storia. Io vorrei che fosse considerato presente, un pericolo contemporaneo e tuttora inquinante. Ritengo che i dellutrismi siano vivi e vegeti. Nella stessa città di Milano l’eventualità di un percorso teatrale sulla disumanità di Dell’Utri è stata accolta in alcuni ambienti culturali con un po’ di spavento. Quindi non stiamo parlando di un personaggio che andando in galera è stato del tutto archiviato. Più che parlare di chi, cosa e quando (del resto gli atti giudiziari sono già un compendio perfetto per chi vuole istruirsi su questo), a noi interessa descrivere dal punto di vista culturale il palermitano arrampicatore sociale che, grazie all’aiuto del brianzolo egocentrico, riesce a diventare padrone di alcuni gangli vitali di questo Paese. Mi spaventa che la cultura, che l’approccio alla vita e all’etica di Dell’Utri sia preso ad esempio. E mi spaventa il fatto che le uniche persone cui abbiamo concesso di fare battute infime su vittime di mafia siano state prima Andreotti e poi, non so perché, Dell’Utri.

Come è organizzato lo spettacolo?

In diversi quadri in cui Dell’Utri parla in prima persona, tranne un paio di scene che sono dedicate alla presentazione di Vittorio, cioè Mangano, e di Silvio, cioè Berlusconi. Lo spettacolo è molto più vicino alla formula della giullarata rispetto a L’Innocenza di Giulio, lo trovo più vicino a miei inizi. C’è una sorta di gramelot, anche se molto moderno. E abbiamo voluto che ci fosse dietro un bel digrignar di denti, una risata che spesso rimane soffocata dalla tragicità, mentre qui abbiamo voluto tenere lo spettacolo più votato al sorriso.

La formula dello spettacolo prevede anche rappresentazioni a richiesta…

Sì. Ho la fortuna di avere un mio circuito molto poco teatrale, che di solito nasce dalla riunione di tre o quattro persone che nel loro paese si dicono: “Perché non invitiamo Cavalli e non proviamo a riaprire il dibattito su questo argomento?”. È stato così per tutti i miei spettacoli, e probabilmente lo sarà anche per questo. Il che da un lato è rischiosissimo, perché si può finire a predicare ai convertiti, a godere tutti insieme di come siamo bravi a denunciare e a sapere. È un rischio da cui cerco di ripararmi, perché mi fa paura diventare autistico dal punto di vista teatrale. D’altra parte, però, è vero che questo mi consente una libertà di manovra che altri non avrebbero. È inutile nascondersi che, quando in questo Paese si parla di teatri, anche di teatri stabili, le paturnie dell’assessore di turno diventano sempre di importanza vitale, come se fossero le più ficcanti osservazioni culturali del momento.

C’è un pubblico minimo per una tua rappresentazione?

No, la nostra idea è sempre stata quella di andare ovunque ci chiamino. Fortunatamente non abbiamo mai avuto problemi di pubblico. Tieni conto però, e ne vado molto fiero, che mi esibisco allo stesso prezzo con cui mi esibivo dieci anni fa. Non amo la nomea di “teatro civile”, ma per chi come me opera in modo che il teatro non sia solo un prodotto culturale, ma anche una concezione morale, lo spettacolo nel minuscolo oratorio del piccolo paese ha la stessa importanza di quello che ti fa recensire sui quotidiani nazionali.

(per contribuire alla produzione dello spettacolo basta andare qui)

Omicidi, mafia e cocaina: a Milano c’è un maxi processo

Emanuele Tatone
Emanuele Tatone

Gli occhiali spessi, il baffo imbiancato, il fisico esile, lo sguardo acceso. Si alza, poi si risiede. Davanti sul tavolo carte, migliaia di carte, altre stanno sul carrello accanto. Marcello Musso, piemontese e come dice lui “contadino nell’animo”, il pubblico ministero lo fa da una vita. In Sicilia rischiò indagando Cosa nostra. A Milano si portò metodi, mentalità, sapienza investigativa. Tacche sulla toga ne ha molte: dal terrorismo islamico ai corleonesi che volevano prendersi la Madonnina fino ai banditi che hanno conquistato le periferie. Al quarto piano della procura, blindato nel suo studio, tra migliaia di intercettazioni e troppo sigarette, scrisse e fece condannare Toto Riina. Riscrisse omicidi clamorosi, dando volti e nomi ai mandanti. E ora, che il suo posto all’antimafia milanese è stato preso da altri, continua a indagare con la voracità di sempre. Il suo pallino è la droga che invade Milano.

Dal 2009 a oggi Musso ha messo assieme quattro poderose inchieste. Nome: Pavone. Uno, due, tre, quattro. Come i capitoli di una saga o di un libro. Romanzo criminale. Centinaia di indagati, imputati e condannati. Eccolo allora lì al banco dell’accusa, piccolo piccolo nell’aula bunker di San Vittore. Bunker uno, pareti verdi chiaro, gradinate per i parenti, ai lati i gabbioni che in passato hanno ospitato mafiosi e terroristi. Oggi quei gabbioni sono tornati a riempirsi, mentre ai banchi siedono decine di avvocati. L’ultimo grande maxi processo milanese si presenta così. Merito di questo magistrato per bene. Suo il merito di aver portato alla sbarra buona parte della nuova mala milanese. Non tutta, ci mancherebbe. Ma certamente quella che conta, quella che uccide e traffica in grande stile, quella che occupa la città e le sue periferie, le minaccia e le assedia. Quella, infine, che si tiene in tasca i rapporti che contano con boss di prima grandezza. Come Biagio Crisafulli, detto Dentino, siciliano di nascita, re nero di Quarto Oggiaro, regno ventennale il suo, fino all’arresto definitivo. Trafficava e comandava Dentino. Tanto influente da accomodarsi ai tavoli riservati della Mafia spa in Lombardia. Tra gli amici, il clan Papalia e le batterie armate del boss Coco Trovato.

Poco più in là nel gabbione, rispetto a Dentino, c’è Alex Crisafulli, fratello minore del boss. Il terzo, Franco, cadde ucciso ai tavolini del bar Quinto in via Pascarella a Quarto Oggiaro. Era il 2009. Alex sta nella gabbia, ma lui, dice, questa vita non vuole più farla. Crisafulli vuole pentirsi e collaborare. L’intento lo svela nell’agosto 2014 davanti al pm che lo interroga. “Da sei anni a questa parte io con le istituzioni mi sento alleato (…) Le ho detto che mi sono arreso” e “cazzo, sono venuto qua come collaboratore io (…) perché la galera non è più il mio posto. Non posso stare ancora vent’anni in galera”. Parole in pausa. Nessuno, alla procura di Milano, ha chiesto di sentirlo. Alex tornerà a parlare oggi all’aula bunker. Come lo farà, dipenderà da cosa deciderà il giudice Giuseppe Gennari sulla richiesta del pm di cambiare il capo d’imputazione aggiungendo l’articolo 7, ovvero l’aggravante del metodo mafioso.

I fratelli Crisafulli finiscono nella rete di Musso dopo ore di intercettazioni nella cella comune al carcere di Opera. Emerge, ragiona l’accusa, la loro regia nella gestione di tutta la droga che passa per Quarto Oggiaro. Oggi come in passato comanda Dentino. E oggi, si legge nelle carte del processo, lo fa grazie al lavoro del clan Tatone. Clan di famiglia, salito a Milano negli anni Cinquanta, con loro la madre, Rosa Femiano che presto si guadagna il nomignolo di nonna eroina. Sul banco degli imputati c’è anche Nicola Tatone, fratello sopravvissuto alla mattanza. Era l’inverno del 2013 quando per le strade di Quarto Oggiaro Antonino Benfante sterminò parte della famiglia Tatone. Caddero i fratelli Emanuele e Pasquale. Nicola sopravvisse, perché in carcere. Sopravvisse anche Mario, il più vecchio. Libero all’epoca, libero oggi ma imputato nel processo istruito da Musso. Benfante, detto Nino Palermo, uccise per la droga. Per guadagnarsi dello spazio sul marciapiede o forse per qualcosa di più grande. Ipotesi al vaglio. Altra storia. Si vedrà.

Restiamo in aula. Perché qui la storia c’è già. La scrive Musso, la interpretano personaggi come Diego Tripepi, trafficante di medio livello, calabrese di Seminara. Come Crisafulli anche lui ad agosto decide di collaborare. Alle domande di Musso risponde con decine di nomi. Ne fa tanti e fa anche quelli del clan Muscatello, ‘ndrangheta di spessore residente a Mariano Comense, locale storico, influente perché detentore del “Crimine”, la struttura di governo dei clan lombardi. Tripepi, però, in aula ci ripensa e dice: “In merito alle dichiarazioni rilasciate nel mese di agosto in presenza del Pubblico Ministero dottor Musso,vorrei dire che le persone da me citate sono state da me ingiustamente infangate, ho dichiarato il falso solo perché ero certo di ottenere almeno un mio ricovero in un centro clinico carcerario”. Clamoroso. Una cosa mai vista. Tripepi aggiunge: “Quindi chiunque è citato da me in tale verbale ha il diritto a farmi querela contro la mia persona per diffamazione”. Tra le persone citate c’è Giuseppe Muscatello, boss e figlio del vecchio padrino Salvatore, coinvolto nell’indagine Infinito, scarcerato per malattia e riarrestato nel novembre 2014 dal Ros di Milano.

Omicidi e pentiti. Dopo Crisafulli e Tripepi, sempre davanti a Musso decide di collaborare Luciano Nocera, trafficante e non solo, mafioso con dote della Santa. Nocera nelle ultime settimane è stato interrogato da ben quattro pm della Dda di Milano coordinata dalla dottoressa Ilda Boccassini. Tanti capitoli, dunque. Dal broker della coca Orazio Desiderato, agli spacciatori che studiano da boss e infiltrano la politica locale, al trafficante che invece di finire in galera finirà sotto due metri di terra, scannato dai boss. C’è di tutto nel maxi-processo alla nuova male. Milano alla rovescia, dunque. Non città vetrina in vista di Expo, ma terreno di conquista. Terreno dove la droga resta il volano degli affari sporchi. E dopo la droga, il business si fa più complesso,perché il confine tra legale e illegale si assottiglia. Il pm prosegue, indaga, scopre, scrive, collega. Terra di sopra e terra di sotto. A Milano come a Roma.

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A Baghdad la prima “libreria” gestita da una donna.

Ruqaya-Fawziya-640x361Mentre in Iraq si piange ancora la biblioteca di Mosulsaccheggiata e incendiata dai militanti dell’Isis  e ci si trova a fare i conti sempre con gli stessi militanti che nelle scorse settimane hanno arrestato un libraio “infedele”, “colpevole” di vendere libri cristiani nella sua bancarella, nella capitale Baghdad, in Al-Mutanabbi Street, centro intellettuale della città nell’ottavo secolo e oggi via costellata da bancarelle-librerie, apre la prima gestita da una donna, la 22enne Ruqaya Fawziya.

Al-Mutanabbi Street, va ricordato, è anche tristemente famosa per l’attentato del 2007, che ha coinvolto 27 persone, rimaste uccise. In seguito, è partito il progetto “Al Mutanabbi Street Starts Here”, su iniziativa di un libraio californiano che, per mostrare la propria solidarietà ai librai e ai lettori di Baghdad, ha raccolto “pubblicazioni” di 260 artisti da tutto il mondo, dando vita a una mostra itinerante.

Ma torniamo alla nostra libraia. Come dichiarato dalla stessa ragazza, la sua famiglia e le persone a cui raccontava l’idea di vendere libri per strada, hanno iniziato a sostenerla solo una volta intrapreso il progetto; quanto ai passanti e ai clienti, invece (come racconta jl sito bookpatrol.net, da cui sono tratte le immagini), la libraia racconta: “Non ho affrontato molestie di alcun genere dalle persone che visitano Al-Mutanabi Street; ma, a volte, la gente mi guarda con sorpresa, forse perché non ha familiarità con una donna che vende libri. Ma ci sono anche molte persone che, al contrario, mi incoraggiano”.

La famosa strada di Baghdad ha portato fortuna a Ruqaya: durante la manifestazione “Sono un iracheno, leggo”, ha incontrato il suo attuale marito, che ha sposato con una dote di 500 libri donati immediatamente e 1000 da donare in caso di divorzio…

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Vergogna Pedemontana: ne parla anche Cantone

211150747-18f9f127-c7a0-4d1c-ab22-5e402ef0450aL’Autorità nazionale anticorruzione boccia la gara d’appalto per l’assegnazione dei lavori della tratta A della Pedemontana, del primo lotto della tangenziale di Varese e di quello di Como. La prima, lunga 15 chilometri, collega da Lomazzo e Cassano Magnago le autostrade A8 e A9 ed è stata inaugurata a gennaio dal governatore lombarde Roberto Maroni. Le altre due dovrebbero essere pronte, rispettivamente, ad aprile e a luglio, per un totale di circa otto chilometri. L’appalto è stato vinto nel 2007 dal gruppo RTI Impregilo per l’importo di 629 milioni 644mila 723,77 euro. Di cui 579 milioni 91mila 163 per lavori.

La relazione ispettiva dell’autorità presieduta da Raffaele Cantone, però, contesta che i costi sono saliti del 47 per cento dell’importo contrattuale. Falsando di fatto la gara ai danni degli altri concorrenti. L’aumento, pari a 296 milioni 108mila 351,26 euro, è stato dovuto a due variazioni e ha portato il costo complessivo a 925 milioni 773mila 75,02. Nel rapporto ispettivo – inviato fra gli altri all’ufficio vigilanza dei lavori, al capo della Struttura tecnica di missione del ministero delle Infrastrutture, alla Corte dei conti, al Cipe e alla Procura – si legge che «la fattispecie riscontrata, in virtù del principio di invarianza delle condizioni negoziali, si traduce in una oggettiva alterazione della parità di condizione dei concorrenti e viola il principio di certezza delle situazioni giuridiche sotteso alla immodificabilità della lex specialis; contrariamente il bando di gara perderebbe la sua forza cogente per i soggetti partecipanti, ai quali non è dato interpretare e precisare il senso e la portata di quei parametri di gara la cui immutabilità è posta a garanzia di tutti indistintamente i partecipanti».

Inoltre l’Autorità nazionale anticorruzione fa notare che «la fattispecie riscontrata viola il principio della immodificabilità dell’offerta, teso a garantire, da un lato, la par condicio fra i concorrenti, e dall’altro, l’affidabilità del contraente». La durata dell’appalto era prevista in 2.480 giorni decorrenti dalla data di aggiudicazione. Mentre nel rapporto ispettivo firmato da Cantone si dice che «l’opera è in ritardo e solo con i successivi atti aggiuntivi hanno riportato il tutto entro l’anno 2014», dato che il completamento dei lavori e la messa in esercizio delle opere autostradali in questione «era stata assicurata entro il tempo utile per Expo 2015».

Il documento dell’Autorità anticorruzione si conclude con un’accusa pesante. Rileva che la gestione del procedimento di esecuzione dell’appalto relativo alla realizzazione del primo lotto della tangenziale di Como, del primo lotto della tangenziale di Varese e della tratta della Pedemontana che collega le autostrade A8 e A9 «non appare in linea» con i principi della legge 162 del 2006. Perché «attraverso gli accordi ratificati in corso di esecuzione sono state formulate clausole che variano sostanzialmente sia l’offerta del partecipante sia il contratto principale di appalto con conseguente aumento dei costi di esecuzione e di slittamento nel tempo della conclusione dei lavori, e ciò a danno dell’interesse pubblico e della collettività». Una nuova tegola che arriva sul vertice di Pedemontana in scadenza. Al quale si aggiunge l’audit firmato dal presidente dell’organismo di vigilanza della società autostradale Rodolfo Mecarelli, che suona come un atto di accusa verso l’amministratore delegato di Pedemontana, Marzio Agnoloni, già finito nella bufera per una vicenda di assunzioni e consulenze.

Nel rapporto dell’organismo di vigilanza, che prende in considerazione il periodo dal febbraio 2014 al gennaio di quest’anno, è scritto che «l’intuitu personae è stato considerato come presupposto esclusivo per la scelta dei consulenti». Che «non è dato conoscere se è stato elaborato nel tempo un elenco dei consulenti di fiducia da cui scegliere, a rotazione, quelli in possesso delle professionalità occorrenti di volta in volta alla missione aziendale». Mentre «nei fogli autorizzativi, che attestano l’effettività della prestazione, mancano le causali che dovrebbero coincidere con gli oggetti delle fatture e, a volte, manca il gestore del contratto». Per non parlare del fatto che «gli importi delle prestazioni non sono definiti, ma aperti e fatturati a consuntivo, successivamente; le lettere di incarico fanno rinvio alle precedenti e in un solo caso è emersa una richiesta di più offerte».

Infine l’audit rimarca «la mancata tracciabilità predeterminata delle trasmissioni delle fatture da parte degli studi (a volte a mano, con la posta elettronica, con quella ordinaria)». Anche se dà atto che a ottobre 2015 è stata diffusa una nuova procedura che prevede la richiesta di tre preventivi. Fermo restando la possibilità di selezionare i consulenti solo sul rapporto fiduciario. Equitalia ha inoltre notificato nel 2013 a Agnoloni un atto di pignoramento perché gli contesta un debito nei confronti della società di cui è amministratore delegato di 602mila 880,40 euro.

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Impuniti e sfacciati

formigoni-lupi-ape10È stato immortalato quando, da presidente della Lombardia, morbidamente si abbronzava a bordo dello yacht dell’amico imprenditore, casualmente in affari con la Regione, ma oggi Roberto Formigoni è un uomo nuovo, anzi antico e con dedizione democristiana gestisce il mercato dei ministeri. Sentitelo mentre soppesa dicasteri e poltrone con la stessa oculatezza della brava massaia che alle prese con peperoni e melanzane bada a non farsi fregare: “Ci va restituito il ministero delle Infrastrutture oppure uno di pari peso politico oppure tre ministeri di grado inferiore: con Affari regionali, Pari opportunità e Università potremmo chiudere”.

Ovvio che se avanza un cavolfiore, anche senza portafoglio, se lo pappa lui. Questi Ncd sono davvero impagabili (nel senso letterale) per la tenacia con cui non mollano l’osso. L’ex ministro Lupi non ha ancora finito di traslocare dai Lavori Pubblici con i Rolex e gli abiti di sartoria gentilmente offerti da zio Frank Cavallo e subito mandano avanti il Celeste a battere cassa, manuale Cencelli alla mano. Per essi la reputazione non vale un sottosegretario e del resto non devono difenderla perché non l’hanno mai avuta.

Pensano che sia tutta roba loro e infatti ne pretendono la ‘restituzione’. Nell’andare all’incasso non hanno preferenze perché dalle regioni agli atenei sono all’oscuro di tutto purché gli vengano assicurata una segreteria, un capitolo di bilancio e un paio di auto blu. Parlano come mangiano: “Non ci accontenteremo delle briciole”, dice non a caso Quagliariello, che è l’intellettuale del gruppo.

(Antonio Padellaro, Da ‘Stoccata e Fuga’, il Fatto Quotidiano, 28 marzo 2015)

Il figlio di Provenzano si inventa cicerone della mafia per i turisti. Che schifo.

ALTRI02FLASHA_3306450F1_3026_20121204213214_HE10_20121205Un singolare tour turistico. Da mesi decine di turisti americani incontrano settimanalmente il figlio del capomafia Bernardo Provenzano, Angelo. I meeting avvengono durante la tappa palermitana di un viaggio organizzato da un tour operator di Boston. Nel corso degli incontri Angelo Provenzano, 39 anni, racconta ai turisti la sua vita e il rapporto col padre, Bernardo, celebre capo dei capi di Cosa Nostra.

Gli interventi sono preceduti da una breve introduzione sulla storia della mafia fatta da uno degli organizzatori. Dopo una prima fase «sperimentale» gli incontri sono diventati tappa fissa del tour: enorme l’interesse suscitato nei turisti dai racconti del primogenito del boss. Al termine dei meeting gli «spettatori» – generalmente professionisti e intellettuali che arrivano da ogni parte degli Stati Uniti – rivolgono a Provenzano una serie di domande sulla figura del padre, ma anche sulle difficoltà che nascono dal portare un cognome tanto «ingombrante». Gli incontri sono partiti a settembre scorso e nel periodo estivo, quello di maggiore flusso turistico, arriveranno a due a settimana.

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Il “diversamente” carcere di Nicola Cosentino

nicola-cosentino-638x425La perquisizione in cella è scattata a sorpresa nel fine settimana. E dopo il ritrovamento di materiale ritenuto sospetto, l’ex sottosegretario all’Economia Nicola Cosentino, detenuto da un anno perché in attesa di giudizio con l’accusa di essere stato il «referente politico nazionale del clan dei Casalesi», è stato trasferito rapidamente dal carcere napoletano di Secondigliano su indicazione dell’autorità giudiziaria. Ora è recluso in un istituto fuori dalla regione Campania.

La decisione è maturata nell’ambito di una delicata indagine del pool antimafia che vede al momento sotto inchiesta, con l’accusa di corruzione, un agente penitenziario fino a qualche giorno fa in servizio proprio a Secondigliano. Cosentino non è indagato, ma nel fine settimana, per ordine del pm Fabrizio Vanorio e del procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli, sono scattate alcune perquisizioni, una delle quali nella cella dove fino a ieri era rinchiuso l’ex sottosegretario.

Nel corso dell’accertamento è stato rinvenuto anche materiale che, ipotizzano gli inquirenti, il detenuto non poteva custodire. La difesa potrà eventualmente proporre ricorso al Riesame per ottenerne la restituzione. Il quadro dell’indagine è ancora fluido. Il sospetto della Procura è che, in questi oltre undici mesi di detenzione di Cosentino, la rete di conoscenze e relazioni intrecciata dall’ex parlamentare in tanti anni di attività sul territorio non sia rimasta con le mani in mano, ma anzi si sia mossa allo scopo di non abbandonare il leader ormai caduto in disgrazia.

Ed è questa pista che i magistrati intendono verificare. Il primo passo è stato rappresentato dalle perquisizioni, il cui esito ha suggerito il trasferimento dell’imputato in un carcere lontano dal territorio. Una nuova tegola, per “Nick ‘o mericano”, già alle prese con ben tre processi in corso nei quali vengono ipotizzati, a diverso titolo, profondi rapporti con l’organizzazione camorristica di Gomorra. Giudizi nei quali i difensori di Cosentino, gli avvocati Stefano Montone e Agostino De Caro, si stanno battendo per dimostrare l’infondatezza delle accuse contestate al loro assistito.

All’udienza di ieri, alla quale come già in passato l’ex sottosegretario aveva rinunciato a presenziare, gli avvocati hanno incalzato con un fuoco di fila di domande l’ex presidente del consorzio dei rifiuti Ce4, Giuseppe Valente, un manager che da alcuni mesi collabora con la giustizia. A molte domande della difesa, il pm Alessandro Milita si è opposto. Dopo alcuni scontri, il clima è tornato tranquillo. Ma c’è una nuova inchiesta, adesso, ad agitare le acque.

(clic)

#Lefti in edicola da oggi: cosa ci abbiamo messo dentro

20150328_Left_N112015-800x500Questa settimana si va in  piazza e si cerca di capire come può far bene Maurizio Landini, unico a tentare con la sua “colazione sociale” una reazione alle riforme del governo Renzi che ha smantellato lo statuto dei lavoratori e ora marcia alla volta della legge elettorale.

Emanuele Ferragina e Alessandro Arrigoni (autori de La maggioranza invisibile), spiegano su Left chi compone la maggioranza invisibile del nostro Paese, uomini e donne resi invisibili da una politica cieca e da un sindacato vecchio incapace di rappresentarli da  anni. Neet, precari, disoccupati, pensionati non abbienti, giovani donne. Reddito minimo, redistribuzione, welfare state universale e molto altro, leggerete le loro proposte per Landini.

Ma non solo, Felice Casson, candidato del centrosinistra, intervistato da Tiziana Barillà vi racconterà i suoi progetti per Venezia; Ilaria Giupponi vi spiegherà che la nuova legge sul divorzio non ha toccato il divorzio (!) ma semplicemente i tempi della separazione.  Ma a volte serve fuggire dall’Italia per scoprire per esempio che in Cina, nelle periferie di Pechino, artisti ed operai si incontrano e fanno arte insieme, come accade nel sobborgo di Hei Qiao; e in Paraguay dai rifiuti si costruiscono strumenti musicali per orchestre meravigliose come quella di Cateura e il suo maestro Favio Chavez.

Ma anche che Ayman Odeh è forse la novità più importante delle elezioni israeliane. Giovane avvocato arabo di sinistra ha ottenuto con la sua Lista araba unita un risultato eccezionale. Imperdibile in cultura l’intervista di Giacomo Zandonini a Femi Kuti, al grande musicista nigeriano che racconta del suo Paese e dell’eredità lasciatagli da suo padre il grande Fela Kuti, inventore dell’afrobeat.

Il numero di questa settimana chiude con un pezzo titolato “E davanti il mondo”. È lo splendido racconto che Giorgia Furlan vi propone per raccontarvi di uno strano webdoc. La storia di una storia, come dice l’autrice. La storia di un gruppo di ragazzi  convinti di fare davvero la cosa giusta. Buona lettura.