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Giulio Cavalli

L’antimafia fatta con il culo degli altri

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“Abbiamo costruito trincee, ma non abbiamo militari”. Renato Natale, sindaco di Casal di Principe, racconta così le difficoltà della buona amministrazione in terra di camorra. In quella che un tempo era solo terra di camorra e ora potrebbe diventare terra di riscatto. Ma le trincee, che sono la resistenza al potere criminale negli anni di dominio dei Casalesi e la scelta di Natale come nuovo sindaco, possono pagare il prezzo altissimo dell’assenza di militari. I militari sono i fondi e il personale. Natale, eletto sindaco lo scorso giugno, racconta al IlFattoQuotidiano.it i problemi e gli ostacoli per tornare alla normalità. Usa formule efficaci. “Occorrono norme per consentirci di ripartire. Mi sento senza braccia, privo di strumenti – spiega – e c’è un rischio che non possiamo correre come Italia: dare la possibilità a qualcuno di pensare che si stava meglio prima, quando c’erano gli altri”.

Gli altri sono i potentati politici, macchiatisi di connivenza, in un comune sciolto tre volte per infiltrazioni mafiose. Natale parla di Italia perché, fin da subito, ha voluto che anche il governo nazionale si facesse carico, non solo a parole, del riscatto di Casal di Principe. Nonostante gli annunci, gli incontri con esponenti del governo, la firma di un protocollo, le norme auspicate ancora latitano. Si è parlato più volte di un “piano Marshall” per avviare la stagione di ricostruzione sociale, economica e politica. Disponibilità tanta, ma risultati pochi. Sono due i problemi che Natale non riesce ad affrontare senza un contributo dal governo nazionale. Entrambi sono di assoluta priorità ed erano stati posti con la stessa forza anche all’atto diinsediamento.

Il rilancio senza personale

“Ho incontrato il sottosegretario Graziano Delrio – racconta Natale – e gli ho spiegato i nostri problemi. Pochi giorni fa ci ha fatto visita il vicepresidente della Camera Luigi Di Maioche si è impegnato a portare in Parlamento una mozione per Casal di Principe”. Ma cosa serve al comune casertano? “La pianta organica prevede 110 unità, il mio personale si ferma a 47. Ci sono soli 5 vigili urbani. Non c’è un ufficio tecnico adeguato, stesso dicasi  al sociale e, in queste condizioni, come affronto le emergenze della mia comunità?”. E si arriva al paradosso che, pur nei ritardi della tempistica, i 2,5 milioni per il completamento della rete idrica disposti dalla regione pongano un problema di gestione. “Bisogna indire gare e per farlo mi serve il personale adeguato, ma l’ufficio gare è vuoto, stiamo trovando una soluzione. Io ho chiesto al governo nazionale norme che ci consentano di assumere il personale necessario”. I blocchi nelle assunzioni, il patto di stabilità, ma anche un bilancio in dissesto rendono urgente norme per andare in deroga. Il rischio è che la macchina comunale si fermi. La situazione finanziaria ha trovato una risposta con un mutuo di 11 milioni di euro accordato dal ministero dell’Interno.

Gli abusivi senza risposta
“Abbiamo bisogno di una norma che ci aiuti al recupero urbano, al ritorno alla legalità in interi quartieri”. Il riferimento di Renato Natale è alle abitazioni abusive, 1300, che hanno ricevuto ordinanza di abbattimento. Anche Forza Italia, sommersa da critiche, da anni spinge per riaprire il condono del 2003 in regione Campania, ma Natale spiega le sue ragioni: “In una situazione di illegalità, i cittadini, in passato, hanno costruito le loro case, è impensabile abbattere quelle nate per la necessità abitativa”. Impensabile sia per ragioni sociali, ma anche economiche. “Dovremmo abbattere noi come comune anticipando le spese e poi dovremmo chiederle al cittadino. Non abbiamo soldi in cassa e a questo si aggiunge il problema del costo dei materiali di risulta da smaltire”. Il comune pensa di acquisire al patrimonio pubblico le abitazioni abusive, ma anche in questo caso l’assenza di personale rallenta le procedure e l’avvio successivo delle pratiche di vendita. Il paradosso, secondo Natale, è che resta impossibile procedere all’abbattimento, ma contemporaneamente quei cittadini non pagano i tributi perché abusivi.

“Io non posso mettere i contatori dell’acqua, i cittadini non possono usare quella dei pozzi perché c’è un’ordinanza commissariale che lo vieta e ci perde ancora una volta l’intera comunità. Proprio la gestione dell’acqua rappresenta il 40% del disavanzo comunale. La regione fornisce l’acqua, ma noi non riscuotiamo i tributi e la rete idrica è fatiscente, il 30% di quella che arriva viene persa”. In questo caso Natale invoca strumenti che devono arrivare dal governo nazionale e presto. “Non sentiamo nella nostra azione la pressione del crimine organizzato, ma quella di una burocrazia imponente. Si rischia così di vanificare il cambiamento”. Morire di burocrazia dopo aver azzoppato il potere criminale. Ipotesi sciagurata che Casal di Principe e l’Italia devono scongiurare.

(fonte)

Boss mafiosi e patria potestà

Un dibattito annoso e, ora, una proposta di legge:

Un boss mafioso, un trafficante di armi o di droga, un terrorista o un mercante di uomini, non può essere un buon genitore. Gli va tolta la patria potestà e ove necessario i figli vanno allontanati dal contesto familiare. E’ questo, in buona sostanza, l’obiettivo dell’emendamento al decreto legge contro il terrorismo che Ernesto Carbone presenterà in aula la prossima settimana. Un tema che è un vecchio pallino del membro della segreteria Pd, il quale già lo scorso anno aveva presentato un disegno di legge specifico. L’emendamento inserisce nel Codice penale il 416-quater, nel quale si afferma che “La condanna per il delitto previsto dall’articolo 416-bis del codice penale (ossia l’associazione mafiosa) comporta la decadenza dalla potestà dei genitori”. Attualmente una legge specifica non esiste, le condanne per mafia non sono d’impedimento allo svolgimento del ruolo genitoriale. Tuttavia, in alcuni casi specifici, i Tribunali per i Minori hanno tentato di intervenire, togliendo i figli minori alle famiglie radicalmente coinvolte nella criminalità organizzata in maniera parziale oppure per alcuni periodi di tempo. Una misura che colpisce un’organizzazione criminale che mette la famiglia al centro di tutto.

In passato, alcuni giudici calabresi, su richiesta dei pm, hanno adottato provvedimenti limitativi della potestà genitoriale, nominando ad esempio in presenza di minorenni un curatore speciale, ritenendo indispensabile affidare il minore al servizio sociale per inserirlo subito in una comunità fuori dalla territorio della regione di origine, al fine di affidarlo ad operatori professionalmente qualificati che fossero in grado di fornirgli una seria alternativa sul piano culturale e sociale.

Altri Tribunali ancora si stanno muovendo facendo leva sull’allontanamento “volontario”. In altri termini si punta ad avere il consenso di almeno dei genitori (spesso detenuti) e dello stesso minore per la collocazione in comunità e lontano dai contesti sociali a rischio. Alcune sentenze dei giudici, che si occupano di minori che hanno già commesso i primi reati, si giustificano la decadenza della patria potestà, ritenendola l’unica soluzione per sottrarre il minore “a un destino ineluttabile e nel contempo consentirgli di sperimentare contesti culturali e di vita alternativi a quello deteriore di provenienza”, nella speranza che il minore “possa affrancarsi dai modelli parentali sinora assimilati”.
Un argomento delicato, soprattutto in alcune aree del Paese. Non è un caso che durante le faide degli anni ’80 in diversi paesi della Piana di Gioia Tauro i bambini venissero allontanati dalle famiglie e affidati alle comunità per evitare che rimanessero vittime di vendette e rappresaglie. E più di recente, negli anni della faida di San Luca, le famiglie coinvolte nella guerra di ‘ndrangheta evitavano persino di mandare i figli a scuola. La convinzione di diversi operatori del settore è che in alcuni contesti familiari non si crescono figli, ma veri e propri soldati dei clan, addestrati alla vendetta o addirittura già giovanissimi affiliati alle cosche perché così educati da genitori e figli maggiori. Le cronache più recenti raccontano come, ad esempio a Palmi (Reggio Calabria), dopo l’arresto dei boss Gallico, a riscuotere le tangenti fosse un sedicenne figlio del capoclan. Interventi mancati e interventi che invece stanno sortendo l’effetto sperato. Per salvare i figlia della pentita Giuseppina Pesce, la magistratura ha tolto al padre (attualmente detenuto) la possibilità di esercitare il proprio ruolo. Stessa cosa anche per i figli della collaboratrice Maria Concetta Cacciola (morta suicida) allontanati dalla famiglia d’origine e affidati ai servizi sociali.

Giuseppe Lombardo, pm della Dda di Reggio Calabria, già sette anni fa aveva chiesto che fosse tolta la patria potestà a boss del calibro di Giuseppe De Stefano e Pasquale Condello. E ancora oggi si dice convinto che si tratti di “un passaggio fondamentale”. Per il magistrato “lo Stato ha il dovere di intervenire a tutela dei minori a cui non viene data la possibilità di un futuro diverso da quello dei padri”.

Secondo Carbone “a prima vista l’intervento potrebbe apparire forte, ma in realtà, la proposta vuole recepire, e portare a compimento, profili sanzionatori in parte già attivati dalla magistratura”. Mafia ma non solo. La proposta varrebbe, come pena accessoria anche per i reati di strage, omicidio, riduzione in schiavitù o traffico di esseri umani, nonché traffico di armi e traffico di sostanze stupefacenti e psicotrope.

(link)

La mafia dell’antimafia e Naomi Klein: #LEFT di questa settimana

Left_Cover_N10_21Mar2015«LA MIA RICETTA
ANTI CRISI»

Parla Naomi Klein: «Prendere sul serio il climate change per nuove opportunità».
di Nicola Grigion

CHE FINE HA FATTO OCCUPY?
Zuccotti park e il movimento del 99%.
di Claudia Vago

ALLA FIERA DELL’IPOCRISIA
Benvenuti a Expo 2015 tra multinazionali pro biologico e opere incompiute.
di Tiziana Barillà e Raffaele Lupoli

il voto di maggio
CHE CASINO LE REGIONALI
La renzizzazione spacca tutto: centrodestra e centrosinistra.
di Luca Sappino

LA LEGGE DEL PIÙ FORTE
Non solo Italicum. Si litiga anche su Toscanellum e Umbricellum.
di Donatella Coccoli

antimafia
LA VERSIONE DI MANIACI
L’anima di Telejato tra denunce e minacce.
di Giulio Cavalli

NOMI E COGNOMI CONTRO I CLAN
Viaggio nell’Italia dell’altra antimafia.
di Ilaria Giupponi

LO STATO DENUNCI
Intervista a Claudio Fava: «Basta deleghe».
di Ilaria Giupponi

grecia
MA QUANDO PAGANO I TEDESCHI?
Dal debito di guerra della Germania nazista alla controstoria del default.
di Andrea Ventura e Davide Vittori

migranti
L’ALTRA FACCIA DEL NORD EUROPA
Le politiche ultrarestrittive in Olanda e Regno Unito. I rifugiati protestano.
di Massimiliano Sfregola e Giacomo Zandonini

conflitti
COSÌ SI UCCIDE LA SIRIA
Bilancio impietoso di quattro anni di guerra.
di Umberto De Giovannangeli

televisione
DOTTRINA A RETI UNIFICATE
Il rapporto di Critica liberale sulla pervasività dei cattolici in tv.
di Simona Maggiorelli

musica
MASCALZONE LABRONICO
Bobo Rondelli e il suo nuovo disco.
di Tiziana Barillà

scienza
LA GUERRA DEI NEURONI
Il progetto europeo di ricerca sul cervello va rivisto.
di Pietro Greco

editoria
LO SPORT È CULTURA
Libri e campioni per l’impegno civile.
di Simone Schiavetti

La cultura dentro le dimissioni dal Parlamento

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Massimo Bray

Massimo Bray si è dimesso da parlamentare. Si è dimesso per scelta propria, lo scrive lui stesso, perché si ritiene più utile in un altro ruolo professionale e perché, scrive, “rispettare lo Stato e le Istituzioni significa anche avere il coraggio di fare scelte difficili, sofferte, avendo sempre come obiettivo il bene della comunità. Ecco perché vivo con sofferenza questa scelta, ma sono nello stesso tempo convinto che siano molti i luoghi in cui si possa dare un contributo alla vita democratica del nostro Paese”.

In un Repubblica parlamentare (almeno sulla carta) le dimissioni di un uomo di cultura e di impegno come Massimo Bray dal Parlamento poiché si reputa “politicamente” più conforme in un altro ruolo dovrebbero aprire un dibattito. Ma un dibattito mica da talk show pomeridiano, piuttosto un esame di coscienza su un Parlamento che non solo viene svuotato delle sue funzioni dall’abuso dei decreti o di voti di fiducia ma anche un Parlamento che fallisce il proprio obiettivo sociale e culturale: i nostri nonni avevano immaginato quell’assemblea come la sintesi di rappresentanza del popolo (nei suoi spigoli migliori) e invece succede che Bray (ma non solo lui) si senta non rappresentativo. Anzi, per assurdo, il fatto che non si senta rappresentativo lo avvicina moltissimo al sentire comune di questo tempo quindi, abbandona un Parlamento che è già stato abbandonato da una maggioranza invisibile, diventandone involontariamente (forse) perfetto interprete.

L’abitabilità del Parlamento, decaduto in votificio senza voce in cui si riesce a farsi notare alzando i toni, spettacolarizzando gli interventi o piallando i contenuti credo che sia il termometro dello stato di cultura della democrazia nel nostro Paese. E c’è il gelo.

“Dignità”: una parola (e un libro) per difenderla

Se posso, ve lo consiglio:

indexCome davanti ad una famosa pizzeria napoletana, c’è sempre ressa alla porta della parola dignità. Si tratti di magnificare la gustosità del “fritto misto” o la prelibatezza della “bottarga” o l’eleganza dell'”abito ladino” o il decoro del “mercato rionale” di Messina o la rispettabilità di piante e di animali, la parola chiamata a illustrare tutto questo bene è sempre la stessa: dignità. È polvere magica, per la cronaca cittadina, quella che emana dal suono e dal segno di questa parola, buona a trascinare nel prestigio e nell’eccellenza qualunque oggetto di pensiero si voglia abbinare ad essa. E in questa manipolazione la parola rischia di smarrire il suo proprio, più autentico significato; rischia di assumere una funzione tutta ed esclusivamente cosmetica, tipograficamente non dissimile da quella del carattere in grassetto o del punto esclamativo. Di fronte ad un tale scempio semantico e culturale non resta che mettersi a ripercorrere la storia di questa parola, la storia di un lungo cammino per vie, viottoli e sentieri sulle terre della filosofia, della politica, della letteratura, della religione, del diritto. Dignità ieri, dignità oggi. Ieri, a cingere di alloro gli eroi e i sapienti delle polis greche. Oggi, dote inviolabile, ma anche mandato etico imperativo, assegnati ad ogni essere umano…

Il libro lo trovate qui. (Il cammino della dignità. Peripezie, fascino, manipolazioni di una parola)

Oltre al figlio di Lupi

Oggi vale la pena leggere Luca Sofri:

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Magari mi invento dei pezzi, ma ripeto, mi pare una storia emozionante ma fuorviante. Era più furbo evitare, e fargli trovare lavoro altrove che non dal primo collegabile alla tua famiglia, certo. Ma il problema è un altro, se spostiamo le telecamere dal figlio e torniamo sull’edificio del ministero delle Infrastrutture in via Nomentana: è che quell’amico di famiglia abbia ricevuto in questi anni decine di incarichi preziosi e importantissimi dal ministero. E che il ministro Lupi abbia avallato decisioni che hanno reso al suo amico milioni, e che – se fossero dimostrate le accuse penali – abbia omesso il minimo controllo su un sistema di corruzione di cui erano responsabili, nel suo ministero, il suo più importante dirigente e il suo amico costruttore.
C’è una sola cosa che Lupi può dire per non dimettersi: «Sono convinto che queste accuse contro Incalza e Perotti siano completamente false, perché la mia vicinanza professionale e personale ad ambedue mi fa escludere completamente che possano essere vere; e se lo fossero lo saprei e dovrei dimettermi; e se non lo sapessi, sarei colpevole di inettitudine nel mio ruolo di ministro e dovrei dimettermi». Se Lupi è disposto a dire questa cosa guardando tutti negli occhi e ad affrontarne l’eventuale smentita, la dica.
Se no, ci si dimette.

Il resto è qui.

Ha telefonato ad Emiliano

123112714-abd5d4a1-0790-420b-b894-1ef067225529Matteo Renzi ha telefonato a Michele Emiliano (candidato Presidente della Regione Puglia) per chiedergli di sostituire Lupi ormai sempre meno credibile dopo l’uscita delle intercettazioni dell’inchiesta della Procura di Firenze. Renzi ha telefonato ad Emiliano e Emliano l’ha sputtanato. L’ha detto a tutti. Rifiutando. Intanto Delrio è un disco rotto che cambia idea ogni ad ogni mestruazione del premier: ieri diceva che era troppo presto per tirare conclusioni, oggi dice che bisogna riflettere e domani dirà che si fa tardi. Paninari. Neopaninari al governo. Certo, con una narrazione (all’inizio) golosissima.

La narrazione dell’ottimismo e intanto le solite cricche.

Il ministro delle Infrastrutture visita il cantiere MoseHa un bel dire il Sottosegretario Delrio che “è troppo presto per esprimere giudizi sulle intercettazioni” che stanno nell’ordinanza di arresto dell’onnipresente Ercole Incalza, colui che ha attraversato in questi ultimi anni tutte le “Grandi Opere” e tutti i governi e i loro contrari. Ha un gran fegato anche Matteo Renzi che, dopo averci abbindolato con la narrazione ottimistica di un Expo che sarà pronto in tempo e che ha tenuto lontano il malaffare (ha detto proprio così, andate a riascoltarvi la conferenza stampa) oggi riserva all’indagine (e agli arresti) qualche battuta scanzonata. E giuro che se fosse stato Berlusconi ad avere fortemente voluto come Ministro un ciellino dichiarato come Maurizio Lupi e se fosse stato Berlusconi a sorridere alle telecamere dicendo “basta scoop, per oggi” avremmo avuto lenzuolate di sdegno editoriale di tutti i pensatori politici prima così antiberlusconiani e oggi improvvisamente illuminati sulla strada del renzismo.

Eppure, caro Renzi e caro Delrio, gli arresti di oggi sono un fatto politico perché è un fatto politico che un dirigente di così lungo corso (e ombre) fosse ancora saldo in quel posto di responsabilità nonostante il gran parlare di rottamazione, è un fatto politico che il Ministro Lupi comunque non sia per natura compatibile con il “nuovismo” raccontato dal renzismo ed è un fatto fortissimamente politico che la reazione d’istinto di questo Governo sia la stessa, identica, triste e desolante di quegli altri chiedendo subito di avere pazienza e delegando alla magistratura i giudizi politici (sempre pronti poi a sputtanarla nel caso di una sentenza sfavorevole).

La vera mancanza di cambiamento “di verso” sta proprio tutta qui, nella stanca ripetizione degli stessi vizi comportamentali e nella stessa lurida codardia sotto le mentite spoglie del garantismo: questo è il fallimento, oggi. Perché possiamo certamente discutere sulle diverse visioni delle riforme (e questo Paese ha bisogno di forze realmente riformiste), possiamo certificare che questo Governo è dalla parte di alcuni e insindacabilmente non protegge i diritti di altri (anche questo ci è costato, sia chiaro, con le macerie di una sinistra piallata) ma il perseverare di certi atteggiamenti che si ostinano a puntare sulla “cricca” come modello di comando è la ferita più profonda; Renzi lo sa, sicuro, tra le sue molteplici “antenne” del proprio gradimento elettorale. E leggendo anche semplicemente il “modo” in cui si parlano al telefono le punte più alte della classe dirigente di questo Paese (quelle che gestiscono milioni di euro come se fosse propri e non pubblici) non si può non pensare a Renzi che critica i pessimisti su Expo così tanto simile al Formigoni che tranquillizzava tutti su Don Verzè e il San Raffaele: non c’è differenza, entrambi a sostenere l’insostenibile semplicemente dall’alto della propria posizione (precaria, eh).

E allora davvero sarebbe “cambiato verso” se oggi un Sottosegretario qualsiasi al posto di andare in televisione a tranquillizzare cittadini incazzati più che preoccupati avesse alzato la mano e avesse detto “oh no, sta capitando anche a noi e allora per dimostare le differenze reagiamo con durezza, esagerando piuttosto nell’eccesso di difesa di questo Governo piuttosto che degli indagati.

E invece niente. Niente. Ma questa costerà, c’è da crederci.

Auguri Letizia (Battaglia)

Di Paola Mentuccia. Un carisma non comune, una incredibile capacità di cogliere i dettagli e una forza innata. Letizia Battaglia ha fatto del suo nome la bandiera di una vita – di donna e di artista – dedicata alla lotta per la libertà e contro la mafia. E lo ha fatto ritraendo luoghi e vittime di omicidi ma anche espressioni della quotidianità della Sicilia degli anni Ottanta e Novanta, immagini del tessuto sociale che ha convissuto con la morsa mafiosa, sguardi di donne e bambine.

La più grande fotografa contemporanea in Italia, che ha iniziato la sua attività a poco meno di quarant’anni come reporter del quotidiano L’Ora, ne ha compiuti ottanta il 5 marzo scorso e ha invitato i fotografi palermitani a donare una foto della loro città, per raccontarla insieme ancora una volta. Foto che, esposte nella galleria del Teatro Garibaldi fino al 20 marzo, contribuiranno poi a costituire un archivio per l’apertura di un Centro Internazionale di Fotografia a Palermo, cui Letizia Battaglia dedica da tempo la sua passione e le sue energie. L’artista, infatti, non ha smesso di dedicarsi alla sua attività: si pente di averlo fatto per alcuni anni perché “ogni lassata è pirduta” e ha ripreso a scattare, a costruire nuovi orizzonti di espressione.

La fotografia, per lei, è “documento”, “interpretazione” e “tanto altro ancora”. “L’ho vissuta come acqua dentro la quale mi sono immersa, mi sono lavata e purificata – scrive nella prefazione del suo ultimo libro edito da Castelvecchi – L’ho vissuta come salvezza e verità”. “Diario” è un racconto di sé, del suo spirito, di una costante tensione verso la libertà che è stata la spinta, lo stimolo e la necessità della fotografa palermitana. Durante la presentazione a Roma, nell’ambito di “Libri Come”, la festa del libro e della lettura all’Auditorium Parco della Musica, Letizia Battaglia ripesca dalla memoria momenti memorabili della sua vita, ripercorrendo la strada che l’ha portata alla fotografia: “Ho cominciato a scattare sbagliando – ha detto – poi ho continuato tutta la vita a sbagliare perché non crediate che essere arrivata a pubblicare dei libri significhi avere tutti i negativi belli e sistemati: i miei erano dieci sbagliati e poi uno finalmente, forse, buono”. Per qualche anno, poi, cadde tra le braccia di Diane Arbus, nella cruda verità dei ritratti della fotografa statunitense, e pian piano scattare diventò il suo modo “per mostrare indignazione”. Tra le sue foto, quella a un giovane Sergio Mattarella che tiene tra le braccia il fratello appena ucciso.

Un presidente che ha questa storia, Letizia Battaglia ne è sicura, “sarà sicuramente rivoluzionario”. Ha vinto premi in tutto il mondo ma non è andata via da Palermo. “Avere amato l’arte, avere visitato musei, aver sfogliato libri, aver voluto bene a quella città e a quella gente ha fatto sì che una foto sia uscita in un modo anziché in un altro – ha detto – Se tu ami e se perdoni tutto quello che ti fanno, se rimani lì, vivi quel dolore e esprimi tutto questo in quello che fai. L’abilità da sola non emoziona”. Pochi giorni fa ha scritto una lettera al Presidente della Repubblica per chiedere che il Csm riveda la decisione di non ammettere il magistrato Nino Di Matteo nella Dna. La sua lotta non è finita.

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