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Giulio Cavalli

Arrestati i figli di Sandokan Schiavone. I Casalesi languono.

schiavone_sandokanEseguite dai carabinieri ordinanze di custodia cautelare emesse dal Tribunale di Napoli su richiesta della Dda nei confronti di oltre 40 indagati, accusati di essere affiliati alla fazione Schiavone del clan dei Casalesi. Tra gli arrestati, Carmine e Nicola Schiavone, figli di  Francesco, soprannominato “Sandokan”.  I tre sono già in carcere. Associazione per delinquere di stampo mafioso, estorsioni, detenzioni di armi e ricettazione,  tutti reati aggravati dal metodo mafioso, sono le accuse contestate a vario titolo. Gli arresti nelle province di Caserta, Napoli, Avellino, Benevento, Terni, L’Aquila, Lecce, Cosenza, Cuneo, Prato, Frosinone, Trapani e Taranto.

I provvedimentI restrittivi sono stati eseguiti dai carabinieri della Compagnia di Casal di Principe, che nell’operazione denominata “Spartacus Reset” hanno impiegato circa duecento militari con l’ausilio di elicotteri e unità cinofile.

Responsabilità civile dei magistrati: finalmente ecco che parla Mattarella

Il presidente all'Altare della Patria

Non è un’invasione di campo. Ma certo sono parole che pesano rotolando giù dal Colle fin dentro Palazzo Chigi. “Le recenti modifiche alla legge Vassalli andranno attentamente valutate alla luce degli effetti concreti dell’applicazione della nuova legge” dice Sergio Mattarella. Il Presidente della Repubblica, e Presidente del Csm, è quasi alla fine del discorso che riserva ai 346 giovani magistrati tirocinanti convocati su al Colle e in attesa di iniziare il mestiere del pm o del giudice. E da questo preciso momento la nuova legge sulla responsabilità civile dei magistrati diventa ufficialmente “osservata speciale”, appena una settimana dopo la sua entrata in vigore. Il Quirinale minimizza, fa notare che le stesse parole furono già dette del ministro Guardasigilli. E però il taciturno Mattarella le ha volute dire. La cronaca ci dirà, nel tempo, se quella di oggi sarà da considerare la prima vera esternazione del Capo dello Stato. Certo si tratta di un’importante – e attesa – rassicurazione per la magistratura sul piede di guerra perché vede nella legge una “lesione della propria autonomia” e “un’intimidazione del servizio giustizia”. Ed è un’ammonizione per l’operato di palazzo Chigi che, nonostante le richieste di modifica avanzate da mesi dai vertici di tutta la magistratura e prima del voto finale, ha voluto andare avanti lo stesso e consegnare lo scalpo di una magistratura che deve obbedire ad esecutivo e legislativo.

Gli addetti ai lavori, Anm e Csm, attendevano queste parole. Parlando ai giovani magistrati Mattarella precisa che l’idea del “tagliando” alla legge sulla responsabilità civile “era già stata avanzata dal ministro della Giustizia Andrea Orlando”. Il Guardasigilli aveva parlato la notte in cui la legge fu approvata. “Ma come si fa a credere a un ministro che avanza l’idea del tagliando mentre sta votando quella legge sostenendo che è una buona legge?” denunciò l’Anm. In questa settimana di vita della legge devono essere state molte le sollecitazioni arrivate al Colle. Direttamente al Presidente. Tramite i suoi consiglieri giuridici. Tramite il vicepresidente del Csm Giovanni Legnini. Ciascuno si è fatto a suo modo portavoce di preoccupazioni, timori, paure di fronte alle quali il Presidente non poteva più tacere. Così ha voluto tranquillizzare. E far sapere lui da che parte sta. “Seguire il modello di magistrato ispirato all’attuazione dei valori etici – ha detto ai giovani seduti nella sala dei Corazzieri – vi aiuterà ad affrontare con serenità i compiti che vi aspettano e a non lasciarvi condizionare dal timore di subire le conseguenze di eventuali azioni di responsabilità nella consapevolezza di essere soggetti, nell’applicazione delle vostre funzioni, unicamente alla legge”. In ogni caso, ha aggiunto, “sarò sempre attento custode nella duplice veste di Presidente della Repubblica e di Presidente del Csm”. Il ministro Guardasigilli Andrea Orlando ascolta e annuisce in silenzio in prima fila. Tra i membri del Csm ugualmente presenti nella sala c’è chi scrolla la testa: “Non è mai stato fatto un monitoraggio di una legge appena approvata. Ma che senso ha? Gli effetti distorsivi della legge andavano risolti prima”. Sarà il Consiglio superiore della magistratura a svolgere il cosiddetto monitoraggio.

La parole di Mattarella arrivano in fretta all’orecchio di David Ermini, responsabile Giustizia del Pd e fedelissimo del premier Renzi. “Non mi pare ci sia nulla di nuovo nelle parole del Presidente: ha confermato quanto già detto Orlando. La modifica della Vassalli era necessaria, non è stata fatta in 27 anni, la nuova legge adesso c’è e se c’è qualcosa che non va, faremo le correzioni necessarie”. Chiedere un monitoraggio significa ammettere che ci sono dei problemi in quel testo. E logica vorrebbe che il legislatore raccogliesse prima certe osservazioni. Ma Ermini non ci sta. “Intanto l’abbiamo fatto – sottolinea. “Poi appartiene all’umiltà della politica, al buon senso, fare eventualmente un passo indietro”. È il motto renziano declinato in tutte le sue forme: “Intanto si fa, poi si vede”. La nuova legge sulla responsabilità civile stabilisce che ogni cittadino, indagato o imputato, a cui è stato sequestrato un bene, possa fare subito azione civile contro il magistrato, giudice o pm, che ha esercitato l’azione penale. Non c’è un filtro di ammissibilità e la causa sarà valutata da un giudice civile. Le alte cariche della magistratura e la magistratura associata hanno previsto carichi di lavoro in controtendenza con la volontà di togliere l’arretrato, il rischio paralisi per via di ricusazioni e autosospensioni e il rischio, nel lungo periodo, di un lavoro da parte di giudici e pm sempre in difesa e burocratico per evitare guai.

Il Presidente che parla poco ha quindi parlato. Ed è il terzo intervento, si fa notare al Colle, dedicato a questioni di giustizia, uno al Csm e due ai giovani magistrati. Pochi giorni fa, nella Villa Castelpulci di Scandicci sede della Scuola della Magistratura, aveva ricordato che il magistrato non deve essere “né burocrate, né protagonista”. Oggi ha chiesto “coraggio e umiltà” perché “una società complessa chiede giustizia, e in tempi rapidi”. E’ un discorso come sempre breve ma essenziale quello di Mattarella. Indica i tratti fondamentali del magistrato che deve essere “artefice del diritto vivente e non più solo giudice bocca della legge”. Ne indica alcune priorità come la “lotta alla corruzione che blocca lo sviluppo economico e corrode la convivenza civile”. A palazzo dei Marescialli, sede del Csm, sono ancora in attesa di sapere quando il capo dello Stato andrà a tenere il suo atteso discorso sulla giustizia. Questi sono solo alcuni anticipi.

(fonte)

Io non voglio pagare la scuola privata ai tuoi figli. E non mi fa risparmiare.

Un post quasi definitivo di Leonardo:

School_ChoiceCiao a tutti, mi chiamo Leonardo, ho un blog, e non mi va di pagare per la privata dei vostri figli. Chi mi conosce da un po’ di tempo lo sa – è una cosa che scrivo a intervalli regolari, più o meno ogni volta che qualche lobbista o politico di area cattolica bussa al governo con la mano sul cuore e l’altra tesa.

Stavolta però mi hanno letto in tantissimi, non so neanche io perché. Scherzi di facebook. Tra i tantissimi era normale che ci fosse anche qualche lettore che non la pensa come me. Qualcuno convinto che finanziare le scuole private coi miei soldi di contribuente sia una cosa buona e giusta – se non altro perché, pensate un po’, farebbe risparmiare allo Stato un sacco.

È in effetti una storia che ho sentito spesso. Siccome l’articolo 33 della Costituzione è chiarissimo (“Enti e privati hanno il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione, senza oneri per lo Stato”), l’unico sistema per aggirarlo è sostenere che le scuole private facciano addirittura risparmiare. Anche la recentissima letterina pubblicata su Avvenire e controfirmata da 44 parlamentari di area Pd spiega che il “sistema [delle private paritarie] costa allo stato solo 470 milioni di euro/anno [fonte?], pari a circa 450 euro/anno/alunno per la scuola dell’infanzia e primaria [fonte?], mentre lo stanziamento per le secondarie di I e di II grado è praticamente inesistente”. Siccome secondo il Ministero dell’Istruzione ogni studente costa allo stato 6000€ all’anno, il risparmio appare evidente.

Ma sarà vero?

Tanto per cominciare, mi piacerebbe sinceramente capire chi ha fatto il famoso conteggio dei 470 milioni di euro l’anno. Se è un dato vero, che problema c’è a citare la fonte? E invece nessuno la cita mai. Se la prendono con te che non sai l’aritmetica, ma non ti spiegano da dove loro hanno preso i dati. È curioso.

Ma anche volendo prendere per buono il dato dei 470 milioni di euro all’anno, qualcosa non mi torna – no, in generale non mi torna niente. È uno di quei problemi che sembrano appunto banalmente aritmetici e poi a guardarli bene non lo sono affatto. Un ente – non necessariamente una scuola – un qualsiasi ente che mi promette di farmi risparmiare se gli do dei soldi, mi lascia perplesso. Forse davvero non sono abbastanza intelligente da capire come funziona. Mi piacerebbe che qualcuno intervenisse qua sopra e me lo spiegasse. Finora non c’è riuscito nessuno, forse sono senza speranza.

Proviamo a capirci. Le scuole private esistono già. Se per assurdo scomparissero all’improvviso; se gli alunni fossero a causa di ciò costretti a iscriversi alle pubbliche, è chiaro che la spesa pubblica leviterebbe. Credo che sia appunto il caso che hanno in mente i 44 parlamentari quando parlano di un “risparmio evidente”. Ma è un caso abbastanza assurdo, no? Le scuole private esistono già, e tanti genitori ci manderanno comunque i loro figli. Che lo Stato li aiuti o no. Quale convenienza ha lo Stato ad aiutarli?

Gli studenti di queste scuole costano poco allo Stato – 5530€ in meno ad alunno, a dar retta ai vostri numeri. Sembra un bel risparmio, ma se aumentassimo il numero di posti, lo Stato risparmierebbe di più? Ne siete convinti? Io non ne sono del tutto convinto.

E se invece lo calassimo?
Partiamo da un presupposto: si tratta di scuole paritarie. Gli alunni che le frequentano dovrebbero essere in grado di sostenere gli stessi esami degli alunni che frequentano le statali. I pochi dati che abbiamo in riguardo non ci permettono di sostenere che le scuole paritarie finanziate dallo Stato offrano in media un servizio di qualità. A quanto pare per ora il servizio medio è inferiore a quello delle pubbliche – ma a parte questo: qualcuno si aspetta che le scuole paritarie costino di meno?

Da un punto di vista meramente economico non c’è nessun motivo perché ciò succeda. Anche se non è in grado di assicurare ai propri studenti un’istruzione dello stesso livello di quella delle scuole pubbliche, la scuola paritaria dovrebbe avere tutte le spese di quella pubblica. A meno di non credere alla favola del volontariato – ovvero: mi va bene se in cortile c’è un volontario che sta attento che i bambini non si ammazzino sull’altalena – ma se in classe c’è un volontario che insegna ai bambini l’inglese, non è un volontario. È un insegnante non abilitato e non pagato – oppure pagato poco e in nero. È schiavitù, al limite evasione fiscale – non volontariato. Siamo d’accordo su questo? Lo spero.

Dunque non si capisce effettivamente come possa una scuola paritaria costare ai genitori meno di una scuola pubblica. Quest’ultima, tra l’altro, facendo parte di un’enorme rete di scuole presenti in modo capillare sul territorio italiano, può ottenere diversi servizi a un prezzo di favore. Può selezionare insegnanti in tutto il territorio italiano mediante concorsi (anche se spesso non lo fa), razionalizzando una serie di risorse (mezzi di trasporto, personale non docente, cancelleria), con un’efficienza molto maggiore. È un po’ il motivo per cui la grande distribuzione può permettersi di tenere i costi più bassi di una bottega in centro. Per lo stesso motivo, ci si aspetterebbe che la scuola paritaria privata costasse al pubblico un po’ di più della scuola pubblica. E infatti è così.

Ma ad alcuni non va bene.
Vorrebbero pagarla di meno.
Vorrebbero che gliela pagassi un po’ io.

E se io smettessi di pagargliela?

Prendiamo per buoni i dati dei 44 parlamentari. Uno studente di privata costa allo Stato 470 euro? Ma se la scuola costa più o meno quanto quella pubblica (e davvero, non si capisce come potrebbe costargli di meno), questo significa che gli altri 5000 euro e rotti ce li mette il genitore. Abbiamo dunque davanti un genitore che è disponibile a sborsare 5000 euro all’anno per l’educazione di suo figlio, ma ne pretende 470 da me. Ma se smettessi di dargliene 470? Se gliene dessi soltanto, diciamo, 300? Lui toglierebbe suo figlio dalla privata paritaria? Secondo me no. Cioè, magari alcuni sì. Ma pochi. La maggior parte continuerebbe a iscriverlo alla privata, perché cosa sono in fondo i miei 470 rispetto ai suoi 5000?

Vedete come funzionano i numeri? Voi li usate per dirmi che i buoni scuola fanno risparmiare. Io vi prendo gli stessi numeri e vi dimostro che posso risparmiare ancora di più – se i buoni scuola ve li taglio a metà. Chi avrà ragione? Il dibattito è aperto.

“Prendete, per esempio, la questione del volontariato. L’istruzione di massa ha convinto il gonzo che lo stato non può – e forse neanche deve – far fronte ai bisogni essenziali dei miserabili, e che a questo può – addirittura preferibilmente deve – supplire l’attività benevolente del volontariato, che tuttavia non può farsene interamente carico, sicché necessita di un aiuto, e da chi se non dallo stato? Al gonzo si fa credere che questo si traduca comunque in un risparmio, e il gonzo, oggi, ci crede. Al gonzo d’una volta, invece, mancava il concetto di sussidiarietà: alla richiesta di denaro pubblico per fare beneficenza avrebbe drizzato le antennine, fottendosene altissimamente di poter apparire cinico, ancor meno di rivelarsi ignorante sul ruolo dei cosiddetti corpi intermedi. Il gonzo d’oggi non se lo può permettere” (Malvino)

Va bene, bravi, i “professionisti dell’antimafia”. Ma poi?

Una riflessione di Gaetano Savatteri:

L’antimafia è morta. L’antimafia dei movimenti, delle associazioni di categoria, dei bollini e dei certificati, ma anche quella dei magistrati e della politica. L’antimafia, quella che abbiamo visto e conosciuta fino ad oggi, è definitivamente sepolta. Perché le ultime vicende – l’arresto di Roberto Helg per una mazzetta conclamata o l’indagine per mafia sul presidente della Confindustria siciliana Antonello Montante, per dichiarazioni di pentiti ancora tutte da chiarire e che potrebbero nascondere una manovra di delegittimazione – sanciscono in ogni caso e definitivamente la fine di un modello che per molto tempo, e fino all’altro ieri, è stato visto con favore e incoraggiato perché segno di una “rivoluzione” che metteva in prima linea la cosiddetta società civile.

Attilio Bolzoni su Repubblica, lo stesso giornale che ha sparato per primo la notizia dell’indagine su Montante, ha posto un interrogativo: “Forse è arrivato il momento di una riflessione su cos’è l’Antimafia e dove sta andando”. Ma probabilmente la domanda più corretta è un’altra: potrà esserci ancora un’antimafia? Peppino Di Lello, a lungo magistrato del pool antimafia di Palermo, quello di Falcone e Borsellino, scrive sul Manifesto che “i bollini, le autocertificazioni, gli elenchi incontrollati e incontrollabili degli antimafiosi doc sono ormai ciarpame e bisogna voltare pagina riappropriandosi di una qualche serietà nella scelta di esempi di antimafia vera, scelta fondata sulla prassi, sui comportamenti che incidono realmente in questa opera di contrasto”.

Di Lello, giustamente, attacca la retorica dell’antimafia, citando non a caso l’ormai storico articolo del 1987 di Leonardo Sciascia sui “professionisti dell’antimafia”. Ma le ultime vicende e un sottile veleno che percorre le vene del mondo delle associazioni e del movimento antimafia (don Luigi Ciotti ha fornito qualche anticipazione: “Mi pare di cogliere, e poi non sono in grado di dire assolutamente altro, che fra pochi giorni avremo altre belle sorprese, che sono in arrivo, che ci fanno soffrire. Perché riguardano personaggi che hanno sempre riempito la bocca di legalità, di antimafia”) percuotono chi, per entusiasmo o per mestiere o, usiamo pure questa parola, per “professionismo”, si è iscritto negli ultimi anni nel fronte antimafia. Serpeggia il disorientamento tra quanti si chiedono: e adesso, infranti alcuni simboli dell’antimafia, non si rischia di veder naufragare il lavoro fatto in tanti anni, compresi i buoni esempi concreti realizzati?

L’indagine della Commissione parlamentare antimafia sull’antimafia, per individuare quando questa sia stata reale o di facciata – paradosso segnalato da Giuseppe Sottile sul Foglio – pone una questione centrale. Se molti movimenti, associazioni, progetti nelle scuole, iniziative si sono riempiti, nella migliore delle ipotesi, di un tot di vuota retorica e, nella peggiore, di piccoli o grandi interessi economici sotto forma di finanziamenti, privilegi, guadagni, chi dovrà stabilire da ora in poi la genuinità della natura antimafia?

La struttura dello Stato italiano, per oltre centosessant’anni, ha costruito soggetti e ruoli incaricati di definire e individuare le mafie, arrivando a darne nel 1982 perfino una definizione normativa con l’articolo 416bis del codice penale. Ma l’Italia non ha, e forse non poteva avere, strumenti per individuare con esattezza la natura antimafiosa di soggetti, singoli o plurali, se non in termini di opposizione: in parole semplici, era antimafioso chi combatteva la mafia. Con opere o parole.

Così, per lungo tempo, l’antimafia sociale – cioè quella non costituita da magistrati e poliziotti incaricati, per ragioni d’ufficio, dell’azione di contrasto e repressione – finiva per autodefinirsi. E’ bastata, per un lunghissimo periodo, la petizione di principio di dichiararsi antimafia per essere considerati tali. In un Paese che fino a una quarantina d’anni fa ancora sosteneva, spesso anche nelle sedi giudiziarie, che la mafia non esisteva, già il fatto stesso di dichiararne l’esistenza e di porsi in posizione alternativa a essa, era sufficiente per attribuirsi o vedersi attribuita la patente antimafia.

Se oggi questo non basta più, quale sarà il criterio futuro per definire la nuova antimafia? I fatti, i comportamenti e la prassi, dice Di Lello. Tutto ciò è facilmente verificabile, ad esempio, nell’attività delle associazioni antiracket che convincono i loro associati a testimoniare nei processi, li sorreggono, si costituiscono accanto a loro parte civile. Ma questo principio può valere per associazioni culturali, singoli di buona volontà, gruppi di opinione, insegnanti la cui unica forza risiede solo nella dichiarazione d’intenti?  E’ ovvio che laddove le parole non coincidano con i fatti (come nel caso della tangente che ha fatto finire in galera Helg), la contraddizione è talmente stridente che non ci sono dubbi. Ma anche in questo caso, è una dimostrazione al contrario: il fatto (cioè la mazzetta) mostra la non appartenenza di qualcuno al fronte autenticamente antimafioso. Ma quale può essere il fatto che, giorno dopo giorno, possa dimostrarne invece l’appartenenza?

Per Confindustria Sicilia, ad esempio, sembrava già rivoluzionario e significativo che un’associazione di categoria che per molto tempo aveva ignorato la mafia o ci aveva convissuto, con molti casi di imprenditori contigui o aderenti a Cosa Nostra, avviasse una inversione di rotta pubblica, con l’annuncio di espulsioni dei propri soci che non avessero denunciato le estorsioni. Era certamente un fatto capace di attribuire identità antimafiosa a quell’associazione.

Naturalmente, il movimento antimafia nel suo complesso si è nutrito di errori e di eccessi. E questi nascono probabilmente dall’evidenza che ogni movimento antimafioso, per sua natura, tende ad occupare tutti gli spazi morali a sua disposizione. La discriminante etica, ragione fondante, tende ad allargarsi e spostarsi sempre più avanti in nome della purezza antimafia, escludendo altri soggetti e movimenti. Qualsiasi movimento antimafia, poiché si costituisce e si struttura in alternativa e in opposizione a qualcosa, in primo luogo la mafia e i comportamenti che possono favorirla o sostenerla, non può tentare di includere tutto, ma deve per forza di cose escludere. Ecco perché dentro il mondo dell’antimafia non c’è pace, e ciascun gruppo di riferimento tende a vedere negli altri gruppi degli avversari, se non dei nemici insidiosi o subdoli. L’antimafia spontaneistica e aggregativa dal basso si contrappone a quella ufficiale in giacca e cravatta e viceversa, quella sociale si contrappone a quella di Stato e viceversa.

La vocazione alla supremazia della leadership del mondo antimafioso, diventa allarmante quando l’antimafia non è più esclusivo appannaggio di gruppi sociali d’opposizione (i preti di frontiera contro la Chiesa ufficiale timorosa, le minoranze politiche contro le maggioranze o i governi prudenti o contigui, gli studenti contro la burocrazia scolastica troppo paludata, tanto per fare alcuni esempi), ma comincia a diventare bandiera dei gruppi dominanti. Al potere economico o politico, finisce così per sommarsi il potere di esclusione di potenziali concorrenti, che può essere esercitato anche facendo baluginare legami oscuri o poco trasparenti. L’antimafia può servire al politico di governo per demonizzare gli avversari. Siamo di fronte a quel meccanismo che viene indicato come “la mafia dell’antimafia”, definizione che non amo perché rischia di far dimenticare che nel recente passato in Sicilia, e non solo, politici,  imprenditori e funzionari contigui o affiliati alla mafia facevano eliminare i loro avversari direttamente a colpi di kalashnikov.

In questi giorni, in queste ore, il mondo dell’antimafia, soprattutto quello siciliano, il più antico e radicato, il più organizzato e selezionato negli anni delle stragi e delle mattanze mafiose, si trova davanti a molte domande. Chi dovrà stabilire, nel futuro prossimo, la genuinità dei comportamenti antimafia? I giornali? La tv? Il governo? Il Parlamento? Non esistono organismi o autorità morali in grado di fornire garanzie valide per tutti.  La domanda principale finisce per riguardare l’esistenza stessa di un’antimafia diffusa. Se l’antimafia, per come è stata fino ad oggi, è morta, potrà esserci ancora qualcosa o qualcuno in grado di dichiararsi antimafia? Ma, soprattutto, chi potrà crederci ancora?

Ops, hanno commissariato Cutro e il sindaco “visitato” da Delrio

imageReggio Emilia, 8 marzo 2015 – Gli echi dell’inchiesta anti ‘ndrangheta «Aemilia» si fanno sentire a Cutro, dove sono le radici della foltissima comunità di immigrati a Reggio. Il Comune di Cutro ieri è stato commissariato. Dopo 18 anni il sindaco Salvatore Migale passa il testimone al viceprefetto vicario della prefettura di Crotone, Maria Carolina Ippolito: sarà lei a occuparsi della gestione straordinaria. Il consiglio comunale è stato sciolto l’altro pomeriggio dopo le dimissioni di nove consiglieri su sedici.

L’USCITA di scena del sindaco – che venne a Reggio a inaugurare con l’allora collega Graziano Delrio il viale Città di Cutro vicino all’autostrada – ha una coda che riporta al terremoto della Dda. Ha detto l’avvocato Migale a «Il Crotonese»: «Dopo tutti quegli arresti ci sembra quasi una ritorsione per le posizioni contro la ‘ndrangheta espresse dalla mia Amministrazione». Un consigliere del Pd, Domenico Voce, nella drammatica assemblea comunale dell’altro pomeriggio a Cutro aveva rinfacciato al vicesindaco Squillace una sua dichiarazione al «Quotidiano della Calabria» e cioè che far cadere l’amministrazione avrebbe fatto gli interessi dei clan le cui ingerenze erano state respinte dalla giunta cutrese. «Come se gli esponenti dell’opposizione fossero mafiosi» ha lamentato Voce. Il vicesindaco ha ribattuto che non era questo il senso delle parole. Ma quanto affermato poi da Migale è parso invece confermarlo. Voce aveva invitato a Migale a dimettersi.

I FATTI. Nel 2011 Migale era stato confermato sindaco a capo di una giunta di centrosinistra. Giugno 2014: il Pd ritira l’appoggio. Il sindaco forma una nuova giunta col sostegno del centrodestra. Il Pd attacca Migale prima delle elezioni provinciali d’ottobre: «Lo avevamo conosciuto come «grande sostenitore degli ideali della sinistra (poi messi da parte per la legittima adesione all’Idv), ora lo ritroviamo fervido baulardo della candidatura… proposta dal centro destra»… «L’idea di confrontarci con un sindaco eletto con i decisivi voti del Pd di Cutro e che a metà del cammino abbandona gli alleati naturali per affidarsi alla destra in spregio a ogni regola democratica, ci consiglia di non perdere ulteriore tempo. I trasformismi non troveranno più spazio da oggi in poi». Ora il redde rationem. Migale, persi i pezzi, ha chiesto la sospensione del consiglio chiedendo scusa al Pd. «Il nostro programma è quello del Pd. Il commissariamento sarebbe un’onta per il paese, non mi dimetto». Ma in nove hanno votato la sfiducia. La ratifica formale in serata.

IERI, il segretario crotonese Pd Arturo Pantisano ha respinto il riferimento di Migale alla ritorsione, pur riconoscendo la sua onestà. La caduta è solo «politica», ha detto, legata alla revoca di un assessore decisa dal Tar su ricorso del Pd. Quanto ai 117 arresti di Aemilia e alle ripercussioni, ha detto: «Questa ferita ha toccato direttamente o indirettamente diverse famiglie. C’è stata una destabilizzazione del tessuto cutrese». Ma il casus belli di questi giorni a Cutro riguarda anche i lavori allo stadio interrotti da tempo. I tifosi sono arrabbiatissimi perchè il Cutro gioca nel campo della rivale Isola Capo Rizzuto. Quest’anno l’U.S. Cutro festeggia 50 anni. E il calcio, a Cutro, non si tocca.

(clic)

Donne e Mattarell(a)

295926_340287862729703_1737151009_nHo ascoltato le parole del Presidente della Repubblica Mattarella in occasione della festa della donna per radio, molto velocemente e devo dire che non mi avevano colpito per modernità (beh, direte voi, da Mattarella e in effetti avete anche ragione) ma credo che la sensazione che ho provato l’abbia descritta benissimo Cristiana Alicata nel suo blog:

In nessuna parte del suo discorso – mai – compare un impegno a cambiare questa condizione per cui le donne sono dedite alla cura e alla professione e, silenziosamente, ce la fanno. L’ammirazione che i maschi (che in contrapposizione alle donne quindi sono di solito presi da se stessi e dal potere e non ce la farebberp poverini a fare tutto, quindi…non lo fanno) rivolgono alle donne assume una caratteristica tipicamente maschilista: voi donne siete regine del focolare, svolgete i vostri doveri in modo umile senza vantarvi, noi maschi invece facciamo la guerra, ostentiamo il potere e senza di voi saremmo perduti.

Ecco a me la matrice del discorso di Mattarella appare in assoluto contrasto con la cultura della parità che vorrei che il mio Paese promuovesse e mi sembra invece in linea, pur forse non volendolo, con il movimento reazionario degli invasati di “sposati e sii sottomessa” versione maschilista e sorella stretta delle molto omofobe sentinelle in piedi. Nella adulazione dei ruoli svolti dalla donna, scorgo anche una certificazione della loro giustezza. Il discorso di Mattarella, in sostanza, non è stato politico, ma culturale. Non c’è stato alcun impegno a modificare lo stato delle cose che per la maggior parte, possiamo anche ammetterlo, sono esattamente come il Presidente le racconta, anche se io sono assolutamente convinta che una nuova generazione di maschi attenta alle cosiddette dinamiche di cura sia già nata, esista ed è un errore ignorarlo.

Parla il pentito: «Qui al Nord tutti lavorano, poi alla domenica fanno i malandrini»

Luciano Nocera
Luciano Nocera

«Quando mi diede la “santa” mi tagliò, ho una croce dietro la schiena, e il sangue che è sceso se l’è bevuto. È la verità». Carcere di Como, anno 2004, in cella con Luciano Nocera c’è Luigi Vona, capolocale della ‘ndrangheta a Canzo, e un ragazzo di San Luca (RC). «Lui non venne con noi in bagno. Vona prima mi fece camorrista, due settimane dopo mi diede la “santa”. Sulla minore è stato bruciato un santino, sulla maggiore c’era un bicchiere e tre molliche di pane». Il racconto del collaboratore di giustizia Luciano Nocera davanti ai pm della Dda Storari, Celle, Dolci e Ombra riempie 500 pagine di verbali. La prima confessione arriva ad ottobre davanti al pm Marcello Musso. «Io non ero affiliato, però sono sempre stato vicino a gente affiliata, mi sono fatto la galera senza mai parlare, allora Luigi mi ha voluto portare avanti». Le parole di Nocera sono uno spaccato inedito e attuale (gli interrogatori sono di gennaio e febbraio 2015) della ‘ndrangheta in Lombardia. Nocera è calabrese di Giffone come buona parte degli uomini delle cosche tra Milano e Como. Dopo l’affiliazione convoca gli altri calabresi nella sua cella: «Ho comprato una torta dallo spesino in carcere, ho dato una fetta di torta ai paesani per festeggiare». Nocera è soprattutto un trafficante di droga, non sa molto delle regole della ‘ndrangheta. «Nel 2009 rividi Vona, mi ha rimproverato perché non partecipavo alle riunioni. Mi disse: “Guarda che il sole scalda chi vede”. Gli chiesi di scrivermi un po’ di regole, perché io non le conoscevo. Mi disse: aspetta un po’ perché adesso cambiano tutte». Pochi mesi dopo arrivò il blitz Infinito, Vona finì in carcere e le cosche lombarde vennero commissariate dalla Calabria. «Un giorno sono entrato nel bar Arcobaleno di Bulgorello (frazione di Cadorago, ndr) ho detto “buonasera a tutti”. Il giorno dopo sono stato richiamato perché ai cristiani bisogna andare a stringere la “paletta” , la mano, a uno per uno. Avrei dovuto partecipare alla vita del locale, fare le mangiate con gli altri affiliati…».

Negozi, imprese, bar e ristoranti, le cosche tra Milano e Como controllano territorio e imprenditoria: «C’è gente che va a lavorare e che poi gli piace la ‘ndrangheta, gli piace il rispetto ed essere affiliati – racconta il pentito -. Qui uno che ha fatto un reato non lo trova, perché è gente che dal lunedì al sabato va a lavorare e poi alla domenica fanno i malandrini».

Nei verbali si parla di omicidi (quello di Ernesto Albanese e di Salvatore Deiana) e di tradimenti: «Corretti non siamo con nessuno, siamo tutti malviventi e gente di galera». Ma ci sono anche episodi che sfiorano, per quanto possibile, il comico: «Bruno Mercuri è un mio parente, è il marito di mia cugina: a casa non ha neanche il permesso di andare in bagno se non vuole la moglie. Fuori fa il malandrino, però a casa deve mettere le pantofole».
Nel Comasco c’è un boss storico, Salvatore Muscatello, capolocale di Mariano Comense, «l’unico che ha il crimine», ma anche figure influenti e ancora in libertà come l’imprenditore «Bartolino Iaconis» che dopo l’omicidio di Franco Mancuso (2008) «si è ritirato, perché, mi diceva: “è quattro anni che ho dietro la Boccassini”». Ma, chiedono i pm, dalla ‘ndrangheta si esce solo da morti? «Se vuoi “ti ritiri in buon ordine”, facendoti da parte». C’è chi, infatti, dopo gli arresti degli anni Novanta non ha più voluto aver niente a che vedere con le cosche, pur essendo stato affiliato: «Mio zio apparteneva alla ‘ndrangheta, poi ha pagato e non ha più voluto. Se a casa arrivava Chindamo, capo di Fino Mornasco, suo figlio aveva ordine di dirgli che non c’era e lui era dietro le tende». E dalle cosche si può anche stare lontani: «Quando Chindamo chiese a Pasquale Sibio di far affiliare il figlio Simone lui rispose “Mio figlio lascialo stare”».
Gli equilibri mutano di continuo. Allo stesso Nocera è stata offerta più volte la possibilità di «aprire un locale», una cellula della ‘ndrangheta: «Mi dissero: “Te lo facciamo aprire qua a Lurate Caccivio, ti pigli a chi vuoi tu…”». Ma il 46enne rifiuta: «A me i casini non piacciono, a me piace stare nell’ombra». Nocera traffica droga con la Svizzera («Vendevo a 55 mila franchi») e cede una Bmw a un politico albanese in cambio di «dritte» sul traffico di droga. «Quando nella cucina di una pizzeria venne ucciso Deiana i killer gli dissero: “Questa è l’ultima alba che vedi”. Lui rispose: “sì”». Poi arrivarono le coltellate: «Ma lui non moriva mai, forse era per la cocaina che c’aveva in corpo».

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L’Europa. L’avevamo sognata bellissima

Schermata 2015-03-08 alle 08.54.49Il monologo su Left in edicola da sabato 7 marzo è scritto da Emmanouil Glezos con me. Glezos è un vecchio partigiano greco ora eurodeputato di Syriza. L’Europa che avevamo in mente era molto diversa da quella che ci ritroviamo e abbiamo voluto raccontarlo con poesia. Questo è il video del monologo recitato:

Finalmente si mette il dito sul Centro rifugiati di Mineo

caramineo_512x384Giusto ieri ne parlavamo a Cadorago con tre senatori della Commissione Antimafia: il Cara di Mineo è un’altro “buco” della buona amministrazione e infatti ecco finalmente la notizia:

Un vero e proprio terremoto nel comune di Mineo, guidato dal sindaco Anna Aloisi, Ncd, che contemporaneamente presiede anche il consorzio di comuni che gestisce il centro di accoglienza.

Delle criticità del centro rifugiati ne avevamo parlato noi , partendo da quel 2012 in cui Giuseppe Castiglione, attuale sottosegretario all’Agricoltura del governo Renzi in quota Ncd, da soggetto attuatore dell’emergenza migranti, affida l’appalto da 30milioni di euro annui al raggruppamento guidato dalla Sisifo, consorzio che a Catania ha sede in un appartamento dell’onorevole Giovanni La Via, eletto al parlamento europeo nel 2014 con il Nuovo centrodestra. La Via, intervistato da Reportime, ha risposto che a condurre la trattativa per la locazione “è stata un’agenzia immobiliare”.

Nel 2014 si è svolta una nuova gara, alla quale Sisifo ha partecipato con le stesse imprese con cui aveva vinto in precedenza. I criteri di selezione, in due gare diverse, non sono stati modificati -come ha confermato a Reportime il direttore generale del Consorzio che gestisce il centro rifugiati Giovanni Ferrera- e hanno vinto sempre gli stessi soggetti, con un ribasso dell’1%.

A chiedere l’intervento dell’Autorità guidata da Cantone è stato l’imprenditore Emanuele Ribaudo, della Cot Ristorazione di Palermo, unico altro partecipante alla gara che però era stato escluso. Intervistato da Reportime, Ribaudo aveva dichiarato che il bando prevedeva determinati “paletti” che non consentivano, a chi non avesse “conoscenze”, di poter vincere. Questi elementi, come per esempio “aver gestito più di una struttura di accoglienza negli ultimi tre anni e almeno una con un numero di migranti superiore a 1.500 giornalieri; aver gestito negli ultimi tre anni un servizio di ristorazione collettiva non commerciale per un numero di persone non inferiore a 2.000 pasti giornalieri; aver gestito acquedotti destinati al consumo umano per un numero di utenti pari a 3.000 unità”, sono stati passati in rassegna dall’Anticorruzione, ma il direttore generale del Consorzio, Giovanni Ferrera, ha ribadito che l’appalto è stato assegnato dopo l’indizione di una gara europea.

Il Consorzio ha sottolineato che l’appalto è stato predisposto “in conformità con lo schema di capitolato approvato dal Ministero dell’Interno nel 2008”, modello quindi che è stato preso a riferimento da tutta Italia e non solo da Mineo. Il problema però, secondo l’Antincorruzione, non risiede nello schema di bando del ministero, ma nell’assegnazione ad un unico gestore dei servizi di ristorazione, pulizia e accoglienza dei centri per migranti.

È necessario mettere in gara ogni singolo servizio da appaltare, cosa che non sarebbe avvenuta invece a Mineo: tra le imprese che hanno vinto, tutte della stessa cordata, c’è il Sol.Calatino di Paolo Ragusa, che sul proprio portale sottolinea di essere un sostenitore del Nuovocentrodestra. Un partito che nel comune del centro rifugiati, alle ultime europee, ha conquistato il 40% dei consensi (un record nazionale per il partito di Alfano). “Merito della bravura della classe dirigente -ha detto l’imprenditore alfaniano che ha vinto l’appalto Paolo Ragusa- non bisogna fare illazioni”.

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EXPO: sbagliato, corrotto e ora anche in ritardo

EXPO 2015.Posa della prima pietra al cantiere  di Rho FieraE se l’Expo il 1° maggio non riuscisse a partire? L’eventualità è catastrofica, ma a guardare lo stato del sito oggi, a 57 giorni dall’inaugurazione, vengono i brividi. Le opere completate sono solo il 18 per cento. L’8 per cento dei lavori è fermo, sospeso o ancora in fase di verifica amministrativa. I lavori in corso sono il 74 per cento, quasi i tre quarti del totale previsto. Di questi, alcuni hanno un ritardo recuperabile, a patto di moltiplicare gli sforzi e gli investimenti; altri hanno un ritardo che sembra incolmabile, a meno che ci si appelli alla retorica degli italiani che nelle situazioni di emergenza fanno miracoli. Per arrivare in tempo all’appuntamento del 1 maggio, nelle ultime settimane si è ingaggiata quella che i sindacati – presenti sul sito per vigilare sulla sicurezza di oltre 5 mila addetti – definiscono “una guerra all’ultimo minuto”. Per farsi un’idea della situazione, basti considerare che non è ancora stata completata neppure la “piastra”, la spianata di cemento con le infrastrutture di base su cui vanno edificati i padiglioni e tutto il resto. Dei padiglioni esteri, solo due sono stati consegnati, sui 54 previsti.

Bonifica dell’area impossibile: fine lavori 4 mesi dopo il via. Peggio ancora: non è terminato nemmeno il lavoro di “rimozione delle interferenze”, il primissimo appalto di Expo, per togliere di mezzo edifici, vegetazione, tralicci e altri manufatti preesistenti che intralciano il cantiere. Un documento riservato della Cmc, l’azienda delle coop che ha vinto la gara, comunica ad Expo spa che la data di fine lavori, inizialmente fissata a giugno 2013, sarà il 28 settembre 2015: a esposizione quasi finita! Dopo pressioni, la data è stata cambiata: 26 giugno, comunque a evento già in corso. “Il problema è quello delle bonifiche” , segnala Silvana Carcano, consigliera regionale lombarda del Movimento 5 Stelle. Cmc ha trovato, durante i lavori, sorpresine come due serbatoi di idrocarburi da spostare e bonificare. Nel frattempo ha chiesto una consistente revisione del prezzo dell’appalto, lievitato da 58 a 127 milioni, attirando gli strali (e il parere negativo) dell’Autorità nazionale anticorruzione di Raffaele Cantone.

Attenzione: a denunciare che la situazione è drammatica non sono i soliti gufi, rosiconi e inguaribili no-Expo: l’avanzamento (si fa per dire) dei lavori si può verificare sullo stesso sito ufficiale dell’evento, nelle pagine “Open Expo”, il database aggiornato ogni settimana con i dati sui 34 principali lotti in cui è suddiviso il mega-cantiere . Quelli in cui la situazione è più problematica sono Palazzo Italia, edificio da 13 mila metri quadrati, cuore dell’esposizione e vetrina dell’Expo made in Italy; i “cluster”, ossia gli edifici che ospiteranno le aree tematiche (cacao, caffè, spezie, frutta e legumi…); le architetture di servizio (bar, bagni pubblici, magazzini e altre strutture); e la passerella che collega il sito Expo con l’area di Cascina Merlata, dove ha sede il villaggio Expo. Sono tutte opere che l’ultima versione del crono-programma lavori di Expo – pubblicata la primavera scorsa, già in pieno marasma da scadenze  – assicurava che sarebbero state terminate tra il novembre e il febbraio scorso.

Gravi ritardi riguarderebbero anche i servizi igienici e quelli idraulici, il Future food district, “supermercato del futuro” gestito da Coop, e le infrastrutture e gli edifici del Cardo (il viale dove sono in mostra le eccellenze italiane). Il Padiglione del vino, per fare un esempio, avrebbe dovuto essere consegnato a Verona Fiere, che lo gestisce, e alla svizzera Nussli, per gli allestimenti, nel gennaio scorso: ma la consegna dell’immobile di tre piani non è ancora avvenuta. Sono passati sette anni da quando Milano si è aggiudicata l’Expo 2015. Ma a questo punto non è necessario essere gufi per prevedere che l’esposizione milanese sarà nella migliore delle ipotesi la fiera dell’arrangiato: sarà inaugurata con diversi padiglioni non terminati, collaudi fatti un po’ come viene e servizi incompleti.

Sfida impossibile per gli allestimenti. Il sito di Expo che aggiorna sull’avanzamento dei lavori non prende in considerazione i 54 padiglioni esteri, la cui costruzione è in capo ai Paesi ospiti. Emanuele Rossetti, direttore generale di Nussli Italia, colosso svizzero delle costruzioni temporanee che si è aggiudicato il maggior numero di contratti di padiglioni, ammette che alcune strutture potrebbero mancare l’appuntamento: probabilmente il 1° maggio non saranno pronti. Butta però acqua sul fuoco: “Ci sono 160 Paesi partecipanti, se all’inaugurazione non ne aprono tre o quattro, non succede nulla, è capitato anche in altri Expo”. Il problema è che quasi la metà dei padiglioni sono in ritardo, tanto che Expo spa starebbe valutando sistemi per camuffare le opere che non saranno completate entro il 1 maggio, data dell’inaugurazione in pompa magna con il presidente del Consiglio Matteo Renzi, il presidente della Repubblica Sergio Mattarella e diversi altri capi di Stato.

Secondo una fonte che lavora nel sito (che chiede di non essere citata), tra i padiglioni più indietro, oltre al Palazzo Italia, ci sono quelli della Turchia, dell’Olanda, che sconta l’adesione tardiva del dicembre scorso, e quelli di Ecuador, Polonia, Romania e Russia. Anche Antonio Lareno, responsabile del progetto Expo per la Cgil, segnala il rischio di non finire in tempo: “Gli allestimenti potrebbero non essere finiti e causare il ritardo dell’apertura dei padiglioni”.

Il tema dell’esposizione è, come noto, “Nutrire il Pianeta, energia per la vita”. Ma ormai l’idea forte dell’evento, abbandonato il progetto iniziale dell’orto botanico planetario e di un Expo verde e sostenibile, è quella del Cyber Expo, promessa di modernità digitale. Il pezzo forte del Cyber Expo dovrebbero essere gli “e-Walls”, 18 mega-schermi interattivi, multitouch, che permettono una “UX (user experience) emozionale e di forte impatto”, distribuiti nel sito per informare, intrattenere ed educare i visitatori sui temi dell’esposizione. Ma su quali temi, con quali contenuti? Non si sa ancora, visto che la gara per la “progettazione, sviluppo e produzione delle applicazioni e contenuti digitali” è stata indetta il 24 febbraio e scadrà l’11 marzo: a 30 giorni all’apertura dell’evento.

Il mistero dei biglietti: venduti davvero? E quanti? Per far quadrare i conti e garantire la sostenibilità economica dell’esposizione, bisogna vendere i biglietti. L’incasso preventivato è di oltre 400 milioni di euro. Il management di Expo sfodera l’ottimismo d’ordinanza e parla di 8,5 milioni di biglietti già venduti. Ma si tratta per lo più di biglietti consegnati a broker e tour operator, che a loro volta dovrebbero piazzarli ai visitatori (il costo del biglietto ordinario per gli adulti è tra i 27 e i 32 euro). È dunque ancora tutto in alto mare: quale sia la reale consistenza della

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