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Giulio Cavalli

Morti per chi?

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La tutela di Marco Biagi era responsabilità di Claudio Scajola, oggi sotto processo per ‘ndrangheta. Questo direi che fotografa perfettamente la classe dirigente di questo Paese (negli scorsi anni ma sarebbe bello aprire l’analisi anche sull’oggi) che si ritrova a prendere decisioni come in questo caso vitali sulla sicurezza e la prevenzione. Oggi a capo di questa responsabilità c’è Angelino Alfano. Per dire. Per questo la notizia dell’apertura di un’indagine nei confronti di De Gennaro e dello stesso Scajola sulla morte di Biagi è da seguire con attenzione. Molta attenzione. Almeno noi.

La sinistra onanistica

Oggi mi tocca essere d’accordo in toto con Alessandro Gilioli:

Non so se mi sono perso qualcosa, ma credo che da questo breve ritratto vi sia chiaro perché da alcuni mesi qui scrivo praticamente di tutto – dall’eutanasia alla Libia – ma non della sinistra italiana: non essendo questo un blog comico.

Siamo alla sinistra ad personam: ciascuno con il suo bastone, a segnare il cerchio attorno a se stesso, come Doris nella pubblicità della banca Mediolanum, e gli altri fuori.

Il resto è qui.

Il solito, grazie: indignati e disinformati

rsf2015-300x200Poche righe sui giornali per segnalare la classifica di RSF. Molti commenti indignati, grande silenzio sull’origine dei dati

Molti giornali hanno mostrato sorpresa per il fatto che il 12 febbraio scorso Reporters sans Frontières abbia retrocesso l’Italia di 24 posti in un anno, collocandola al 73.mo posto su 180 paesi classificati in base alla libertà di stampa.

La notizia è stata liquidata sui giornali italiani con notizie di poche righe, come un fatto inspiegabile e curioso. Nei giorni successivi alcuni hanno commentato il fatto con toni più o meno indignati. Solo qualcuno ha letto per intero il comunicato di Reporter Sans Frontières e ha cercato di spiegare il perché, di fare notare che quest’anno, per la prima volta RSF ha basato il suo giudizio su un monitoraggio più puntuale e preciso dei fatti che accadono in Italia nel modo dell’informazione: per la prima volta si è basato sul monitoraggio di Ossigeno per l’Informazione, che da anni rivela un preoccupante aumento delle querele pretestuose e intimidatorie, in particolare di quelle promosse dai politici.

Sabato 15 febbraio il vicedirettore del Corriere della sera, Pierluigi Battista, senza prendere in considerazione i dati citati,  ha riservato alla classifica di RSF un commento sarcastico che si conclude con la frase: “Non credeteci”. A Battista hanno replicato il giornalista Mimmo Candito,a nome di Reporters Sans Frontières Italia, e l’avv. Caterina Malavenda, uno dei massimi esperti di diritto dell’informazione.

Mimmo Candito ha sottolineato in un articolo che RSF descrive una difficoltà reale dell’informazione italiana difficilmente contestabile, essendo basata sui fatti narrati da Ossigeno per l’Informazione, che sono stati attentamente verificati.

Caterina Malavenda ha scritto che “quale che sia l’opinione sulla attendibilità della graduatoria”, lo scivolone dell’Italia “non è comunque una bella notizia” e fa però, ancora meno piacere sapere che tale regressione viene attribuita in parte alle minacce nei confronti dei giornalisti, provenienti il più delle volte dalla criminalità organizzata e seguite spesso da aggressioni fisiche o da incendi dolosi; ed in parte al numero elevato di processi per diffamazione ingiustificati, che possono dissuadere dal diffondere notizie vere, ma scomode, anche senza il ricorso ad amputazioni o censure. “Eppure, basterebbe intervenire sulle norme che oggi non prevedono alcuna reale conseguenza per chi, senza averne motivo, fa causa – il che spiega anche il proliferare di iniziative infondate nei confronti dei giornalisti a mero scopo dissuasivo”.

Di analogo tenore il commento di Alberto Statera (la Repubblica, 23 febbraio 2015) che ha opposto a Battista proprio i dati citati da RSF, sia pure senza dire che i dati sono di Ossigeno.

Più obiettivi e documentati sono stati il commento di Roberto Ciccarelli “Quando il carcere è perfino meglio delle super multe” sul Manifesto del 13 febbraio 2015 e di Newsweek.com, 12 febbraio 2015: Italian Mafia Intimidating Journalists With Worst Levels of Violence Since 90s

(fonte)

Quel pasticciaccio brutto calabrese: il PD e la Lanzetta

Non so se avete avuto l’occasione di informarvi sull’indicibile melma che sta affogando il PD in Calabria e, soprattutto, sulla superficialità con cui ancora una volta si gettano ombre sugli accusatori per non dover rispondere alle accuse:

Lanzetta-Maria-Carmela2Rischia di farsi male il Partito democratico nel tentativo di dirimere le polemiche attorno alla scelta dell’ex ministro Maria Carmela Lanzetta di non accettare la proposta del governatore della Calabria, Mario Oliverio, e far parte della giunta regionale.

Un rifiuto che la Lanzetta ha motivato con il fatto che “non c’è chiarezza sulla posizione di Nino De Gaetano”, neo assessore regionale il cui nome è finito nell’inchiesta “Il Padrino” perché, stando a quanto emerso dalle indagini della squadra mobile di Reggio Calabria, alle regionali del 2010 sarebbe stato votato (all’epoca era candidato con Rifondazione Comunista, ndr) dalla cosca Tegano. La Lanzetta giovedì sarà sentita dalla Commissione parlamentare antimafia che, come ha sottolineato la presidente Rosi Bindi a Catanzaro, aveva già programmato l’audizione dell’ex ministro alla quale vuole chiedere conto di un’intervista resa tre mesi fa al Corriere della Sera in cui aveva affermato di non aver mai parlato di ‘ndrangheta in relazione alle numerose intimidazioni subite ai tempi in cui era sindaco di Monasterace.
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E già perché, per Palazzo San Macuto a questo punto è fondamentale chiedere spiegazioni alla Lanzetta e certificare se può continuare a definirsi “paladina dell’antimafia” in una regione dove, proprio l’antimafia lascia fortemente a desiderare. E per far capire l’esigenza di chiarezza, in conferenza stampa la Bindi ha azzardato addirittura il paragone eclatante con l’ex sindaco di Isola Capo Rizzuto Carolina Girasole, arrestata l’anno scorso nell’ambito di un’inchiesta contro la cosca Arena.

Qui però occorre fare un po’ di ordine. Perché la Lanzetta, da parte offesa, dovrebbe conoscere i dettagli di un’inchiesta, quella sulle sue intimidazioni, che è ancora coperta dal sergreto istruttorio? E perché non rivolgere la stessa domanda anche al procuratore di Reggio Calabria Federico Cafiero De Raho o al sostituto procuratore della Direzione distrettuale antimafia Paolo Sirleo, gli unici titolari del fascicolo e titolati a conoscere le risultanze investigative dei carabinieri? E se non ci fossero gli elementi quantomeno per sospettare che dietro le minacce all’ex ministro ci siano le cosche perché l’inchiesta è alla Dda di Reggio e non alla Procura ordinaria di Locri?

Il clima si fa rovente in casa Pd che, a queste latitudini, non è sinonimo di renzismo. Anzi, la minoranza del Partito democratico nazionale in Calabria (dove è stata eletta anche la Bindi) è maggioranza assoluta. L’amore tra Renzi e Oliverio sembra sfumato. Da Roma, infatti, hanno rinviato a data da destinarsi alcune iniziative calabresi alle quali dovevano partecipare ministri e big renziani, tra cui il vicesegretario Lorenzo Guerini. Lo scontro Lanzetta-De Gaetano ha accellerato i mal di pancia oltre agli imbarazzanti comunicati stampa dei segretari provinciali del Pd che danno della “stalker” all’ex ministro che attacca De Gaetano, utilizzando le stesse argomentazioni (il dissesto del Comune di Monasterace, ndr) che, fino all’anno scorso, erano proprie dell’ex governatore Giuseppe Scopelliti. Attacchi che, all’epoca, gli stessi segretari provinciali avevano rispedito al mittente e che oggi, invece, evidemente condividono.

Sarà sicuramente un’audizione lunga quella della Lanzetta all’Antimafia dove siedono diversi parlamentari calabresi come Enza Bruno Bossio, fedellissima del governatore Oliverio, ed Ernesto Magorno che, del Pd calabrese, è anche segretario. Almeno loro, a differenza della Bindi che ha dichiarato di non voler parlare dell’affaire De Gaetano, conoscono ogni dettaglio dell’informativa con cui la squadra mobile nel dicembre 2012 aveva chiesto l’arresto del neo assessore regionale del Pd nell’ambito dell’inchiesta in cui era indagato anche suo suocero Giuseppe Suraci (oggi deceduto), medico della famiglia mafiosa dei Tegano.

Gli investigatori della polizia avevano sottolineato a carico di Nino De Gaetano “i gravi indizi di colpevolezza” che “consentono per la loro genuinità, di prevedere l’idoneità a dimostrare la responsabilità dei medesimi e come tali, attesa la natura dei delitti ipotizzati, che sussistano senz’altro a loro carico, le esigenze cautelari”. Secondo la Mobile, infatti, c’era “una presumibile e consapevole compartecipazione del De Gaetano, all’ascesa politico-elettorale che lo ha visto indiscusso protagonista, grazie al supporto mafioso garantitogli per conto terzi”.

Un’ascesa che i magistrati, nel provvedimento di fermo contro la cosca Tegano, definiscono “una incresciosa vicenda, che squarcia in modo violento alcuni retroscena legati alle discutibili metodologie di appoggio e promozione politico-elettorale adottate in questo capoluogo da esponenti delle cosche mafiose in favore di alcuni candidati in occasione delle amministrative tenutesi nell’anno 2010”.

Informative e atti giudiziari che, stando ai “non rispondo” della Bindi, sembrerebbero non turbare la Commissione parlamentare antimafia al momento più interessata a scoprire la frase esatta sulla ‘ndrangheta pronunciata dalla Lanzetta durante l’intervista al giornalista del Corriere della Sera. Non c’è motivo (o molti ritengono non ci sia, ndr) di rispolverare i verbali del pentito Roberto Moio, nipote del boss Giovanni Tegano nel cui covo sono stati trovati i biglietti da visita del neo assessore De Gaetano.

Eppure sono quasi tre anni che il collaboratore di giustizia ha affermato pubblicamente in un’aula di Tribunale che “i Tegano avevano rapporti ottimi con l’amministrazione (comunale, ndr). Hanno sempre candidato qualcuno, hanno sempre appoggiato i politici. La maggior parte erano di destra… Di solito abbiamo votato sempre a destra. A sinistra ultimamente abbiamo portato a Nino De Gaetano. Lo appoggiava Bruno Tegano per fare un favore al dottore Suraci (il suocero del politico, ndr) che c’è stato sempre vicino, durante e dopo la guerra di mafia. De Gaetano lo abbiamo aiutato moltissimo”.

(clic)

Il killer di Quarto Oggiaro e il garage della ‘ndrangheta

Benfante-435-x-100-675Palazzo di giustizia di Milano, aula della Prima corte d’assise, processo per il massacro di Quarto Oggiaro. Unico imputato Antonino Benfante, detto Nino Palermo. E’ accusato di aver ucciso tre persone: Paolo Simone ed Emanuele Tatone, freddati la mattina del 27 ottobre 2013 agli orti di Via Vialba, e poi Pasquale Tatone ucciso la sera del 30 ottobre in via Pascarella nel cuore di Quarto Oggiaro. E se per Simone l’unica colpa è stata quella di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, per i due fratelli il movente è legato allo spaccio di droga in strada. Poche bustine. L’inchiesta si chiude il 5 dicembre dello stesso anno con l’ordinanza d’arresto. Indaga la squadra Mobile diretta dal dottor Alessandro Giuliano. Per gli inquirenti il quadro è chiaro: Benfante ha agito per risentimento e per conquistare un pezzo di marciapiede dove poter spacciare la sua droga. Che Nino Palermo negli anni Novanta fosse stato coinvolto in una delle più importanti inchieste antimafia dell’epoca rappresenta solo un quadro storico. Oggi Benfante è semplicemente un balordo, malato di parkinson che ha fatto tutto da solo. Niente complici. Niente mafia. Non influenza il giudizio nemmeno il dato che nel 2012 lo stesso imputato partecipò a un tentativo di estorsione assieme a uomini legati al clan del superboss Pepè Flachi. A poco più di due anni da quei fatti terribili, il processo pubblico svela particolari ad oggi inediti. Particolari che oggettivamente collegano Nino Palermo a uomini della ‘ndrangheta e a boss di peso coinvolti nel sequestro Sgarella. Contatti che non risalgono agli anni Novanta, ma che riguardano i giorni e i mesi precedenti gli omicidi. Sul tavolo le rivelazioni del pentito Carmine Venturino che, con nomi e cognomi, ridisegna il possibile movente. E anche il verbale di un carabiniere che, sentito dalla procura, collega la strage di Quarto all’esecuzione di un uomo avvenuto in una cava di Legnano. Insomma nuove carte, nuove piste, nuovi dubbi e nuovi segnali. Tra tutti la presenza di Mario Tatone, l’unico fratello rimasto libero, fuori dall’aula. Quando Benfante esce, i loro sguardi s’incrociano. Tatone lo chiamano Toro seduto. Sta lì in piedi, gli occhi piantati in quelli di Nino Palermo.

Per capire, allora, bisogna andare alla sera del 5 dicembre 2013 quando gli uomini della squadra Mobile salgano nell’appartamento di Benfante in via Lessona 1 per arrestarlo. Scattano le manette e anche la perquisizione. Tra i reperti salta fuori un mazzo di chiavi che apre un box in via Val Lagarina 42. Si tratta di garage interrati che si trovano a pochi metri dagli orti di Via Vialba al confine con il comune di Novate Milanese. All’interno la polizia trova alcuni pezzi di scooter, probabilmente di un’Honda Sh 300, che secondo la ricostruzione dell’accusa è stata usata per l’omicidio di Pasquale Tatone. C’è anche una bandiera del Palermo calcio e un piccolo motorino elettrico probabilmente usato da Matteo, il figlio dell’imputato. “Benfante – ha raccontato oggi in aula il capo della squadra omicidi Marco De Nunzio – era in affitto. Pagava 109 euro al mese”. Chi è allora il proprietario? Ecco il primo colpo di scena. “Si tratta – spiega sempre De Nunzio – di Vincenzo Novella classe ’49 nato a Guardavalle con precedenti per mafia e traffico di droga”. Novella, secondo le informative della polizia giudiziaria, “è indicato come un appartenente alla cosca Gallace-Cimino”. C’è di più: Vincenzo Novella risulta essere il fratello di Carmelo, il boss secessionista che voleva separarsi dalla casa madre e che finì ucciso ai tavolini di un bar a San Vittore Olona nell’estate del 2008. Il proprietario del garage inoltre risulta residente in via Lessona 55. Sarà sentito a sommarie informazioni dalla squadra Mobile.

Tra i contatti attuali di Nino Palermo, oltre al clan Novella, emergono personaggi legati alla potente cosca Papalia e vecchie conoscenze coinvolte nel sequestro dell’imprenditrice novarese Alessandra Sgarella, rapita a Milano l’11 dicembre 1997 e liberata a Locri il 4 novembre 1998. Andiamo con ordine, seguendo il copione svolto oggi in aula. A parlare è sempre il vice questore De Nunzio. Sul tavolo gli spostamenti di Benfante, successivi agli omicidi e precedenti al suo arresto. Nino Palermo si muove molto. Per il quartiere utilizza lo scooter e quando esce dai confini di Quarto Oggiaro prende l’auto nella quale la polizia ha messo una microspia. Dove va? E chi vede? La sua meta, è stato spiegato in aula, è la zona a sud ovest di Milano tra i comuni di Casorate Primo e Vermezzo. “Qui – ha spiegato il dirigente – incontra i fratelli Varacalli, Francesco e Giuseppe, oltre a una serie di pregiudicati di origine calabrese”. Per capire chi siano i Varacalli basta sfogliare le annotazioni dell’indagine Grillo parlante condotta dai carabinieri di via Moscova e che nel 2012 ha portato in carcere 40 persone tra cui l’ex assessore regionale Domenico Zambetti. Scrivono i carabinieri: “I fratelli Varacalli sono legati per parentele e affinità a famiglie di ‘ndrangheta”. E ancora: “Francesco Varacalli ha recentemente sposato una Papalia, pronipote dei capibastone Domenico, Antonio e Rocco”. Per questo “vale la pena ribadire che se, da una parte, Francesco Varacalli non vanta un importante blasone ‘ndranghelislico, dall’altra, Maria Papapalia ha invece un’ascendenza di assoluto riguardo”. Di più: “Altro elemento di assoluto rilievo sono i cointeressi economici esistenti tra i Varacalli e la famiglia Musitano dimorante a Vermezzo. Elemento di contatto è lo zio Totò, identificato in Antonio Musitano”. Lo stesso Musitano sarà arrestato nel novembre 2014 nell’ambito dell’indagine Rinnovamento sulle propaggini milanesi della cosca Libri rappresentate dai fratelli Martino. Qual era l’interesse di Benfante? “Certamente la droga”, è stato spiegato in aula.

E poi c’è il racconto choc del pentito Carmine Ventutino. Nome noto alle cronache milanesi perché è grazie alle sue rivelazioni se i carabinieri hanno ritrovato i resti di Lea Garofalo. In aula la questione viene posta dall’avvocato di Benfante. Perché Venturino entra in questa indagine? Spiega il vicequestore De Nunzio: “La versione di Venturino è questa: tra il 2007 e il 2008 in un bar di Quarto Oggiaro si svolse un summit mafioso”. I nomi: Mario Carvelli (oggi in carcere), ras dello spaccio legato ai clan di Petilia Policastro, Pasquale e Michela Scandale, parenti di Enzo Scandale detto u Magghiune uomo di fiducia del boss Vittorio Foschini (oggi pentito), i fratelli Cosco, già vicere del palazzo di via Montello 6 e infine uomini di peso del clan Comberiati. Cosa emerge da quella riunione? “In sostanza – spiega De Nunzio – in quel frangente Mario Carvelli, riportando gli ordini del fratello Angelo (all’epoca in carcere), disse che i fratelli Tatone andavano eliminati, perché erano ritenuti i mandanti dell’omicidio di Francesco Carvelli figlio di Angello”. Il corpo di Carvelli junior viene ritrovato il 4 agosto 2007 nel parco delle Groane a Garbagnate Milanese. Prima di ucciderlo i suoi killer lo hanno picchiato selvaggiamente. Sul posto la polizia trova tre pallottole inesplose. Per il caso viene condannato Leonardo Roberto Casati, detto Lollo lo zoppo. Deve scontare 30 anni e non come esecutore materiale ma semplicemente per aver partecipato al sequestro e all’omicidio. Da allora killer e mandanti restano ignoti come è stato confermato dallo stesso vicequestore in aula. Il racconto di Venturino prosegue: di quel summit lui ne parla con Antonio Esposito nel carcere di Como. E’ il 2011. Esposito, è stato spiegato in aula, è uomo vicino ai Carvelli. E a questo punto qual è stato l’orientamento di investigatori e inquirenti? “Quello di accertare l’identità dei personaggi citati nel verbale”. Ancora peggio va a un carabiniere di Legnano che sempre nei giorni dell’indagine viene ascoltato dai magistrati. “Dice – racconta De Nunzio rispondendo alla domanda del legale dell’imputato – che una sua fonte confidenziale legava la vicenda dei Tatone a un omicidio avvenuto all’interno di una cava di Legnano. Non abbiamo fatto accertamenti”. Questi fatti. Uno dietro l’altro. Oggettivi e pubblici. Il resto è una storia, tre le peggiori degli ultimi dieci anni a Milano, ancora tutta da scrivere. A partire dalle armi usate da Benfante: un revolver calibro 38 e un fucile calibro 12. Che fine hanno fatto?

(fonte)

Sottoscrizione sul web per “L’amico degli eroi” (parlano di noi)

da ILCITTADINO:

25 febbraio 2015

CITTADINOTre giovani, un destino comune: l’ascesa. Nel gotha dell’economia, nel microcosmo dell’asfittica politica italiana, sulle cronache nazionali. Marcello, Silvio e Vittorio, ovvero Dell’Utri, Berlusconi e Mangano, e le loro vite – dall’infanzia all’età adulta – che, in modi diversi, si intrecciano. E costruiscono qualche pagina della storia di questo Paese. L’attore e autore lodigiano Giulio Cavalli, più volte finito nel mirino delle cosche, per sette anni anche direttore artistico del Nebiolo di Tavazzano, torna al teatro civile e alla narrativa con L’amico degli eroi, nuova produzione in fase di allestimento per la scena italiana con uno spettacolo teatrale e un volume. Il lodigiano, che oggi vive a Roma, ha già incassato il consenso di chi ha deciso di sostenere il suo progetto attraverso la campagna di crowdfunding lanciata qualche mese fa e ancora aperta. L’obiettivo, diffuso tramite il sito Produzioni dal basso, è quello di arrivare a quota 10mila euro. Nella giornata di ieri, a 52 giorni dalla chiusura dell’iniziativa, la campagna ha catalizzato 102 sostenitori, che hanno donato complessivamente 5.350 euro. Sul palco con Cavalli, che ha debuttato con un’anteprima della pièce al Festival di Teatro Civile di Legambiente, poi diventato anche coproduttore dello spettacolo, Stefano Cisco Bellotti, ex dei Modena City Ramblers, che lo aveva già accompagnato nel suo ultimo lavoro, L’innocenza di Giulio. «Questo non sarà uno spettacolo incentrato solo sugli atti giudiziari, come quello su Giulio Andreotti – annuncia Cavalli – : c’è un ritorno importante alla forma del teatro e alla narrazione letteraria per raccontare non solo delle vicende ormai note di Marcello Dell’Utri, “l’amico degli eroi”, ma anche per raccontare di un modello di servitori, coloro che assumono importanza tacendo delle cose». Cavalli cammina a ritroso e romanza la vita di Dell’Utri a partire dall’infanzia, «in una famiglia borghese ma decadente del centro di Palermo» per poi arrivare all’adolescenza e alla scalata nell’imprenditoria. «Mi interessava raccontare anche di un determinato rapporto tra alcuni parti del Nord e del Sud dell’Italia – spiega Cavalli – : tra quel Nord che si appoggia in modo sicuramente non etico a un Sud che fa da lubrificante». Se lo spettacolo e il romanzo sono centrati sulla vita di Marcello Dell’Utri, comprimari al protagonista sono sicuramente Silvio Berlusconi, raccontato nella sua ascesa prima alla Milano che conta poi alla ribalta nazionale, e Vittorio Mangano, meglio noto come “lo stalliere di Arcore”. «Lo spettacolo sarà ulteriormente presentato ai finanziatori con delle iniziative di teatro in casa – spiega il lodigiano, che aprirà le porte delle sua dimora romana e aggiunge -: Con gli ospiti rigorosamente controllati. Chiederemo il casellario giudiziario». Il debutto nazionale dello spettacolo potrebbe essere ospitato nella manifestazione estiva Ponza d’autore, curata dai giornalisti Gianluigi Nuzzi e David Parenzo. «Il libro è in dirittura d’arrivo – chiude l’autore -, conterrà il copione dello spettacolo e altri quattro capitoli di approfondimento».

Rossella Mungiello

Come se fosse al Governo

MARINA-BERLUSCONI-LAP-300x199Mondadori punta RCS, Mediaset vuole comprare Rai Way, passata la riforma dell’articolo 18. Oggi qualcuno in riunione di redazione ha detto “come se davvero Berlusconi fosse al Governo”. Ed è sceso il gelo. Ma un gelo.

 

L’ex terrorista (ora fascioleghista) della Lega Nord

Domenico Magnetta ai microfoni di Radio Padana
Domenico Magnetta ai microfoni di Radio Padania

Chi è l’uomo nero della Lega Nord amico di Massimo Carminati e Flavio Tosi Domenico Magnetta ai microfoni di Radio Padania
Dal boss di Mafia Capitale alla Lega Nord. Dal nero degli anni di piombo al più sfumato verde Carroccio. Dalla guerra allo Stato alle battaglie degli artigiani vessati da Equitalia. È la parabola di Domenico Magnetta, passato negli anni Ottanta attraverso rapine, armi ed eversione di estrema destra ed ora “fascioleghista” con tanto di trasmissione radiofonica sulle frequenze di “Radio Padania Libera”.

Cinquantasette anni, nato in provincia di Foggia ma trapiantato a Milano, oggi si è riciclato come gran capo di “P.i.u.”, l’associazione di professionisti e imprenditori uniti nata vent’anni fa per volere di Umberto Bossi e Roberto Maroni. Così, l’uomo nero della Lega Nord è diventato la voce nell’etere dei piccoli commercianti arrabbiati contro la burocrazia ingiusta, e dispensa consigli tutti i lunedì, ascoltando le storie di piccole e grandi ingiustizie.

Apre le telefonate con le invettive contro Equitalia, le cartelle esattoriali e poi alzando il tiro contro tutti i migranti. «Ci stanno togliendo anche le lacrime a noi lavoratori autonomi», tuonava Magnetta ai microfoni aperti nella puntata dello scorso 31 dicembre.

La passione politica però non è mai scemata ed eccolo rispuntare a fianco del sindaco di Verona, Flavio Tosi. L’occasione è il raduno degli ex camerati sulle sponde dell’Adige: sabato 7 febbraio si ritrovano all’Hotel Leon d’Oro per l’assemblea di “Progetto nazionale”, laboratorio politico degli orfani del defunto partito Movimento sociale italiano di Giorgio Almirante e diventato braccio operativo di Tosi. In platea per la giornata di idee e dibattiti intitolata “La destra che verrà” ci sono lo scrittore giornalista de “Il Foglio”, Pietrangele o Buttafuoco, il fondatore de “La Destra” e presidente dell’antimafia siciliana, Nello Musumeci, il capogruppo del Carroccio al Senato, Gian Marco Centinaio, e un manipolo di vecchi missini, nomi storici della destra sociale e sopratutto ex skinhead diventati uomini di fiducia del sindaco.

Un’alleanza “verde-nero” che ha dato i suoi frutti: alle ultime elezioni per la guida della città (nel 2012) il leghista Tosi è stato rieletto con il 57 per cento delle preferenze, spinto dalla sua lista civica infarcita di ex fascisti.
Tre anni dopo, Tosi alza il tiro; e l’obiettivo dichiarato del raduno del 7 febbraio è quello di scalare il centrodestra e provare a contendere la leadership del segretario leghista Matteo Salvini.

Per un’impresa del genere servono gli uomini giusti e una ramificazione nazionale: finora sono circa un migliaio gli ex camerati reclutati e per l’importante piazza di Milano vengono scelti l’ex tesoriere dei Nuclei armati per la rivoluzione (Nar), Pasquale “Lino” Guaglianone, e il suo delfino Domenico (detto Mimmo) Magnetta. Entrambi presenti in prima fila nell’incontro di Verona.

Un pedigree da duri e puri che non dispiace a Tosi: Guaglianone è stato condannato a cinque anni per la sua appartenenza ai Nar fondati da Giusva Fioravanti, Francesca Mambro, Franco Anselmi e Alessandro Alibrandi, i terroristi italiani d’ispirazione neofascista che alla fine degli anni Settanta firmano trentatré omicidi e nel 1980 la strage alla stazione di Bologna, costata la vita a ottantacinque persone. Oggi però l’ex estremista è un affermato commercialista che sa muoversi bene negli ambienti che contano nella borghesia milanese fatta di avvocati, notai e lobbisti. Grazie all’appoggio dell’ex ministro della Difesa, Ignazio La Russa, nel 2009 è stato nominato nel consiglio di amministrazione di Ferrovie Nord, la controllata della Regione Lombardia che gestisce le linee locali, e presidente del collegio sindacale di Fiera Milano congressi.

Magnetta, invece, non ha poltrone. Il suo è un curriculum di manovalanza. Ma sempre dura e pura, tanto che muove i primi passi insieme al boss di “Mafia Capitale” Massimo Carminati. È infatti in una notte di aprile del 1981 che il futuro re della piramide criminale romana cerca di scappare all’estero con 25 milioni di lire, diamanti e documenti falsi. Ha ventitré anni ma è già un militante dei Nar, invischiato nella malavita di Roma e ricercato per azione sovversiva e banda armata. A Magnetta, di un solo anno più vecchio, i camerati milanesi affidano il delicato incarico di accompagnarlo oltreconfine, passando dalla frontiera di Gaggiolo, in provincia di Varese. Dove li aspetta la polizia, messa sulla pista giusta da una soffiata.

I due incappano nel posto di blocco e una raffica di proiettili degli agenti stoppa ogni tentativo di fuga. Carminati viene colpito all’occhio e finisce in ospedale. Primo arresto e prima ferita, quella che gli vale il soprannome di “Er Cecato”. Magnetta viene condannato per favoreggiamento, ma la sua carriera criminale già vanta un ricco curriculum: furto, ricettazione, rapina, detenzione illegale di armi, fino al sequestro di persona.

Negli anni successivi, mentre Carminati diventa il “Nero” della Banda della Magliana, lui incappa nella storiaccia brutta del presunto attentato al magistrato milanese antimafia Gianni Griguolo. Accusato insieme al terrorista Mauro Addis, viene condannato a tre anni e dieci mesi dalla Corte di appello di Milano nel 1999 per detenzione abusiva di armi e ricettazione. Nel gennaio 2001 passa agli arresti domiciliari e quattro anni dopo torna in circolazione. Ed eccolo di nuovo a fare comunella con il suo mentore Guaglianone, riabilitato anche lui e candidato nella lista di Alleanza nazionale per le elezioni regionali in Lombardia.

Il seggio sfuma, ma questo non nuoce agli affari, sempre più grossi per il professionista legato a molte società calabresi e all’ex governatore regionale Giuseppe Scopelliti.

Guaglianone finisce indagato nel 2012 dalla Direzione investigativa antimafia di Reggio Calabria insieme ad alcuni suoi soci per lo scandalo del Carroccio e gli investimenti in Tanzania: i rimborsi elettorali del partito venivano investiti in cascate di diamanti, fiduciarie africane, banche levantine e lingotti d’oro.

Dall’inchiesta si scopre che nel suo quartier generale, l’ufficio di via Durini 14, a due passi dalla centralissima piazza milanese di San Babila, c’era una scrivania per l’ex segretario amministrativo della Lega Nord Francesco Belsito, l’uomo dei conti segreti di casa Bossi. Che da qui, accusano i magistrati, gestiva partite molto pericolose, muovendo denaro in un triangolo tra cosche, massoneria ed estremisti di destra. Le indagini non sono ancora chiuse e puntano ad accertare se di queste transazioni era a conoscenza anche il vertice della Lega.

È dalle stanze di via Durini che, nonostante le indagini della Procura calabrese, Guaglianone riparte all’attacco: prima dell’ultimo Natale organizza vari incontri con colleghi e altri professionisti allo scopo di sondare la disponibilità di appoggiare Tosi nella scalata al centrodestra. E c’è un gran via vai in via Durini 14, dove ha sede anche la società “Iniziative Belvedere srl” della quale Magnetta è amministratore e ha della quote di minoranza. Lo scopo? Compravendita di immobili.

Un trasformista questo Magnetta, prima terrorista, poi galeotto; e, nel giro di dieci anni piccolo imprenditore e paladino dell’associazione leghista che lotta contro «un fisco sempre più insostenibile e una burocrazia soffocante». Una missione che va ampliandosi, tanto che dai microfoni di Radio Padania lui si celebra: «Ultimamente mi sono intestardito nella lotta contro le banche, per tutelare i risparmiatori e spingerle a concedere prestiti e fidi».

(clic)

EXPO: la ‘ndrangheta mette le mani su 100 milioni di euro

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Gli appetiti della mafia sui grandi lavori di Expo sono un fatto ormai, tristemente, assodato. Lo testimoniano decine di inchieste giudiziarie e le 46 interdittive della Prefettura che hanno messo in luce i legami tra decine di imprenditori e le famiglie mafiose. Mai, finora, era però stato quantificato il giro di affari sul quale i clan della ‘ndrangheta erano riusciti a mettere le mani. Ecco, ora il dato viene messo nero su bianco dai magistrati della Direzione nazionale antimafia che nella relazione annuale sui clan nel nostro Paese quantificano, con precisione, il volume economico dei appalti e subappalti Expo sui quali i clan erano riusciti a mettere le mani. La cifra è sbalorditiva: cento milioni di euro.
«Alla data del 3 dicembre 2014 la Prefettura di Milano ha emesso 46 interdittive nei confronti di imprese risultate affidatarie di contratti e subcontratti riguardanti o connessi all’Expo – si legge a pagina 310 della Relazione annuale della Dna – per un valore complessivo di circa 100 milioni di euro». Appalti dai quali, proprio in forza alle interdittive firmate dal prefetto Francesco Paolo Tronca, queste imprese sono state successivamente escluse. La cifra complessiva spiega bene perché, nonostante tutti sappiano che l’attenzione dell’antimafia su Expo sia alta, i clan abbiano comunque tentato qualsiasi strada per infiltrarsi nel cantiere: passaggi societari, quote intestate a familiari e prestanome, fantomatiche fusioni aziendali.
Dalla relazione dei magistrati antimafia, guidati dal procuratore nazionale Franco Roberti, emergono altri dati significativi. Il primo sfata definitivamente la «bufala» dei mafiosi arrivati dal meridione alla conquista del Nord.

Solo undici delle ditte «estromesse» dagli appalti provengono dal Sud: un’azienda dalla Campania, sei dalla Calabria e quattro dalla Sicilia. «Le restanti 35 imprese fino ad ora interdette hanno tutte sede legale nell’Italia Settentrionale»: venti in Lombardia, nove in Emilia Romagna, tre in Piemonte, due in Veneto e una in Toscana. «Va ancora evidenziato come l’assoluta prevalenza (ben 32) delle imprese sia infiltrata dalla ‘ndrangheta. Tale dato non fa che confermare la capacità delle cosche calabresi, già più volte accertata in ambito giudiziario, di inserirsi e radicarsi nel tessuto economico di aree diverse da quelle di origine, un tempo ingenuamente considerate munite di anticorpi capaci di resistere alle pressioni criminali». La maggior parte delle imprese incriminate riguarda i lavori per le «infrastrutture stradali», Teem e Pedemontana in particolare: «Con ogni probabilità – scrivono i magistrati – tale scelta è da collegare alla maggiore difficoltà che le forze dell’ordine incontrano nell’eseguire i controlli su cantieri che si estendono per lunghissimi tratti e pertanto non circoscrivibili».

L’altro dato che emerge dalla Relazione 2015 è quello che spiega come i clan siano arrivati (potenzialmente) a mettere le mani sui «100 milioni di commesse». Il sistema utilizzato è quello dello «spezzettamento» dei lavori per evitare i controlli: «La maggior parte dei lavori risulta al di sotto della soglia dei 150 mila euro. Ciò vuol dire che le imprese risultate infiltrate avevano mirato a contratti che, secondo le regole ordinarie (e se non si fossero seguite le regole della tutela rafforzata previste dal Comitato per l’alta sorveglianza delle grandi opere) non sarebbero stati oggetto di controlli».

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