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Giulio Cavalli

Atene chiama #dallapartegiusta

atene_chiama_webAtene chiama. Si avvicina la manifestazione del 14 febbraio a Roma #dallapartegiusta. Cioè a sostegno del popolo greco e del tentativo di Alexis Tsipras e del suo ministro Yanis Varoufakis di rompere la politica dell’austerity della Troika. Per la giornata di oggi – durante la quale si svolgerà a Bruxelles l’importante riunione dei ministri delle finanze dell’Eurozona (Eurogruppo) – presidi, dibattiti, conferenze stampa e volantinaggi a Milano, Napoli, Palermo, Messina, Catania, Follonica, Pisa, La Spezia, Genova, Rimini, Trieste, Padova, Cuneo, Pordenone, Udine, Asti, Lucca, MacerataBologna, Pescara, Parma, Ferrara, Trieste, Mestre, Treviso, Reggio Emilia, Terni, Siena, Livorno, Rovigo, Bari, Firenze, Macerata, Perugia, Biella, Alessandria, Riva del Garda, Rovereto, Trento, Brescia, Ravenna, Ancona (ove alle 17.00 presso l’Anpi parleranno Luciana Castellina e Argiris Panagopulos ), Como. Domani 12 febbraio sarà la volta di Grosseto, Bergamo, Jesi, Passirano Franciacorta, Campobasso. Il 13 febbraio: Torino, Novara.

Il presidio di Roma è previsto oggi, 11 febbraio, dalle ore 18.30 in piazza Indipendenza nei pressi dell’Ambasciata tedesca. Da dove, alle ore 14, di sabato 14 febbraio partirà la manifestazione nazionale che si concluderà con diversi interventi al Colosseo.

Ci sarà una partecipazione attiva e numerosa dei Greci d’Italia alle mobilitazioni odierne. In particolare a Napoli interverrà il Presidente della Federazione delle Comunità e Confraternite Elleniche d’Italia Jannis Korinthios e il presidente della Società Fillellenica Italiana Marco Galdi.

Alla manifestazione di sabato 14 hanno aderito la Cgil, Flc Cgil, Fiom, Arci, Act, Rete della Conoscenza, Forum dei movimenti per l’acqua, Tilt. E come testate Il Manifesto e Left.

 www.cambialagreciacambialeuropa.eu

La continua presa in giro sulle spese militari

Interrogato ogni volta il Governo risponde che verranno riviste le spese militari e invece, di questi tempi, aumentano. Sì: aumentano.

Le spese militari non conoscono austerità. All’interno del budget del ministero dello Sviluppo economico per il 2015, nel capitolo “Partecipazione al Patto atlantico e ai programmi europei aeronautici, navali, aerospaziali e di elettronica professionali”, sono stati stanziati 2 miliardi 800 milioni (200 milioni in più rispetto all’anno scorso) per i caccia Eurofighter e altri investimenti aeronautici (in totale 1,4 miliardi), per le fregate Fremm (778 milioni più 60 di mutui) e il programma di blindati Vbm.

Nonché 140 milioni per il programma pluriennale da 6 miliardi per le nuove navi della Marina. Le organizzazioni Sbilanciamoci e Rete Disarmo hanno calcolato una spesa complessiva, per quest’anno, di 23 miliardi e mezzo.

Dettaglio finale: il fondo per le missioni internazionali di pace, incrementato di 850 milioni (per 2015 e 2016), avrà un canale preferenziale. A differenza degli anni scorsi, infatti, i soldi arriveranno subito, senza bisogno dell’approvazione del Parlamento.

(fonte)

Silenzio, che peccato

Quelli che prima urlavano contro i soldi (putativi) spesi per Greta e Vanessa oggi avrei voluto sentirli strepitare per gli italiani (vip e non) che hanno evaso qualcosa come 741 (settecentoquarantuno, perché in lettere fa un altro effetto) milioni di euro come si apprende dall’inchiesta swiss leaks.

E invece niente. Silenzio, che peccato.

«I napoletani della Tuscolana»

999210Li chiamavano «I napoletani della Tuscolana»: avevano messo su un’organizzazione caratterizzata dall’integrazione tra personaggi di origine campana e noti criminali romani tanto da poter essere considerata una realtà autoctona che si avvaleva però della connotazione camorristica del suo capo, Domenico Pagnozzi, e di alcuni affiliati per poter accrescere la propria forza intimidatrice nella Capitale. I Carabinieri stanno eseguendo un’ordinanza di custodia cautelare in carcere nei confronti di 61 persone, a conclusione di un’indagine che ha portato all’individuazione di un’organizzazione per delinquere di matrice camorristica operante nella zona sudest di Roma. Arresti e perquisizioni sono in corso in varie località di Roma e provincia, Frosinone, Viterbo, L’Aquila, Perugia, Ascoli Piceno, Napoli, Caserta, Benevento, Avellino, Bari, Reggio Calabria, Catania e Nuoro. Gli indagati sono accusati a vario titolo di associazione di tipo mafioso, associazione finalizzata al traffico illecito di sostanze stupefacenti, estorsioni, usura, reati contro la persona, riciclaggio, reimpiego di denaro di provenienza illecita, fittizia intestazione di beni, illecita detenzione di armi, illecita concorrenza con violenza e minacce, commessi con l’aggravante delle modalità mafiose e per essere l’associazione armata. E ci sarebbero stati scambi di favori tra l’organizzazione e il clan di Michele Senese per compiere fatti di sangue. È quanto sarebbe emerso dalle indagini, iniziate nel 2009: tra Domenico Pagnozzi e Michele Senese ci sarebbe stato un sodalizio che non si è spezzato negli anni. Quando si dovevano compiere delitti a Roma, secondo gli inquirenti, ci sarebbe stata la «mano d’opera» che arrivava da Napoli e poi spariva dopo l’omicidio.

I legami con Carminati

E legami c’erano anche con il gruppo di «Mafia Capitale»: «Si tratta di personaggi che si conoscono, non dal punto di vista personale, e si rispettano con un riconoscimento di ruoli tra capi di gruppi che operano sullo stesso territorio». Lo ha affermato il procuratore aggiunto di Roma, Michele Prestipino, sui rapporti tra il gruppo camorristico sgominato dai Carabinieri nella capitale e il sodalizio capeggiato dall’ex Nar, Massimo Carminati. «Non c’è un tavolo di regia – ha aggiunto Prestipino – ma dalle intercettazioni si capisce che c’è contezza dell’altro e ognuno sa dell’esistenza dell’altro gruppo».

Il «Tulipano» sequestrato

C’è anche il bar Tulipano tra i beni sequestrati nel corso dell’operazione dei carabinieri E’ stato proprio il nome del locale di via del Boschetto, nel cuore del quartiere Monti, a dare il nome all’operazione.

Le attività

L’operazione è scattata a conclusione di un’indagine del Nucleo investigativo del Reparto operativo del Comando provinciale Carabinieri di Roma. Nell’ambito dell’operazione sono in corso sequestri di beni per un valore di circa 10 milioni di euro. I beni sequestrati sono riconducibili ad alcuni dei 61 arrestati. In particolare ci sarebbero numerosi esercizi commerciali e società romane, immobili, ma anche rapporti finanziari e veicoli. Per gli inquirenti il gruppo gestiva lo spaccio di stupefacenti in alcune piazze della periferia della Capitale, come Centocelle, Borghesiana, Pigneto e Torpignattara. Durante le indagini sono emerse inoltre episodi di estorsioni e gravi intimidazioni per imporre il volere del clan e per recuperare crediti usurai anche per conto di terze persone. A quanto emerso, inoltre, l’organizzazione intendeva monopolizzare anche il controllo della distribuzione delle slot machines in molti esercizi commerciali della zona Tuscolana-Cinecittà. «Siamo convinti che il gruppo volesse espandere il proprio raggio di azione soprattutto per quanto riguarda le piazze di spaccio di droga». Lo ha detto il comandante provinciale dei carabinieri di Roma, il generale Salvatore Luongo, durante la conferenza stampa sui 61 arresti.

I boss

L’organizzazione era capeggiata, fino al suo arresto per associazione mafiosa e omicidio, da Domenico Pagnozzi, attualmente detenuto in regime di 41 bis , condannato all’ergastolo per l’omicidio Carlino del 2001 e soprannominato «ice» per i suoi occhi di giaccio. Pagnozzi, detto «o professore», è stato condannato all’ergastolo in primo grado lo scorso ottobre perché ritenuto uno degli autori materiali del boss della banda della Marranella Giuseppe Carlino avvenuto a Torvajanica il 10 settembre del 2001. In un primo momento Pagnozzi venne scagionato per insufficienza di prove poi venne incastrato dalla prova del Dna trovata dagli investigatori su un fazzolettino di carta rinvenuto nell’auto abbandonata dai killer dopo l’omicidio. Carlino venne ucciso, secondo quanto ricostruito dalle indagini, per vendicare la morte di Gennaro Senese, avvenuta alla fine degli anni novanta, e fratello di Michele, quest’ultimo anch’egli condannato all’ergastolo e ritenuto il mandante dell’agguato che doveva ristabilire la supremazia sul territorio romano. Anche Massimiliano Colagrande, uomo vicino all’estrema destra e coinvolto nell’inchiesta «Mafia capitale» è tra i 61 arrestati dell’operazione «Camorra capitale» dei carabinieri del Comando di Roma.

Due in manette a Nuoro

Ci sono anche due cognati residenti a Nuoro fra le 61 persone arrestate nell’ambito della maxi operazione che ha smantellato un’organizzazione di matrice camorristica attiva nell’area sud-est della Capitale. I carabinieri del Comando Provinciale di Roma hanno arrestato Calogero Palumbo, di 54 anni, imprenditore di Cerignola, e il cognato Fabrizio Floris, di 46, camionista di Nuoro. I due sono indagati per traffico di droga.

Le reazioni

Il sottosegretario alla Difesa, Gioacchino Alfano, plaude «all’imponente operazione anticamorra dei carabinieri. Il mio più vivo compiacimento al Comandante Generale dell’Arma e a tutti i Carabinieri che hanno partecipato alle fasi di indagine e alle operazioni di arresto di questi malavitosi che hanno assicurato alla giustizia. E il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti: «Desidero ringraziare a nome mio e dell’amministrazione regionale le Forze dell’ordine e la Magistratura per l’ottimo lavoro svolto nella lotta alla criminalità organizzata. Si tratta di un’operazione che dimostra come attuando un ferreo controllo del territorio e indagini scrupolose si possa estirpare il terreno fertile sul quale le organizzazioni mafiose tentano di mettere le radici».

(clic)

Dove per essere almeno schiavo devi avere un’amica

Un articolo da pelle d’oca di Fabrizio Gatti:

pomodo schiavi-2Il padrone ha la camicia bianca, i pantaloni neri e le scarpe impolverate. È pugliese, ma parla pochissimo italiano. Per farsi capire chiede aiuto al suo guardaspalle, un maghrebino che gli garantisce l’ordine e la sicurezza nei campi. “Senti un po’ cosa vuole questo: se cerca lavoro, digli che oggi siamo a posto”, lo avverte in dialetto e se ne va su un fuoristrada. Il maghrebino parla un ottimo italiano. Non ha gradi sulla maglietta sudata. Ma si sente subito che lui qui è il caporale: “Sei rumeno?”. Un mezzo sorriso lo convince. “Ti posso prendere, ma domani”, promette, “ce l’hai un’amica?”. “Un’amica?”. “Mi devi portare una tua amica. Per il padrone. Se gliela porti, lui ti fa lavorare subito. Basta una ragazza qualunque”. Il caporale indica una ventenne e il suo compagno, indaffarati alla cremagliera di un grosso trattore per la raccolta meccanizzata dei pomodori: “Quei due sono rumeni come te. Lei col padrone c’è stata”. “Ma io sono solo”. “Allora niente lavoro”.

Non c’è limite alla vergogna nel triangolo degli schiavi. Il caporale vuole una ragazza da far violentare dal padrone. Questo è il prezzo della manodopera nel cuore della Puglia. Un triangolo senza legge che copre quasi tutta la provincia di Foggia. Da Cerignola a Candela e su, più a Nord, fin oltre San Severo. Nella regione progressista di Nichi Vendola. A mezz’ora dalle spiagge del Gargano. Nella terra di Giuseppe Di Vittorio, eroe delle lotte sindacali e storico segretario della Cgil. Lungo la via che porta i pellegrini al megasantuario di San Giovanni Rotondo. Una settimana da infiltrato tra gli schiavi è un viaggio al di là di ogni disumana previsione. Ma non ci sono alternative per guardare da vicino l’orrore che gli immigrati devono sopportare.

Sono almeno cinquemila. Forse settemila. Nessuno ha mai fatto un censimento preciso. Tutti stranieri. Tutti sfruttati in nero. Rumeni con e senza permesso di soggiorno. Bulgari. Polacchi. E africani. Da Nigeria, Niger, Mali, Burkina Faso, Uganda, Senegal, Sudan, Eritrea. Alcuni sono sbarcati da pochi giorni. Sono partiti dalla Libia e sono venuti qui perché sapevano che qui d’estate si trova lavoro. Inutile pattugliare le coste, se poi gli imprenditori se ne infischiano delle norme. Ma da queste parti se ne infischiano anche della Costituzione: articoli uno, due e tre. E della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Per proteggere i loro affari, agricoltori e proprietari terrieri hanno coltivato una rete di caporali spietati: italiani, arabi, europei dell’Est. Alloggiano i loro braccianti in tuguri pericolanti, dove nemmeno i cani randagi vanno più a dormire. Senza acqua, né luce, né igiene. Li fanno lavorare dalle sei del mattino alle dieci di sera. E li pagano, quando pagano, quindici, venti euro al giorno. Chi protesta viene zittito a colpi di spranga. Qualcuno si è rivolto alla questura di Foggia. E ha scoperto la legge voluta da Umberto Bossi e Gianfranco Fini: è stato arrestato o espulso perché non in regola con i permessi di lavoro. Altri sono scappati. I caporali li hanno cercati tutta notte. Come nella caccia all’uomo raccontata da Alan Parker nel film ’Mississippi burning’. Qualcuno alla fine è stato raggiunto. Qualcun altro l’hanno ucciso.

Adesso è la stagione dell’oro rosso: la raccolta dei pomodori. La provincia di Foggia è il serbatoio di quasi tutte le industrie della trasformazione di Salerno, Napoli e Caserta. I perini cresciuti qui diventano pelati in scatola. Diventano passata. E, i meno maturi, pomodori da insalata. Partono dal triangolo degli schiavi e finiscono nei piatti di tutta Italia e di mezza Europa. Poi ci sono i pomodori a grappolo per la pizza. Gli altri ortaggi, come melanzane e peperoni. Tra poco la vendemmia. Gli imprenditori fanno finta di non sapere. E a fine raccolto si mettono in coda per incassare le sovvenzioni da Bruxelles. ’L’espresso’ ha controllato decine di campi. Non ce n’è uno in regola con la manodopera stagionale. Ma questa non è soltanto concorrenza sleale all’Unione europea. Dentro questi orizzonti di ulivi e campagne vengono tollerati i peggiori crimini contro i diritti.

Non ci vuole molto per entrare nel mercato più sporco dell’Europa agricola. Qualche nome inventato da usare di volta in volta. Una fotocopia del decreto di respingimento rilasciato un anno fa a Lampedusa dal centro di detenzione per immigrati. E la bicicletta, per scappare il più lontano possibile in caso di pericolo. Il caporale che pretende una ragazza in sacrificio controlla la raccolta dei perini a Stornara. Uno dei primi campi a sinistra appena fuori paese, lungo il rettilineo di afa che porta a Stornarella. Meglio lasciar perdere. Per arrivare fin qui bisogna pedalare sulla statale 16 e poi infilarsi per dieci chilometri negli uliveti. Il borgo è una piccola isola di case nell’agro. Alla stazione di Foggia, Mahmoud, 35 anni, della Costa d’Avorio, aveva detto che quaggiù la raccolta, forse, è già cominciata. Lui, che dorme in una buca dalle parti di Lucera, è senza lavoro: lì a Nord i pomodori devono ancora maturare. Così Mahmoud campa vendendo informazioni agli ultimi arrivati in treno. In cambio di qualche moneta.

Oggi dev’essere la giornata più torrida dell’estate. Quarantadue gradi, annunciavano i titoli all’edicola della stazione. Sperduta nei campi appare nell’aria bollente una stalla abbandonata. È abitata. Sono africani. Stanno riposando su un vecchio divano sotto un albero. Qualcuno parla tamashek, sono tuareg. Un saluto nella loro lingua aiuta con le presentazioni. La segregazione razziale è rigorosa in provincia di Foggia. I rumeni dormono con i rumeni. I bulgari con i bulgari. Gli africani con gli africani. È così anche nel reclutamento. I caporali non tollerano eccezioni. Un bianco non ha scelta se vuole vedere come sono trattati i neri. Bisogna prendere un nome in prestito. Donald Woods, sudafricano. Come il leggendario giornalista che ha denunciato al mondo gli orrori dell’apartheid. “Se sei sudafricano resta pure”, dice Asserid, 28 anni. È partito da Tahoua in Niger nel settembre 2005. È sbarcato a Lampedusa nel giugno 2006. Racconta che è in Puglia da cinque giorni. Dopo essere stato rinchiuso quaranta giorni nel centro di detenzione di Caltanissetta e alla fine rilasciato con un decreto di respingimento. Asserid ha attraversato il Sahara a piedi e su vecchi fuoristrada. Fino ad Al Zuwara, la città libica dei trafficanti e delle barche che salpano verso l’Italia. “In Libia tutti gli immigrati sanno che gli italiani reclutano stranieri per la raccolta dei pomodori. Ecco perché sono qui. Questa è solo una tappa. Non avevo alternative”, ammette Asserid: “Ma spero di risparmiare presto qualche soldo e di arrivare a Parigi”. Adama, 40 anni, tuareg nigerino di Agadez, ha fatto il percorso inverso. A Parigi è atterrato in aereo, con un visto da turista. Poi gli è andata male. Dalla Francia l’hanno espulso come lavoratore clandestino. Ed è sceso in Puglia, richiamato dalla stagione dell’oro rosso. “Questo è l’accampamento tuareg più a Nord della storia”, ride Adama. Ma c’è poco da ridere. L’acqua che tirano su dal pozzo con taniche riciclate non la possono bere. È inquinata da liquami e diserbanti. Il gabinetto è uno sciame di mosche sopra una buca. Per dormire in due su materassi luridi buttati a terra, devono pagare al caporale cinquanta euro al mese a testa. Ed è già una tariffa scontata. Perché in altri tuguri i caporali trattengono dalla paga fino a cinque euro a notte. Da aggiungere a cinquanta centesimi o un euro per ogni ora lavorata. Più i cinque euro al giorno per il trasporto nei campi. Lo si vede subito quanto è facile il guadagno per il caporale. Alle due e mezzo del pomeriggio arriva con la sua Golf. E la carica all’inverosimile. “Davvero questo è africano?”, chiede agli altri davanti all’unico bianco. Nessuno sa dare risposte sicure. “Io pago tre euro l’ora. Ti vanno bene? Se è così, sali”, offre l’uomo, calzoncini, canottiera e sul bicipite il tatuaggio di una donna in bikini ritratta di schiena.

Si parte. In nove sulla Golf. Tre davanti. Cinque sul sedile dietro. E un ragazzo raggomitolato come un peluche sul pianale posteriore. Solo per questo trasporto di dieci minuti il caporale incasserà quaranta euro. I ragazzi lo chiamano Giovanni. Loro hanno già lavorato dalle 6 alle 12.30. La pausa di due ore non è una cortesia. Oggi faceva troppo caldo anche per i padroni perché rinunciassero a una siesta. Giovanni si presenta subito dopo, guardando attraverso lo specchietto retrovisore: “Io John e tu?”. Poi avverte: “John è bravo se tu bravo. Ma se tu cattivo…”. Non capisce l’inglese né il francese. E questo basta a far cadere il discorso. Ma il pugnale da sub che tiene bene in vista sul cruscotto parla per lui. Amadou, 29 anni, nigerino di Filingue, rivela lo stato d’animo dei ragazzi: “Giovanni, oggi è venerdì e non ci paghi da tre settimane. Ormai stiamo finendo le scorte di pasta. Da quindici giorni mangiamo solo pasta e pomodoro. I ragazzi sono sfiniti. Hanno bisogno di carne per lavorare”. I tre euro l’ora promessi erano solo una bugia. Ma Giovanni promette ancora. Quando risponde dice sempre: “Noi turchi”. Anche se la targa della macchina è bulgara. E per il suo accento potrebbe essere russo oppure ucraino. “Ti giuro su Dio”, continua il caporale, “oggi arrivano i soldi e vi paghiamo. Tu mi devi credere. Io lavoro come te a Stornara. Non prendo in giro i miei colleghi”. Giovanni abita alla periferia. Un villino di mattoni sulla destra, a metà del rettilineo per Stornarella. Quasi di fronte a un’altra stalla pericolante senz’acqua, riempita di materassi e schiavi.

Sono almeno cinquemila. Forse settemila. Nessuno ha mai fatto un censimento preciso. Tutti stranieri. Tutti sfruttati in nero. Rumeni con e senza permesso di soggiorno. Bulgari. Polacchi. E africani. Da Nigeria, Niger, Mali, Burkina Faso, Uganda, Senegal, Sudan, Eritrea. Alcuni sono sbarcati da pochi giorni. Sono partiti dalla Libia e sono venuti qui perché sapevano che qui d’estate si trova lavoro. Inutile pattugliare le coste, se poi gli imprenditori se ne infischiano delle norme. Ma da queste parti se ne infischiano anche della Costituzione: articoli uno, due e tre. E della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo. Per proteggere i loro affari, agricoltori e proprietari terrieri hanno coltivato una rete di caporali spietati: italiani, arabi, europei dell’Est. Alloggiano i loro braccianti in tuguri pericolanti, dove nemmeno i cani randagi vanno più a dormire. Senza acqua, né luce, né igiene. Li fanno lavorare dalle sei del mattino alle dieci di sera. E li pagano, quando pagano, quindici, venti euro al giorno. Chi protesta viene zittito a colpi di spranga. Qualcuno si è rivolto alla questura di Foggia. E ha scoperto la legge voluta da Umberto Bossi e Gianfranco Fini: è stato arrestato o espulso perché non in regola con i permessi di lavoro. Altri sono scappati. I caporali li hanno cercati tutta notte. Come nella caccia all’uomo raccontata da Alan Parker nel film ’Mississippi burning’. Qualcuno alla fine è stato raggiunto. Qualcun altro l’hanno ucciso.

Padroni senza legge
Dietro il triangolo degli schiavi ci sono gli imprenditori dell’agricoltura foggiana e molte industrie alimentari. Piccole o grandi aziende non fanno differenza. Quando devono assumere personale stagionale per la raccolta nei campi, quasi tutte scelgono la scorciatoia del caporalato. Il compenso per gli stranieri varia da 2,50 a 3 euro l’ora (ai quali però vanno tolti tutti i ’servizi’ per il caporale). Anche per questo gli italiani sono scomparsi da questo tipo di lavoro. Solo una piccola minoranza degli agricoltori interpellati da ’L’espresso’ dice di pagare i braccianti da 4 a 4,50 euro l’ora. Ma sempre in nero e rivolgendosi a caporali. In Veneto e in Friuli un raccoglitore guadagna in media 5,80 euro l’ora più i contributi, se in regola. Oppure da 6,20 a 7 euro l’ora se ingaggiato in nero.

La legge prevede una retribuzione ordinaria di 35 euro al giorno. Per favorire le assunzioni regolari, il governo ha abbassato i contributi che gli imprenditori devono versare di circa il 75 per cento. Mentre il contributo dell’8,54% che il bracciante deve dare all’Inps è rimasto inalterato. I controlli sono inefficaci o inesistenti. Nell’ultimo anno in provincia di Foggia soltanto un imprenditore, a Orta Nova, è stato arrestato per sfruttamento dell’immigrazione clandestina.

I medici accusano: arrivano sani e si ammalano qui
Vivono in condizioni disumane. Proprio in questi giorni decine di abitanti del Ghetto, tra Foggia e Rignano, si sono ammalati di gastroenterite per le pessime condizioni dell’acqua. Ma anche quest’anno, l’Asl Foggia 3 ha rifiutato di mettere a disposizione strutture e ricettari per assistere gli stranieri sfruttati come schiavi nei campi. La denuncia è dell’associazione francese Medici senza frontiere che invece ha ottenuto la collaborazione dell’Asl Foggia 2 per l’assistenza sanitaria e umanitaria nel Sud della provincia. Da tre anni un ambulatorio mobile di Msf visita le campagne tra Cerignola e San Severo. Come se la provincia di Foggia fosse un fronte di guerra. Ci sono un medico, un’assistente sociale e un coordinatore: quest’anno Viviana Prussiani, Carla Manduca e Teo Di Piazza. “Per il terzo anno consecutivo siamo stati costretti a continuare questo progetto”, spiega Andrea Accardi, responsabile delle missioni italiane di Msf: “E ancora una volta nell’estate 2006 ci troviamo di fronte alla stessa situazione: gli stranieri arrivano sani e si ammalano a causa delle indecenti condizioni che trovano nelle campagne. Manca qualsiasi forma di accoglienza. Il sistema economico è totalmente ipocrita e vede la connivenza e il coinvolgimento di tutti gli attori. A partire dal governo e dalle istituzioni locali, ovvero Comuni e prefetture, fino ad arrivare alle Asl, alle organizzazioni di produttori e ai sindacati”.

Nel 2005 Msf ha pubblicato il rapporto “I frutti dell’ipocrisia” sulle drammatiche condizioni degli immigrati sfruttati come schiavi non solo in Puglia. Perché, secondo il tipo di raccolto, situazioni simili si ripetono in Calabria, Campania, Basilicata e Sicilia. Le malattie più gravi sono state diagnosticate negli stranieri che vivono in Italia da più tempo, tra 18 e 24 mesi. Il 40 per cento dei lavoratori nell’agricoltura vive in edifici abbandonati. Oltre il 50 non dispone di acqua corrente. Il 30 non ha elettricità. Il 43,2 per cento non ha servizi igienici. Il 30 ha subito qualche forma di abuso, violenza o maltrattamento

(fonte: L’ESPRESSO)

La sinistra, Mattarella e la minestrina

Nel numero di questa settimana di LEFT (in edicola a partire da ogni sabato) abbiamo voluto vedere “da sinistra” l’elezione del Presidente della Repubblica e i fatti della settimana. Si apre così la mia collaborazione con il settimanale e quindi se cercate LEFT dentro troverete (anche) me. Questo è il mio editoriale di questo numero:

20150130_Left_N42015-800x500Quando ero bambino una volta alla settimana toccava obbligatoriamente la minestrina. Non si sfuggiva: ogni settimana era un supplizio inevitabile condito dall’entusiasmo descrittivo di mia madre che me la impiattava con iperbolici aggettivi ogni settimana nuovi e diversi, eppure ogni settimana era poi sempre solo la solita minestrina. Un mio compagno di giochi, avremo avuto sì e no cinque o sei anni, mi raccontò di essere riuscito a superare la minestra di casa convincendosi che fosse buonissima. «Ma ti piace?», gli chiesi e lui: «No, ma se mi convinco che è buona prima o poi magari la mangio volentieri». Fu così che capii che i problemi sono spesso comuni ma le soluzioni invece sono molto differenti.

Matteo Renzi, in occasione dell’elezione del Presidente della Repubblica, come spesso accade, ha voluto essere la mamma con la minestrina obbligatoria e contemporaneamente l’amichetto furbo che ti aiuta a scamparla, e non stupisce che ci sia riuscito ma atterrisce il come: ha capito che per portare a compimento il proprio processo politico (rivestire di sinistrofila modernità la stantia democristianità) serviva aggiungerci i sapori giusti dell’antimafia, del lutto, della mitezza, di un consono cattolicesimo, e il menù fisso sarebbe stato un successo. E infatti i sempiterni democristiani Fioroni e Rosy Bindi (ma anche qualche forzaitaliota e i nuovicentrodestri) hanno pianto lacrime di gioia sull’elezione di Sergio Mattarella. Dicono che Renzi sia stato bravissimo a trovare un candidato che il centrodestra non poteva non votare, scrivono i giornali in uno spaventoso coro unanime che Renzi ha spaccato il centrodestra, esultano i morotei, esultano i miglioristi, esultano i fanfaniani.

E la sinistra? Non pervenuta: inghiottita nel conformismo del pensiero unico e disarmata dall’odore di incenso. Non sia mai che si parli di un famigliare vittima di mafia uscendo dal pietismo piallante, non sia mai che si metta in discussione un democristiano solo perché democristiano, un cattolico solo perché cattolico, o un politico solo perché riservato: in questo Paese la mediazione al ribasso è una vittoria politica, il servilismo intellettuale un cromosoma trasversale e il dibattito è solo un esercizio stanco da campagna elettorale e così la laicità, la lotta sindacale, i diritti (verrebbe da scrivere: la sinistra) sono stati sospesi per apparecchiare tranquilli al nuovo Presidente.

I resti della “sinistra” (a sinistra del Pd e a sinistra nel Pd) ci dicono che poteva andare peggio, anzi ci invitano a brindare, ad apprezzare l’unità popolare, da Sel addirittura sottolineano che fu quello stesso Mattarella che si dimise per protesta contro Berlusconi e il voto sulla legge Mammì (era il 1990: Matteo Renzi aveva 15 anni, per dire) e che anzi dovremmo tutti concordare sul fatto che l’assenza dal dibattito politico sia un requisito presidenziale obbligatorio. No, scusate, non mi convinco, no: non ha vinto Renzi, ma ha abdicato questa sempre più logora sinistra che non ha gli strumenti culturali per descrivere uno slancio, per riuscire a vivere il momento “politicissimo” delle elezioni presidenziali un po’ più “in alto” di una settenaria riunione condominiale, per raccontare un’altra storia (come si diceva da queste parti prima di diventare tutti così vecchi e fiacchi).

Eravamo ai preliminari con i safari “sinistrosi” tra Syriza e Podemos, ci siamo sorbiti i pavoneggianti delle Leopolde sinistre e ora dovremmo esultare per la minestrina? No, grazie. Grazie, no. Scrive Mark Cirino che «la gente che dorme sotto la coperta del conformismo riposa bene, si fa le sue belle otto ore di sonno, ma fa sogni squallidi». Noi qui facciamo tanto per stare svegli, invece.

Antimafia: la ricetta di Nicola Gratteri

Possiamo dire che finalmente abbiamo raggiunto il bivio: Gratteri ha consegnato le sue proposte per inasprire la lotta alle mafie ora sarà semplice seguire se diventeranno legge.

nicola-gratteriCarcere fino a 30 anni per i capimafia, confisca obbligatoria dei patrimoni, processi più snelli, una nuova agenzia nazionale per la gestione dei beni sottratti alle mafie guidata da un manager e intercettazioni anche all’estero. E ancora: la riforma della polizia penitenziaria, l’inasprimento delle pene per i reati ambientali e la possibilità di utilizzare agenti dei servizi per infiltrare le cosche. È questo il cuore della relazione di 266 pagine che Nicola Gratteri, coordinatore del gruppo di lavoro per la riforma delle norme contro la criminalità organizzata, ha consegnato al Governo.

Un testo che l’esecutivo è pronto a trasformare in un disegno di legge o addirittura in un decreto. Il documento, depositato all’Ufficio legislativo di Palazzo Chigi e consegnata al sottosegretario Graziano Delrio, ogni tema viene affrontato con alcune pagine di spiegazione generale a cui seguono delle vere e proprie schede operative divise in due parti.

Si parte con l’inasprimento delle pene per i reati previsti dal 416 bis che saranno superiori o equiparate a quelle previste per i narcotrafficanti, arrivando a punire chi dirige un clan, dunque i boss, con pene che vanno fino a 30 anni di reclusione. Aumentata anche la pena minima per gli affiliati semplici da punire con “non meno di 12 anni”.

La nuova norma prevede inoltre la confisca “obbligatoria” dei patrimoni frutto del malaffare, da estendere anche ad eventuali complici e soci. Novità anche sul fronte delle intercettazioni – che potranno essere fatte anche all’estero – e della polizia giudiziaria. In questo senso è previsto, oltre a una più stretta collaborazione con i servizi segreti, l’utilizzo di uomini delle forze dell’ordine da infiltrare nelle cosche con modalità operative nuove (c’è ad esempio la possibilità di portare armi con matricola abrasa).

Sul fronte dei processi, poi, sarà prevista l’uso delle videoconferenze: una novità che farà risparmiare circa 70 milioni l’anno, attualmente spesi per gli trasferimenti dei detenuti. Per snellire i processi la commissione pre- che, ad esempio, le eccezioni preliminari (che di solito occupano due o tre udienze) debbano essere presentate dalle difese una settimana prima della prima udienza in maniera tale da essere valutate per tempo da pm e giudici in anticipo rispetto all’inizio del procedimento.

Niente più carte per i difensori che potranno ritirare tutti gli atti del processo digitalizzati direttamente nelle cancellerie delle procure. La polizia penitenziaria, sgravata di alcune incombenze, avrà compiti nuovi. Dovrà infatti dotarsi di un ufficio scorte per la sicurezza dei palazzi a rischio (tribunali, procure, ecc.) e sarà chiamata ad occuparsi in via esclusiva di pentiti e collaboratori di giustizia.

Sarà riformata anche l’Agenzia dei beni sequestrati e confiscati alle mafie che attualmente si trova a Reggio Calabria. Avrà una sede unica a Roma. Sarà guidata da un manager e dotata di personale selezionato con bandi e concorsi pubblici. Altro settore rivoluzionato sarà quello dei crimini contro l’ambiente, che saranno considerati tutti reati penali puniti con il carcere.

Novità anche sulle intercettazioni. La nuova norma mette sullo stesso piano le intercettazioni svolte per i reati ordinari e quelle per i reati di mafia prolungandone i decreti da 20 a 40 giorni. Ci sarà poi una stretta per la pubblicazione delle intercettazioni. Non sarà più possibile pubblicare quelle che non siano “strettamente legate al capo d’imputazione”. Secondo gli estensori della proposta deve esserci un argine tra ciò che appartiene alla vita privata delle persone indagate e quello che è invece collegato al reato e quindi di interesse pubblico.

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