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Giulio Cavalli

Chiesa: ancora inchini sotto la casa di un boss

sant-agata-candeloraUna candelora ferma in un posto in cui non si era mai vista. In sosta dalla tarda mattinata del 4 febbraio fino alla sera, in attesa del fercolo di Sant’Agata che sarebbe poi arrivato dalla salita dei Cappuccini. Il posto in questione non è un luogo qualunque di Catania, ma l’angolo tra via torre del Vescovo e via Antico corso, a pochi passi da via Plebiscito. Il cereo votivo quello degli ortofrutticoli. Propria in quella rientranza, accanto all’incrocio tra le due arterie, in una strada senza uscita, abita Massimiliano Salvoex sorvegliato speciale adesso agli arresti domiciliari accusato dai magistrati di fare partedell’associazione mafiosa etnea con ruoli di rilievo.

Verso la sua abitazione, quando il sole è sceso, la candelora si muove sorretta dai portatori. La grossa costruzione in legno dorato scolpito – detta ‘a signurinadi proprietà del Comune ma gestita dalla relativa corporazione – si spinge lungo la rientranza che non ha sbocchi arrivando a pochi metri dal portone. Lì si ferma e inizia a ballare nella caratteristica annacataSalvo non è un personaggio di secondo piano, tutt’altro. È figlio dell’ergastolano Giuseppe, conosciuto con il diminutivo di Pippu u carruzzeri, e fratello del pluripregiudicato Giampiero, attualmente recluso e in attesa di giudizio perché sospettato di essere uno dei killer della strage di Catenanuova, piccolo paesino dell’Ennese macchiato dal sangue nel 2008.

[…]

Non solo. Secondo quanto promesso dall’amministrazione al Comitato per la legalità nella festa di Sant’Agata tra le novità introdotte per l’edizione 2015 della festa – frutto dell’accordo tra Comune di Catania e Curia , le candelore non avrebbero mai dovuto separarsi, accompagnando sempre il fercolo. E costantemente informata della posizione dei cerei votivi avrebbe dovuto essere la Questura etnea. Ulteriore capitolo di questa vicenda, infine, è quello relativo al sequestro da parte della polizia di 31 batterie di fuochi d’artificio artigianali e abusivi piazzati da ignoti nel prato delBastione degli infetti, area quest’ultima proprio a ridosso dell’abitazione di Salvo. I botti, collocati probabilmente durante la sosta della candelora vicino all’edicola votiva, dovevano forse essere esplosi al passaggio della vara di Sant’Agata. Ma la festa in questo caso non è riuscita.

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Cosa c’entra la Lega Nord con la ‘ndrangheta (a Brescia)

enio-morettiTredici richieste di condanna, un’assoluzione. E le motivazioni, così come la genesi dell’inchiesta, sono nero su bianco nella memoria che il sostituto procuratore Paolo Savio ha consegnato alla corte al termine della sua requisitoria. Che non fa sconti. In aula, in prima fila accanto al suo avvocato, Enio Moretti, ex consigliere regionale della Lega, a processo con altri 13 imputati: per l’accusa sarebbe «il regista» di un sistema illegale basato sull’emissione di fatture gonfiate (milionarie) e crediti d’imposta inesistenti utilizzati da una galassia di società satellite per pagare in modo illecito i contributi dei dipendenti tramite compensazione. Per lui il pm chiede 5 anni e 3 mesi, così come per il fratello Renato.

Pene più lievi per i fratelli Vincenzo (4,2 anni) – ritenuto dall’accusa il «prestanome nullatenente a cui venivano intestate le società di subappalto riconducibili ai Moretti» – e Rocco Natale (4,1 anno) – «molto più che un consulente, un socio: colui che le fatture le emetteva». Per altri nove imputati le richieste di condanna vanno dai 4 ai 20 mesi di reclusione. Non solo. L’accusa vuole la confisca di tutti i beni sottoposti a sequestro preventivo, tra proprietà e conti correnti.
Ma il punto – chiarisce il pm – è capire come si sia arrivati a questo processo. E come l’inchiesta si sia «ribaltata»: era nata per «verificare se la famiglia Moretti fosse vittima di una pesante pressione mafiosa» salvo poi scoprire che «le tre società di Moretti presentavano discrasie patrimoniali pesantissime e venivano cedute in procinto di fallimento ai due fratelli calabresi». Da ostaggio di una presunta estorsione, dunque, i Moretti «diventano protagonisti delle attività illecite: le società esistevano solo sulla carta. E servivano per compensare i contributi».

È il 24 novembre del 2007: secondo la ricostruzione del pm a Orzinuovi prende forma un «tentativo di affrancamento tra una struttura di stampo mafioso in Valtrompia riconducibile ai Piromallo Molè di Gioia Tauro con un altro gruppo criminoso di Oppido Mamertina». A questo summit «partecipa anche Vincenzo Natale». Che il 18 agosto 2008 «viene controllato a Oppido Mamertino con un parente di Francesco Scullino ed Enio Moretti, all’epoca consigliere regionale». E titolare della Conar, che finisce sotto la lente degli inquirenti. L’azienda avrebbe ridotto i costi grazie ai subappalti: ma gli operai erano gli stessi. «Perché ad amministrarle erano i Moretti», incalza l’accusa: «I conti correnti di Vincenzo Natale e delle imprese che amministrava erano esclusiva gestione della Conar».

Eppure nell’agosto 2011 Vincenzo (Cecè), intercettato, chiede aiuto a Enio. «Non ho soldi. Collaboro con te da tanti anni, devo prendere una decisione, non posso più scherzare». «Rocco mi ha detto di non dargli niente, di lasciarlo qua che fa meno danni – riferirà Moretti a un amico – Lui gli dà 1.500 euro al mese, da noi ne prende mille». In un’altra telefonata l’ex consigliere regionale si sarebbe offerto di «fare un piacere» all’amico di un amico, «usando una società, la Conar, che realmente esiste. Gli faccio anche un contrattino, la sistemiamo bene, perché dopo le coperture tanto me le faccio fare da Cecè che mi riconosce le spese». Eppure Moretti si sarebbe lamentato con Rocco («spendiamo troppo») che gli avrebbe mandato un prospetto sui contributi risparmiati. Decine di migliaia di euro.
La parola alle difese il 25 marzo.

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Preso per un fil di ferro il boss Antonino Zampaglione

Antonino Zampaglione
Antonino Zampaglione

Nel pomeriggio odierno, i Carabinieri del Nucleo Operativo e Radiomobile della Compagnia di Reggio Calabria localizzavano e traevano in arresto ZAMPAGLIONE ANTONINO, 66enne, originario di Montebello Jonico, latitante dall’anno 2012 poiché destinatario di un “Ordinanza di esecuzione per la carcerazione” emesso dall’Ufficio Esecuzioni Penali della Procura Generale della Repubblica presso la Corte d’Appello di Reggio Calabria, riconosciuto colpevole dei reati di associazione per delinquere di stampo mafioso operante in Melito Porto Salvo e dell’omicidio volontario di Pangallo Antonino commesso in Montebello Jonico in data 06 febbraio 1990.

Nello specifico, nel corso del controllo del territorio, lo Zampaglione veniva sorpreso dai militari all’interno di una controsoffitta di un’abitazione di proprietà della famiglia Calabrese sita in San Roberto (RC).

L’esordio criminale dello ZAMPAGLIONE ha origini molto risalenti, e corrisponde a una denuncia in stato di fermo di P.G. per riciclaggio di n. 11 banconote di £100.000, provenienti dal pagamento del riscatto per il sequestro di persona in danno di SACCO Maria, avvenuto a Milano il 09/11/1978.

Successivamente, corrente l’anno 2011, a esito dell’attività investigativa svolta dal Comando Provinciale Carabinieri di Torino il latitante veniva colpito dall’ampia operazione di polizia convenzionalmente denominata “Minotauro”: allo ZAMPAGLIONE veniva contestata la commissione di ingenti traffici di droga.

Lo stesso, infine, è stato condannato alla pena definitiva di reclusione di anni 28, con residuo da scontare di anni 24 mesi 9 e giorni 15, nell’ambito dell’operazione “Rose Rosse” condotta dal Comando Provinciale Carabinieri di Reggio Calabria relativa alla Cosca “Iamonte” operante in Melito di Porto Salvo. L’omicidio si incardina nelle dinamiche criminali che segnano da decenni l’area del litorale jonico: in questo caso l’onta perpetrata nei confronti di PIO Domenico, suocero dello ZAMPAGLIONE, veniva dal latitante e dai due cognati – tutti pienamente inseriti nel contesto della cosca PANGALLO-ALAMPI-PIO-ZAMPAGLIONE – lavata col sangue. Nello specifico, l’omicidio PANGALLO era stato mandato e autorizzato da Natale IAMONTE, capostipite della cosca, di cui ZAMPAGLIONE era un fiduciario di assoluta affidabilità.

Grazie alla capacità di osservazione dei militari della Compagnia Carabinieri di Reggio Calabria, era possibile seguire un movimento ritenuto d’interesse operativo: per tali ragioni un’autovettura con a bordo tre soggetti veniva seguita da Catona sino a San Roberto, ove, all’esito di una perquisizione domiciliare, venivano identificati e tratti in arresto il latitante e tre soggetti per procurata inosservanza di pena:

1. Calabrese Francesco, reggino 43enne, coniugato, disoccupato;

2. Calabrese Fortunato, 49enne, fratello predetto, coniugato, operaio A.V.R.;

3. Ciolacu Elena, rumena 33enne, convivente predetto Fortunato, casalinga.

Al termine delle formalità di rito, il latitante e i tre fiancheggiatori sono stati associati presso la Casa Circondariale di Reggio Calabria – San Pietro.

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Il PD è cambiato: ora quelli di Scelta Civica sono di casa

Bisogna scegliere “di competere al centro”: non usa mezze parole il senatore di Scelta Civica Alessandro Maran, appena tornato all’ovile PD. Leggere la sua intervista rende chiara la forma del PD di oggi, e perché non c’entri nulla con l’idea che hanno molti suoi elettori.

«Su lavoro, riforme istituzionali e della pubblica amministrazione. Le nostre idee sono diventate le idee del Pd. Credo sia vero che abbiamo fornito un contributo decisivo alle riforme. Dopodiché…».

Dopodichè?

«Siamo anche consapevoli che nessun passo avanti sarebbe stato possibile se non ci fosse stato Renzi. Senza Renzi non ci sarebbero riforme. E questo dev’essere ben chiaro a tutti».

Ritiene davvero che Renzi sia così essenziale per le riforme?

«Prendiamo il Job act. Tutti sanno che si chiama di fatto Pietro Ichino. Ma tutti sanno anche che senza Renzi quella riforma non avrebbe fatto un solo passo avanti. Oggi la nostra agenda di allora è quella del Pd. Anche di quelli che ci avevano messo ai margini del partito».

Ecco di che pasta siamo fatti:

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Esce oggi Left. Ci sono anch’io.

Ecco l’editoriale di Ilaria Bonaccorsi:

«No, scusate, non mi convinco no: non ha vinto Renzi, ma ha abdicato questa sempre più logora sinistra che non ha gli strumenti culturali per descrivere uno slancio, per riuscire a vivere il momento “politicissimo” delle elezioni presidenziali un po’ più “in alto” di una settenaria riunione condominiale». Così scrive questa settimana su Left lo scrittore e attore Giulio Cavalli, commentando il clima di unanime consenso intorno all’elezione di un ex Dc, Sergio Mattarella,  a nuovo presidente della Repubblica.

A questo è dedicato lo sfoglio di apertura, non al ritorno della Balena bianca ma all’arrivo della Balena tricolore, quella nazionale costruita ad arte da Matteo Renzi. Molte le nostre voci, lo storico Adriano Prosperi,  il politologo Gian Enrico Rusconi, il segretario nazionale della Uaar Raffaele Carcano, la leader radicale Emma Bonino. Tutti preoccupati dall’assenza di laicità nella nostra classe politica, affetta da un “perbenismo”, così lo definisce Emma Bonino, paralizzante.

Qui da noi, come ci racconta Checchino Antonini, l’ipotetica nuova sinistra, non riesce nemmeno, come ha fatto Syriza in Grecia, ad ancorarsi e connettersi con tutti quegli esperimenti di welfare autorganizzato sul territorio: dai medici sociali ai gruppi di acquisto popolari.  Mentre nascono nuove sigle e partitelli dal senso ancora non pervenuto: Italia Unica, Noi Italiani, Popolari per il Sud.

Ci siamo poi occupati di Primavere arabe e di sentire cosa ne pensa di questo e dell’avanzata dell’Isis in Africa, il viceministro degli Esteri Lapo Pistelli. Per continuare con l’intervista di Simona Maggiorelli alla scrittrice angloindiana e premio Pulitzer Jhumpa Lahiri che ci racconta di come si sia innamorata dell’italiano e di cosa abbia rappresentato scrivere il suo primo libro nella nostra lingua: «è avvenuto un cambiamento creativo ma anche personale. In questo nuovo percorso linguistico sono rinata. Spero che questo libro sia un nuovo inizio». E tanto altro, scienza, fiction e altre passioni. Buona lettura.

 

Expo darà lavoro! (gratis)

Giorgio Cremaschi interviene su Expo. Sempre meglio, eh:

NOEXPO22Per quale ragione in una Expo appaltata alle grandi multinazionali del cibo, nella quale affari edilizi, speculazione e corruzione hanno prosperato e che viene ancora presentata come un possibile volano per l’economia del paese, perché in un evento ove tutto è misurato in termini di profitti a breve o differiti, gli unici gratis devono essere i lavoratori?

Con un accordo del luglio 2013, un mese che dovrebbe essere abolito dal calendario sindacale visti i disastri che in esso si son concepiti, l’ente Expo, le imprese e tutte le istituzioni hanno concordato con Cgil, Cisl, Uil che gran parte di coloro che faranno funzionare la Fiera lo faranno gratuitamente. Per l’esattezza circa 800 persone lavoreranno con contratti a termine, di apprendistato, da stagista, che garantiranno un lauta retribuzione dai 400 ai 500 euro mensili.

Siccome i contratti e la stessa legge Fornero sul mercato del lavoro avrebbero previsto condizioni più favorevoli per i lavoratori, si è applicato quel principio della deroga normativa, contro il quale la Cgil si è era spesso pronunciata. Ma questi 800 lavoratori sottopagati sono comunque una élite rispetto a tutti gli altri. Che avranno un orario giornaliero obbligatorio e turni, pare bisettimanali, di lavoro, ma che lo faranno senza alcuna retribuzione. Essi saranno considerati volontari e come tali riceveranno solamente dei buoni pasto quotidiani, per non smentire il significato alimentare dell’evento. Nelle previsioni iniziali questi fortunati avrebbero dovuto essere 18.500, da qui il peana subito scattato sui 20.000 posti di lavoro creati dalla magia dell’Expo. Ora Invece pare che siano meno della metà, per la semplice ragione che lavorare all’Expo non solo non paga, ma costa. Immaginiamo un pendolare che debba accollarsi i costosissimi costi quotidiani del sistema ferroviario lombardo. O addirittura un giovane di un’altra regione che volesse fare questa esperienza a Milano. Per lavorare gratis bisogna godere di un buon reddito e non tutti ce l’hanno.

Eppure a tutto questo ci sarebbe stata una alternativa semplice semplice. Visto che Expo per sua natura è un evento a termine, coloro che la faranno funzionare avrebbero potuto essere assunti con il tradizionale contratto a termine. Lavori sei mesi? Sei pagato per quelli, sono solo, due settimane? Riceverai la tua quindicina. Perché non si è fatto così? Semplice perché in questo modo si sarebbe dovuto spendere molto di più in salari e questo non era compatibile con gli alti costi della fiera. Capisco che questo modo di ragionare possa essere considerato troppo rigido e ancorato a vecchi tabù. C’è un lavoro e si pretende anche un salario, allora si vogliono difendere vecchi privilegi direbbero gli araldi del lavoro flessibile.

#scioperiamo #expo #tav #crisi #fabbriche #scuole #autostrade #stazioni #ruoli#generi #scioperiamotutto verso il #1M pic.twitter.com/W6jh50kDxC

— MilanoSciopera (@MilanoSciopera) 12 Dicembre 2014

Quando l’accordo sul lavoro gratis è stato sottoscritto l’allora presidente del consiglio Enrico Letta disse, facendo eco al presidente della Confindustria Squinzi, che esso era un modello per il paese. La rottamazione renziana sempre rivolta alle nuove generazioni ha lasciato quella intesa intatta, così come hanno fatto Cgil, Cisl, Uil, nonostante le critiche a quel Jobs act che l’accordo Expo già anticipava. Tutte le forze politiche rappresentate in parlamento, escluso il Movimento 5 Stelle, sono consenzienti.

Così l’Expo finirà per essere una vetrina di tutto ciò che non dovrebbe, ma che invece continua a dominare le scelte economiche e sociali del paese. L’Expo sarà la migliore rappresentazione dell’ipocrisia e del gattopardismo che governano la nostra crisi. Sotto lo slogan “Nutrire il pianeta” si lascerà a una multinazionale il compito di spiegare che l’acqua va gestita in ragione di mercato. Si farà l’apologia delle grandi opere senza riuscire neppure a nascondere la speculazione e non solo quella illegale, ma quella ancor più scandalosa sulle aree che è perfettamente consentita. Si lanceranno proclami sui giovani che capaci di operare nella globalizzazione, rimuovendo il fatto che lo faranno solo in cambio di una medaglietta che non varrà nemmeno come accreditamento per altri lavori precari. E ancora una volta tutto, ma proprio tutto sarà a carico del lavoro. In una fiera che si presenta come l’ultimo ballo Excelsior di una globalizzazione in piena crisi, l’Italia che guarda al passato cianciando di futuro troverà la sua vetrina. Che dovrebbe essere accesa proprio il primo Maggio, così trasformando la festa dell’emancipazione del lavoro nella celebrazione del suo ritorno allo stato servile. Ci sono movimenti e forze sindacali che dicono no a tutto questo e che già dalle prossime settimane si faranno sentire, per poi provare a restituire alla Festa del Lavoro il suo antico valore. Fanno benissimo.

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L’antimafia felice (e pop)

Questa mattina devo dire di essermi svegliato con il sorriso dopo avere letto il pezzo di Lorenzo Misuraca. Dentro ci sono molti dei concetti sui cui lavoriamo da anni nei teatri, nelle scuole e nelle piazze e soprattutto c’è una maturità della crescita culturale antimafiosa che sarebbe il momento di praticare:

1907288_583075141799653_4646072990074602939_n-e1423119329629Nella rappresentazione mediatica, il militante antimafia è un eroe solitario che combatte contro un clan, spesso capeggiato da un boss, che possiede una forza di intimidazione e di controllo del territorio soverchiante. Lo schema del racconto popolare si ripete anche nella finzione cinematografica (dal commissario Cattani de La Piovra al commissario Scialoja di Romanzo Criminale) e nella riproposizione rimasticata e semplificata di figure di altra complessità quali Peppino Impastato, Pippo Fava, Giovanni Falcone, Don Pino Puglisi, per citarne alcuni. La figura cristologica dell’eroe solitario che va incontro al martirio, consapevolmente, e che lo accetta come un inevitabile prezzo da pagare per il riscatto del “popolo degli onesti” dal “giogo della mafia”.

Eppure quello non sono io. Quegli eroi non siamo noi. La spinta iniziale a elaborare un immaginario antimafia nuovo, o quantomeno differente, nasce da un istintivo sentimento di estraneità al racconto costantemente riproposto della battaglia culturale e della militanza contro le mafie.

L’associazione antimafie daSud si propone da diversi anni di riformulare il racconto di questa parte di storia del Paese. Un lavoro che si sviluppa lungo due linee programmatiche: la ricostruzione dei pezzi mancanti della memoria collettiva dell’antimafia e la dissoluzione della visione binaria e bidimensionale del conflitto tra valori antimafia e disvalori mafiosi.

Il recupero di memoria, messo in atto soprattutto con inchieste giornalistiche su storie di ‘ndrangheta e anti-‘ndrangheta, o attraverso dossier tematici, è profondamente intrecciato con il tema principale che qui si vuole affrontare: la costruzione di un nuovo immaginario antimafia.[1] Perché sono due tracce che si incrociano e avanzano di pari passo? Per spiegarlo in maniera più piana bisogna partire dal primo stereotipo che volevamo abbattere, quello che ci faceva dire con tanta forza “Quelli non siamo noi”. Si tratta della visione eroica della battaglia antimafia.

Al di là di quanto sia aderente alla realtà delle biografie (spesso il quadro è di tutt’altro tipo), il racconto del soldato che da solo lotta contro l’impero del male produce distorsioni e danni alla stessa lotta antimafia. Solitamente, nel racconto mediatico, l’eroe antimafia è un personaggio solitario, tendente alla depressione, e corrisponde a quello che si potrebbe descrivere come un profilo antisociale. A tal punto che la dimensione politica della sua lotta, anche quando è presente (si pensi ai casi di Peppino Impastato e Giuseppe Valarioti, entrambi militanti comunisti), viene del tutto espunta o rappresentata come un di più all’interno della storia.

Al contrario, i rappresentanti della criminalità organizzata sono descritti come una grande famiglia (certo, violenta e spietata, quando è necessario) dove i legami sono forti e stratificati, dove non mancano le occasioni di convivialità (difficile reperire un film sulla mafia che non contenga una scena ambientata in matrimoni, battesimi o serate al nightclub). L’eroe antimafioso si aggira invece solitario per le strade della città, in preda ai demoni dell’ossessione repressiva nei confronti del boss della storia, assediato dalla paura di essere ucciso da un momento all’altro.

Nella visione dicotomica di cui si diceva prima, scegliere il “pacchetto-immaginario” antimafia significa accettare di diventare estraneo alla propria comunità, rinunciare cioè a quella rete di relazioni e a quel riconoscimento di prossimità che invece spetta a chi sceglie di stare “dall’altra parte della barricata”. È evidente che in un’ottica di sensibilizzazione, soprattutto presso le fasce giovanili, pre e adolescenziali, questo racconto rischia di essere un formidabile boomerang.

La figura di Roberto Saviano – parliamo qui del personaggio pubblico, non della persona – rientra in pieno in quella visione cristologica dell’eroe antimafia. Il suo racconto è probabile che generi molta stima e poca emulazione tra i giovani. Chi farebbe una scelta netta, se quella scelta comportasse la rinuncia ai piaceri della vita e la condanna alla solitudine?

Il racconto binario mafie/antimafie produce così un meccanismo di delega pericoloso. Al tempo dei social network, dell’iper-informazione, sostenere pubblicamente un “eroe antimafia”, firmando una petizione in suo favore, comprando i suoi prodotti culturali, guardando le sue trasmissioni e condividendone su facebook i contenuti, viene assunto come fosse un impegno antimafia in prima persona. Ma in realtà i cambiamenti prodotti tramite il processo di delega all’eroe sono minimi e finiscono con l’indebolire la partecipazione diretta a vertenze reali sul territorio.

Per prima cosa, bisogna raccontare la complessità del contesto in cui si sviluppa la dinamica mafiosa e il suo contrasto. Dicevamo all’inizio: “quelli non siamo noi”. È questa la frase che chissà quanti ragazzi e ragazze hanno pensato di fronte a “lezioni antimafia” frontali, in cui il relatore descrive una realtà dai tratti netti in cui è quasi impossibile riuscire a identificarsi.

Raccontare le zone grigie, i punti di contatto tra legale e illegale, le faglie del sistema, l’assenza dello Stato, le leggi ingiuste che spingono i territori tra le braccia dei clan. Raccontare questo non poteva che produrre in noi e nella nostra comunicazione uno slittamento semantico centrale nel nostro lavoro.

L’ariete per sconfiggere le mafie non era la legalità, concetto pieno di insidie e con una forza centrifuga che conduce inevitabilmente alla visione dicotomica buoni/cattivi, o eroi/antieroi, bensì la giustizia sociale, che porta con sé il valore principale dei diritti che spettano a individui e comunità.

Un’antimafia che mira alla giustizia sociale, che parte dal racconto della complessità, anche dei lati meno rassicuranti e che di questa complessità si fa carico, non può che essere un’antimafia costruita collettivamente, in grado di coinvolgere strati sociali sempre più ampi e vari. Un’antimafia sociale. Un’antimafia che si pone l’obiettivo di raggiungere cerchie sociali e stili di vita che normalmente non provano alcun interesse per la questione, deve fare i conti con un linguaggio pop.

Mentre infatti nell’antimafia tradizionale il concetto di popolare è rilevabile soprattutto come folklore, come rivisitazione inerte di linguaggi che un tempo riuscivano a connettersi col sentire del tempo, e sono diventati strumento di auto-identificazione di una classe colta, per linguaggio pop abbiamo inteso i linguaggi artistici e creativi in grado di comunicare a ampie fette di popolazione, soprattutto giovanile.

Se appunto un certo tipo di immaginario antimafia rimane legato allo stereotipo folk, come la musica cantautoriale, “d’impegno”, il racconto che ci interessa è quello che passa per le culture metropolitane, come il writing, l’hip hop, il fumetto, in grado di agganciare fasce sociali e generazionali altrimenti precluse. Ma perché l’operazione vada a buon fine allo stile deve corrispondere un’adeguata cura della qualità del prodotto culturale.

E qui si arriva ad un altro punto debole dell’immaginario antimafia tradizionale. Così come altre battaglie che partono dal presupposto del miglioramento sociale, della correzione di storture all’interno di una comunità, sovente anche l’antimafia cade nella trappola di pensare che il messaggio sia il medium. In altre parole, che il presupposto alto valore etico della missione di sensibilizzazione, valga per se stesso come una forma di estetica, di qualità essenziale del prodotto.

Ma qualsiasi messaggio che voglia raggiungere utenti inizialmente non interessati, deve avere alcune caratteristiche basiche che nulla hanno a che fare con il suo valore etico. Deve essere “bello”, cioè qualitativamente valido, e deve essere “seducente” per il destinatario, promettergli qualcosa di cui ha bisogno. Al contrario abbiamo assistito e continuiamo ad assistere in parte a un immaginario antimafia sciatto, in molti casi parrocchiale nel tratteggiare il bene e il male, pervaso da una sottile arroganza del messaggio: questo film, questo libro, questo cantante, questo spettacolo, questo dibattito, è un prodotto antimafia, dunque devi farlo tuo, a prescindere dal fatto che sia noioso, banale, esteticamente rozzo.

Questo messaggio non funziona, o meglio: funziona solo con chi è già da questa parte della barricata e fa un consumo dell’immaginario antimafia in forma prevalentemente identitaria e autoconsolatoria. Ma la priorità è la creazione di una massa critica (intendendo con l’aggettivo non solo un livello quantitativo minimo necessario, ma anche la capacità di affrontare in maniera analitica la presenza delle mafie nei territori e i possibili strumenti di lotta), sempre più ampia, attraverso l’utilizzo consapevole di linguaggi creativi e dell’idea puntuale di società che si vuole veicolare.

([1] Cfr. i due volumi di Danilo Chirico e Alessio Magro, Il caso Valarioti, Round Robin, 2010; Dimenticati, Castelvecchi, 2012.)

Eppure gli emiliani andavano a fare campagna elettorale a Cutro (e dei viaggi di Delrio). Seconda puntata.

Ne avevo scritto qui e qualcuno si era offeso. Quindi vale la pena tornare sul tema con il (bel) pezzo di Mario Portanova e David Marceddu:

Graziano Delrio
Graziano Delrio

Il viaggio a Cutro nel 2009 nella cittadina del boss Nicolino Grande Aracri, e soprattutto l’incontro con il prefetto antimafia insieme ai rappresentanti della comunità cutrese. Era il 17 ottobre 2012 quando i pm della Dda di Bologna sentivano, come persona informata sui fatti, Graziano Delrio, allora sindaco di Reggio Emilia, nell’ambito della maxi-inchiesta della procura di Bologna sulla ‘ndrangheta che ha portato all’arresto di 117 persone a fine gennaio. L’attuale sottosegretario alla presidenza del consiglio, braccio destro del presidente del Consiglio Matteo Renzi era stato convocato perché chiarisse i suoi rapporti con la vasta comunità calabrese trapiantata nel reggiano, originaria in prevalenza dal paese in provincia di Crotone, il ruolo dei cutresi nell’economia e nella politica cittadina e il loro atteggiamento rispetto alle pressioni della ‘ndrangheta sulle attività economiche.

Delrio, va sottolineato, non è indagato nell’inchiesta Aemilia. Dai verbali emerge però alcuni tentennamenti da parte dell’attuale sottosegretario nell’affrontare il tema e – stando a quanto dichiara – una conoscenza approssimativa del fenomeno che cozza un po’ con la sua fama di sindaco consapevole e attivo sul fronte dell’antimafia. Era stata proprio la sua amministrazione a commissionare a Enzo Ciconte, uno dei massimi esperti di criminalità organizzata, lo studio “Le dinamiche criminali a Reggio Emilia“, pubblicato nel 2008 e ancora oggi disponibile sul sito del Comune, dove lo studioso citava diversi elementi poi confermati dall’inchiesta Aemilia; l’ascesa criminale di Nicolino Grande Aracri e la penetrazione nell’economia e in particolare nell’edilizia: “Gli ‘ndranghetisti sono stati in grado di condizionare vita ed attività economica di altri imprenditori e commercianti”, scriveva Ciconte sette anni fa, “di costituire società edili in grado di raccogliere appalti da altri imprenditori e di mettere in piedi un sofisticato sistema di false fatturazioni”.

Durante l’audizione i pm vogliono sapere di più sull’incontro in Prefettura con esponenti della comunità cutrese, avvenuto, probabilmente nel 2011. Da alcuni mesi il prefetto Antonella De Miro aveva iniziato a colpire con provvedimenti interdittivi le imprese considerate infiltrate dalla ‘ndrangheta, che quindi perdevano commesse. Delrio racconta di avere raccolto i timori di alcuni esponenti della comunità cutrese su una criminalizzazione della loro gente. “Li ho accompagnati perché il prefetto potesse spiegare le ragioni…”, si legge nel verbale di quella audizione, “perché avessero garanzie che in tutto questo non c’era una vena anti-meridionalista o discriminatoria nei confronti della comunità”. Poi aggiunge una curiosa precisazione sul fatto che tutto gli appariva “superfluo perché il prefetto viene dalla Sicilia”. Nell’inchiesta Aemilia, alcuni degli imprenditori calabresi arrestati sono stati accusati di aver organizzato una campagna di stampa contro lo spesso prefetto, basata proprio sulla presunta discriminazione dei calabresi, e per questo è finito in carcere un giornalista ritenuto compiacente, Marco Gibertini di Telereggio.

L’allora sindaco Pd di Reggio Emilia non ricorda con certezza chi erano gli esponenti della comunità con lui in quell’occasione. Sicuramente c’era l’allora consigliere Pd Salvatore Scarpino. Poi, ma senza certezza, Delrio fa il nome di Antonio Olivo, altro consigliere comunale del Pd. E ancora cita, ma anche in questo caso senza sicurezza, Rocco Gualtieri, consigliere comunale del Pdl. Gualtieri era tra i presenti all’ormai famosa cena organizzata dalla comunità calabrese al ristorante “Antichi Sapori”, durante la quale i il capogruppo Pdlin Provincia Giuseppe Pagliani, poi arrestato nell’operazione Aemilia, incontrò personaggi indicati come capi della organizzazione mafiosa.

Altro argomento toccato dai magistrati, il viaggio di Delrio a Cutro, avvenuto poche settimane prima delle elezioni comunali 2009, quando il primo cittadino uscente si era ricandidato per un secondo mandato. Già ai tempi tra gli oppositori politici ci fu chi vide in quella trasferta in terra di ‘ndrangheta un viaggio per influenzare i voti delle migliaia di cutresi emigrati da decenni a Reggio. Delrio però fin da allora aveva sempre parlato solo di un viaggio istituzionale. Così fa anche coi pm: “Sono andato a Cutro nel 2009 in occasione della festa del Santo Crocefisso che è una festa religiosa molto importante a Cutro. Noi abbiamo un gemellaggio”. Per Delrio niente di strano, tanto che spiega ai magistrati che probabilmente ci sarebbe tornato anche l’anno successivo. A questo punto però i pm fanno notare all’attuale numero due di Palazzo Chigi che Cutro è la città di Nicolino Grande Aracri. “So che esiste Grande Aracri. Nicola non… non lo avevo realizzato”. Poi Delrio prosegue: “Non sapevo che era originario di Cutro. Sapevo che era calabrese, ma non sapevo che fosse originario di Cutro. Perché abita lì nel centro di Cutro? No, io non lo sapevo”. Una più attenta lettura della relazione commissionata dal suo stesso Comune avrebbe colmato la lacuna su un personaggio considerato da anni incontrastato numero uno della ‘ndrangheta in Emilia.

Il sostituto procuratore della direzione nazionale antimafia Roberto Pennisi (che assieme, a procuratore di Bologna Roberto Alfonso e al sostituto Marco Mescolini, ha condotto le indagini) subito ribatte: “Che tutta diciamo così, la criminalità organizzata proveniente da Cutro oggi si ispiri a Nicola Grande Aracri, penso che lo sappia anche lei se ha letto i giornali relativi agli interventi del prefetto”. All’osservazione del pm Pennisi, Delrio sembra tentennare: “Sì, no, però io ho risposto alla sua domanda. Se lei mi chiede: ‘Sa che Francesco Grande Aracri è nativo di Cutro?’ La mia risposta è non lo so, non ne sono sicuro, cioè non lo ricordo francamente. So che è collegato alla ‘ndrangheta legata … diciamo… anche a Cutro”.

Quando i pm chiedono se parlasse mai con la comunità cutrese del clima di omertà che c’era sui temi della criminalità organizzata, Graziano Delrio spiega di averlo detto ripetutamente e di avere spiegato ai cutresi che il rischio di non denunciare può portare a pericolose generalizzazioni. Tuttavia, spiega Delrio, “c’è una specie di reticenza a denunciare e a esporsi, come le ho detto prima, io ne sono consapevole che c’è questa reticenza”.

I pm incalzano Delrio i diversi passaggi, ma agli atti gli riconoscono di avere reagito “in modo duro e molto chiaro” in occasione della pubblicazione di articoli che tendevano a sminuire il problema della ‘ndrangheta a Reggio. Nonostante questo, venerdì 6 febbraio il Movimento 5 stelle in parlamento chiederà le dimissioni da sottosegretario di Delrio perché da sindaco avrebbe dimostrato “sottovalutazione e leggerezza nell’affrontare un tema così delicato”.

Intanto in Calabria il Pd dà il peggio di sé

Bisogna ricostruire il brand della Calabria», dice a “l’Espresso” il governatore Mario Oliverio, eletto il 23 novembre, primo ex comunista nella storia della regione. Lo dice come se davvero fosse esistito un brand Calabria prima dei disastri amministrativi, industriali e criminali che la regione ha dovuto subire negli ultimi decenni.

L’approccio di Oliverio presuppone una dose di ottimismo che non è precisamente una materia che abbonda fra il Pollino e l’Aspromonte. Oliverio stesso, finora, ha fatto ben poco per tenere viva la fiducia degli elettori in un risorgimento che non vuole arrivare e in cui pochi credono.

Ci sono voluti oltre due mesi per nominare una squadra di governo che non è nemmeno definitiva. I quattro nominati lunedì 26 gennaio, due esterni e due eletti in consiglio, non sono esattamente il Dream team. L’ex ministro degli Affari regionali Maria Carmela Lanzetta, responsabile della cultura e delle pari opportunità, è stata strappata al governo Renzi con una manovra di calciomercato a parametro zero degna del Milan di questi tempi. Due giorni dopo si è dimessa perché non gradiva la compagnia degli altri tre.

Enzo Ciconte, Carlo Guccione e Nino De Gaetano sono indagati nella Rimborsopoli calabrese con tutti gli altri consiglieri della legislatura precedente. Ma soprattutto De Gaetano ha rischiato l’arresto per i suoi rapporti con il clan Tegano di Archi. Lanzetta, minacciata dalla ‘ndrangheta, ha detto: o me o lui.

Il match a eliminazione diretta si gioca in un quadro sconfortante. La Calabria è la regione più povera e con più disoccupati d’Italia (23,5 per cento nei primi nove mesi del 2014) è vincolata a un piano di rientro sanitario che fa impallidire l’austerity greca, usa male i fondi mandati dall’Europa e ha un pil di 29 miliardi di euro che è quasi la metà dei ricavi stimati di ‘ndrangheta srl (53 miliardi di euro all’anno).

La partecipazione al voto è ai minimi storici. Alle regionali di novembre è andato alle urne il 44,07 per cento degli elettori. È vero che in Emilia-Romagna non si è raggiunto il 38 per cento. Ma la nuova giunta si è insediata a Bologna un mese dopo. In Calabria la riforma dello statuto ha bisogno di altri sessanta giorni per arrivare in porto e consentire a Oliverio di raggiungere l’obiettivo dichiarato in partenza: un modello presidenziale puro e sette assessori presi tutti da fuori.

A questa squadra, che accentra il lavoro fatto da dodici assessori nella giunta precedente, potrà aggiungersi un membro del consiglio con delega del presidente su questioni particolari ma senza potere di firma. A volerlo tradurre in termini di politica alta, si tratta di separare il potere esecutivo (la giunta), dal potere legislativo (il consiglio). In fondo, anche il capo del governo nazionale non è parlamentare e fa uso di figure fiduciarie mai passate per le urne, come Marco Carrai, o al debutto con la legislatura in corso (Luca Lotti, Yoram Gutgeld, Maria Elena Boschi).

Ma la politica non è sempre alta. Il silano Oliverio, 62 anni, consigliere regionale a 27 anni nel 1980 e assessore all’agricoltura nel 1986, si è comportato come qualunque politico vecchio o nuovo e, una volta al potere, ha patteggiato col nemico, come ha fatto Syriza ad Atene.

Con il Nuovo centrodestra (Ncd) Oliverio ha sfruttato il doppio binario. Prima lo ha escluso dall’alleanza elettorale in quanto partito dell’ex governatore Giuseppe Scopelliti. Vinte le elezioni, il Ncd è rientrato dalla finestra con una vicepresidenza del Consiglio affidata all’ex assessore scopellitiano Giuseppe “Pino” Gentile, sopravvissuto con disinvoltura a una richiesta di espulsione rivolta al segretario-ministro Angelino Alfano dallo stesso Scopelliti, che imputa a Gentile la sua mancata elezione alle Europee dello scorso maggio.

Il neopresidente del Consiglio regionale Antonio Scalzo del Pd, spedito a Roma insieme a Oliverio per votare il nuovo presidente della Repubblica, ha ingaggiato come portavoce Giampaolo Latella, il responsabile dell’ufficio di presidenza calabrese di Forza Italia, assunto pochi mesi fa dalla coordinatrice locale Jole Santelli.

Anche le modifiche allo statuto si sono fatte con l’appoggio in aula del Ncd. Si è gridato all’inciucio ma, in fin dei conti, le larghe intese sono altrettanto larghe in parlamento. Il paradosso è che il governatore calabrese fa uso del renzismo senza essere renziano anzi si è imposto alle primarie sia contro il favorito del premier, Gianluca Callipo, sia contro la nomenklatura democrat, guidata dall’ex craxiano Ernesto Magorno.

Per Oliverio la qualificazione delle primarie, vinte con il 48 per cento, è stata più dura della gara vera e propria, vinta a mani basse con il 61,4 per cento.

L’ex sindaco Pci di San Giovanni in Fiore non ha fatto la fine di Sergio Cofferati in Liguria per il semplice motivo che il Pd calabrese non esiste. In aggiunta, il centrodestra è in piena faida interna e non avrebbe saputo quale avversario identificare a sinistra per appoggiarlo alle primarie Pd, come è accaduto in Liguria e come stava per accadere con il neosindaco di Reggio Calabria, Giuseppe Falcomatà, un altro che flirta moderatamente con re Matteo primo. Lo stesso Scopelliti il 23 novembre ha sostenuto in modo tiepido la corsa a governatore del suo ex amico ed ex legale di fiducia, il senatore Ncd Nico D’Ascola, mentre strizzava l’occhio alla candidata forzista Wanda Ferro, arrivata seconda a distanza abissale dal vincitore.

Dopo avere battuto Ncd e forzisti, i sostenitori di Oliverio si aspettavano un inizio di partita più aggressivo. In fondo, il governatore in carica avrebbe la possibilità di dire di no a tutti per tre motivi. Primo: ha resistito a Renzi e al Pd che lo bollavano come il vecchio che avanza. Secondo: ha stravinto le elezioni quasi da solo. Terzo: ha annunciato che non si ricandiderà.

Questa possibilità è solo teorica. A Roma non possono rischiare che la Calabria, l’antica Magna Grecia, diventi la piccola Grecia d’Italia: una regione periferica povera, sprecona, carica di debiti, che per di più pretende autonomia politica dai suoi finanziatori, lo Stato e l’Europa. Oltre ai problemi di bilancio e di pil, la regione è un palcoscenico del malcostume politico.

Lo scorso aprile la Calabria ha dovuto affrontare le dimissioni del precedente governatore, Giuseppe Scopelliti, per una condanna in primo grado a sei anni. Dopo Scopelliti c’è stato un governo supplente tirato in lungo per sette mesi perché gli eletti sapevano che, a fine legislatura, le poltrone disponibili in consiglio sarebbero scese da cinquanta a trenta. Qualcuno ha persino ipotizzato di eludere il taglio imposto dalla legge Delrio alle regioni con popolazione fra 1 e 2 milioni di abitanti mediante un censimento che ritoccasse la cifra ufficiale (1.958.238). Con centinaia di migliaia di emigrati fuori regione non sarebbe stato difficile. Ma non è aria. Il disgusto per gli imbrogli è già ai massimi così come la pressione della magistratura. A parte Rimborsopoli che è un film proiettato in tutte le aule giudiziarie nazionali, i giudici hanno messo sotto inchiesta in blocco la giunta Scopelliti (2010-2014, centrodestra) per i finanziamenti all’edilizia sociale e tutta la giunta di Agazio Loiero (2005-2010, centrosinistra) per i finanziamenti alle imprese, escluso Loiero che al momento di votare il provvedimento sotto accusa era assente.

All’handicap dato in partenza dagli indicatori economici generali, vanno aggiunte alcune emergenze gravi che Oliverio ha affrontato, come sottolinea lui stesso, da solo e prima di nominare gli assessori. In testa all’elenco c’è il problema dei rifiuti seguito da vertenze occupazionali come quella dell’Infocontact di Lamezia Terme, un grande call-center che rischia di perdere la commessa con Wind e che potrebbe licenziare 1800 dipendenti in un colpo solo.

L’altra patata bollente preliminare all’insediamento della giunta è stata l’istituzione del cosiddetto ruolo unico dei dipendenti regionali. L’eredità dei moti per Reggio capoluogo del 1970-1971, ha spaccato la Calabria in due strutture. Nella città più grande, Reggio, ha sede il consiglio. Nel capoluogo amministrativo, Catanzaro, ha sede la giunta. Ci sono impiegati del consiglio e impiegati della giunta.

«Questa spartizione», dice Oliverio, «impedisce di razionalizzare le risorse come previsto dalla spending review. Spostare un dipendente dalla giunta al consiglio o viceversa equivale a chiedere un distacco dalla regione Lombardia. Poi si è voluto strumentalizzare la mia posizione in modo campanilistico ma ribadisco che la giunta a Catanzaro e il consiglio a Reggio non sono in discussione».

C’è poi la partita delle tante società in-house della Regione, nominifici clientelari che Oliverio definisce «cancerogeni» e sui quali ha promesso un’indagine interna. Un esempio per tutti è la fondazione Calabria etica, creata nel 2002 ma potenziata nell’era Scopelliti con un budget di 25 milioni di euro all’anno, 300 collaboratori a progetto scelti a discrezione della dirigenza e uno stipendio di 4,1 mila euro netti al presidente.

Assi nella manica ce ne sono pochi. Il turismo è allo sbando con un inquinamento marino ai massimi, un aeroporto chiuso (Crotone), uno che potrebbe chiudere (Reggio) e solo Lamezia come alternativa. L’atout individuato da Oliverio è il porto di Gioia Tauro. Peccato che sia in una zona controllata in modo ferreo dalla ‘ndrangheta e che Renzi, proprio per questo, sia molto titubante a investirci. «Gioia Tauro deve diventare una scelta strategica del Paese», ribadisce Oliverio. «E questo presuppone un impegno forte contro il crimine. Sto facendo una ricerca per individuare una figura che dia un segnale netto di questo impegno della giunta contro la ‘ndrangheta».

L’altro elemento di trattativa col potere centrale che ha condizionato la formazione della giunta è la nomina del nuovo commissario alla sanità. La questione, qui, è di sostanza, prima che di forma. Le spese sanitarie sono circa i due terzi del bilancio complessivo della regione. La Calabria vive molto più di impegnative e ricette mediche che di industria, agricoltura e edilizia. La dichiarazione di dissesto ha imposto la nomina di un commissario. Nella precedente legislatura era Scopelliti, controllore di se stesso. Dopo le sue dimissioni nell’aprile dell’anno scorso la gestione è stata affidata al subcommissario Luciano Pezzi, ex generale della Guardia di finanza.

Il conflitto di interessi potenziale è stato risolto a livello nazionale da un provvedimento dello scorso 10 dicembre che dissocia la figura del governatore da quella del commissario straordinario. In un primo tempo, Oliverio ha provato a forzare il passo sostenendo che la norma non può essere retroattiva e che lui era stato eletto prima del 10 dicembre. Ha anche annunciato per due volte – l’ultima il 7 gennaio – di essersi accordato con Roma ma la nomina non si è ancora concretizzata.

Come andrà a finire dipende forse da ulteriori trattative con la dirigenza Pd. Per adesso è stato inserito un emendamento nel “mille proroghe”, è stato modificato il testo e, se la variazione passerà, la sanità tornerà in mano al governatore.

«Non è sete di potere. Ma la gestione del piano di rientro è stata ragionieristica», dice Oliverio con toni che evocano quelli di Alexis Tsipras. «Bisogna riordinare e riqualificare. Non è possibile pensare solo al pagamento degli interessi quando ci sono strutture come l’ospedale Annunziata di Cosenza che hanno sospeso i ricoveri ordinari. Ho parlato con Renzi nei giorni scorsi e da lui ho ricevuto incoraggiamento e sostegno. Del resto, l’ha detto lui che la Calabria è la madre di tutte le battaglie». In effetti, Renzi lo ha detto. Ha detto anche di stare sereno a Enrico Letta, più o meno un anno fa di questi tempi.

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