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Giulio Cavalli

In Emilia il grande onore di ricevere il boss

Roberta Tattini
Roberta Tattini

Nel suo personale e presunto gioco di mafia, che di virtuale non sembra avere un granché, era previsto che Roberta si esaltasse fino alla pelle d’oca nel vedere il boss cutrese Nicolino Grande Aracri fare irruzione a sorpresa nel suo ufficio bolognese di consulente finanziaria («Il sanguinario! Un grande onore perché lui non va…, anche per ragioni di sicurezza…» dice intercettata al telefono con voce rotta dall’emozione). O che prendesse lezioni di arma da fuoco da un altro pezzo grosso della cosca che spadroneggiava in Emilia, Antonio Gualtieri («Quando ti capita di sparare a qualcuno – le dice il boss nell’insolita veste di istruttore -, spara così…»; e Roberta, che frequenta il poligono di tiro: «Però dà un contraccolpo notevole…»).

E perché mai stupirsi, allora, anzi la cosa sembra procurarle brividi proibiti, se un giorno dell’aprile 2012 uno dei fratelli del grande capo Nicolino Grande Aracri, l’avvocato Domenico, sale con lei in auto con un gingillo vagamente inquietante, «… m’hanno portato il detonatore C4 dietro in macchina…», roba utilizzata per gli esplosivi? Il «War game» della consulente finanziaria bolognese Roberta Tattini, 42 anni, è finito in una gelida alba di qualche giorno fa quando, arrestata nella maxi retata di fine gennaio che ha scoperchiato le mille ramificazioni di una ‘ndrangheta a lungo sottovalutata in Emilia, è finita in carcere con l’accusa di concorso in associazione mafiosa.

Tipetto particolare, questa signora brillante, affascinante e spregiudicata, ma terribilmente chiacchierona e di un’ingenuità che lascia allibiti. Dalle sue intercettazioni, gli inquirenti della Dda di Bologna hanno attinto più informazioni che in un confessionale. Un vulcano, Roberta. Al marito Fulvio Stefanelli (indagato), che la invita «a stare attenta», lei replica entusiasta: «Ma ragazzi! Domani è un affare che guadagno un milione di euro!!». E al vecchio padre, pure lui preoccupato, risponde in gergo bolognese: «Oh ragazzuoli, funziona così!!». E come funzionassero le cose, pareva saperlo bene Roberta, stando al quadro che fanno di lei gli inquirenti. «Pur senza farne parte – scrivono -, la consulente bolognese ha contribuito alla realizzazione degli scopi dell’organizzazione mafiosa, mettendosi a completa disposizione di Antonio Gualtieri (cutrese, 51 anni, uno dei capi tra Reggio e Piacenza in stretti legami con la casa madre di Cutro, ndr.), fornendo consulenze e partecipando anche in loro vece ad incontri di gestione di affari del sodalizio in Emilia, Lombardia e Veneto nella totale consapevolezza di dare un apporto a un gruppo organizzato appartenente alla ‘ndrangheta».

Ma è la carica emotiva che impressiona. Come se quel mondo popolato di boss dal curriculum truce e da riti tribali innervati da logiche criminali avesse su di lei l’effetto di una droga. Parla e si muove come in una fiction. Al padre che le chiede con chi abbia a che fare, risponde di getto: «E’ il numero 2 della Calabria, della ’ndrangheta… Comanda tutto a Reggio… Sono imprenditori che rappresentano 140 aziende, no, non droga, sono diversi, però lo sgarro a loro non si fa…».

Adesso rischia grosso, Roberta. Il suo avvocato, Girolamo Mancino, si augura che «la sua posizione possa ridimensionarsi». E cercherà di far passare la linea difensiva della non partecipazione della signora alle logiche del clan («Ha solo seguito alcune pratiche dal punto di vista professionale»). La stessa Roberta, d’altronde, era consapevole della situazione. Con i suoi sodali in affari era stata chiara: «Ricordatevi bene, visto che siete uomini d’onore! Perché ho paura che con il mio sto dentro vent’anni… Io voglio i vostri avvocati, però mi tirate fuori, ebbè, è il minimo…».

(clic)

Per il Vescovo di Ferrara la crisi è colpa dell’aborto

A proposito di laicità:

Luigi Negri
Luigi Negri

È scoppiata la polemica a Ferrara per alcune parole, sulla legge sull’omofobia e sull’aborto, del vescovo Luigi Negri. «La legge contro l’omofobia – ha detto il prelato, vicino a Cl – è un delitto contro Dio e contro l’umanità. La legge sull’aborto invece non ha consentito di venire al mondo ad oltre sei milioni di italiani e la scarsità di figli ci ha fatto sprofondare in questa crisi economica».

Frasi che hanno fatto arrabbiare i Giovani Democratici che, con una lunga lettera pubblicata dalla «Nuova Ferrara», hanno definito «intellettualmente disonesto» il sostenere la tesi «che l’aborto sia responsabile della crisi così come lo è il cercare consensi in materia utilizzando un nervo scoperto come le difficoltà economiche delle famiglie». Contro Negri anche Sel. «Comprendo – ha detto il consigliere comunale Gianluca Fiorentini – che il Vescovo di Ferrara debba coltivarsi il proprio orticello nell’ultradestra cattolica, continuando a contrapporre, in una rinnovata crociata, la sua visione assolutistica a quello Stato laico nato dal Risorgimento e dalla Resistenza. Faccio un po’ più fatica a capire come tutto questo possa aiutare la comunità cattolica ferrarese».

Nell’agosto scorso, il vescovo aveva affisso fuori dalla sua casa una bandiera con il simbolo dei cristiani iracheni perseguitati dalle milizie dell’Isis.

(fonte)

Offendere la reputazione di un “pezzo di merda”

Mariano Agate
Mariano Agate

Si apre oggi presso il Tribunale di Agrigento il processo “farsa” al giornalista Rino Giacalone, cronista siciliano sempre attento e curioso su fatti (e persone) di mafia. Rino è accusato di avere dato del “pezzo di merda” in un suo articolo riferendosi al boss di Mazara Del Vallo, Mariano Agate. Mariano Agate, vale la pena ricordarlo, era l’uomo di Riina per la provincia di Trapani, condannato all’ergastolo per sette omicidi ed è lo stesso per cui (grazie a Dio) sono state rifiutate (dal Questore) le esequie pubbliche e (dal Vescovo di Mazara del Vallo) quelle private.

In giorni in cui si parla molto de La parola contraria vale la pena essere vicino a Rino.

 

Soldi a forma di case, in un momento in cui nessuno compra case

In Emilia la ‘ndrangheta faceva soldi con il mattone, investendo nei cantieri denaro proveniente dagli affari illeciti delle cosche. È aSorbolo, paese parmense a una manciata di chilometri da Brescello, che secondo gli investigatori la “lunga mano” del boss Nicolino Grande Aracri aveva trovato una fonte di guadagno nel mercato immobiliare, con una rete di società che negli ultimi anni ha realizzato palazzi e condomini per un valore di circa 20 milioni di euro. L’obiettivo era produrre ricchezza per poi rimandare i proventi delle operazioni alla casa madre. I soldi viaggiavano da sud a nord e viceversa grazie all’aiuto di autisti compiacenti sugli autobus di linea nelle tratte dalla Calabria all’Emilia. Come si legge negli atti dell’inchiesta Aemilia della Dda di Bologna che il 28 gennaio ha portato all’arresto di 117 affiliati alla ‘ndrangheta, nell’“affare Sorbolo” il modello imprenditoriale seguito era quello emiliano, ma le modalità riproponevano “l’imprinting mafioso”, con l’imposizione di subappalti a ditte vicine alla ‘ndrangheta e di uomini e materiali con cui lavorare.

Tra via Genova e via Marmolada, nel quartiere che mercoledì mattina è stato svegliato dal rumore degli elicotteri e dai fari puntati delle forze dell’ordine, ora una quarantina di appartamenti è sotto sequestro. Le persone che abitano da anni nella zona dicono che si sapeva da tempo che la ‘ndrangheta faceva affari in paese: “Colpa dello Stato, di chi ha dato i permessi, di chi non ha vigilato su queste persone”. Il sindaco Nicola Cesari, da otto mesi alla guida del Comune, ha rassicurato i suoi abitanti e si dice pronto a “collaborare con la giustizia, a vigilare insieme alla comunità per contrastare in futuro qualsiasi forma di illegalità”, ma intanto in pochi hanno voglia di parlare della vicenda: “Non dico nulla, non vorrei che poi mi accoppassero”, mormora un uomo guardando le case sequestrate.

Secondo l’accusa, l’affare fruttava a Grande Aracri 30-40mila euro al mese. E i soldi viaggiavano tra la Calabria e l’Emilia sui bus di linea

Secondo gli inquirenti, a foraggiare i cantieri nell’area ai margini del paese con i soldi dei cutresi era Romolo Villirillo, emissario di Grande Aracri in Emilia, che dall’affare Sorbolo riusciva a fruttare dai 30mila ai 40mila euro al mese. Il sodalizio ruotava intorno al nome di Francesco Falbo, imprenditore sorbolese originario di Cutro che nel 2007 entra in contatto con i fratelli Giulio e Giuseppe Giglio, tutti coinvolti nell’inchiesta. In quel periodo l’imprenditore ha acquistato un lotto di terra per 800mila euro e i due gli si propongono come soci per offrirgli liquidità per cominciare i lavori. Con loro arrivano anche Giuseppe Pallone e Salvatore Cappa, presentato come “socio occulto”, colui che “mette il nero nell’affare”, e Salvatore Gerace, con la funzione di “cassiere” per il gruppo, che nelle amministrative del 2012 aveva tentato la scalata del Comune di Parma come candidato consigliere nelle file dell’Udc dopo un passato da consigliere di quartiere in città. Aurora Building, K1, Gea Immobiliare, Tanya Costruzioni Srl, Medea Immobiliare Srl, Pilotta Srl, Azzurra Immobiliare e Sorbolo Costruzioni sono le società edili con sede tra Sorbolo, Parma e Reggiolo con cui, ricostruiscono gli investigatori, la ‘ndrangheta porta avanti fino all’inizio del 2014 le operazioni immobiliari attraverso soci e prestanome.

Di Sorbolo si interessano anche elementi considerati di spicco nelle cosche emiliane, tra cui Alfonso Diletto, Michele Bolognino e Nicola e Gianluigi Sarcone. Lo stesso boss Nicolino Grande Aracri se ne occupa personalmente grazie al tramite dei suoi affiliati che fanno la spola dall’Emilia a Cutro e Isola di Capo Rizzuto tra riunioni e movimenti di denaro. È proprio la provenienza dei finanziamenti che a un certo punto comincia a destare dei sospetti in Falbo, che rifiuta gli assegni provenienti da Cappa: “Ascolta, a me gli assegni di Cutro per favore, giri strani io non li voglio, ‘sti assegni te li riprendi e mi dai gli assegni come si deve! Ma non so neanche di chi sono!”. L’uomo però subisce le decisioni dei soci: è costretto a pagare una mazzetta di 100mila euro come percentuale per gli appalti ottenuti con le sue imprese e gli vengono imposti mezzi e uomini attraverso Giglio:“Giglio diceva: ‘Allora l’intonaco lo fa lui, la ghiaia la portiamo noi, il materiale te lo compriamo noi’”. A Falbo viene ordinato di assumere due operai affiliati alle cosche con un passato di atti malavitosi, e di affidare gli appalti a imprese “amiche”, ingaggiando per esempio degli imbianchini a un compenso più alto di quello che avrebbe fatto con la sua stessa ditta. In cantiere arriva anche materiale di dubbia provenienza: gru, gasolio “scontato al 30 per cento”, ma anche porte e piastrelle, e perfino camion di ghiaia scadente, mista a terra, tanto che il geometra di Falbo li rimanda indietro. “Il mio geometra li mandava via – racconta l’imprenditore ai pm – ma arrivava la telefonata di Giglio, fai scaricare i camion, la ghiaia così com’è va bene… E in effetti dopo abbiamo avuto dei problemi sulla strada, abbiamo dovuto fare dei rappezzi”.

Quando Falbo si ribella a queste imposizioni, nei suoi confronti cominciano le minacce, fino al recapito di una busta con quattro proiettili: “Guarda che noi le cose le risolviamo alla calabrese, non pensare che tu te le risolvi alla parmigiana! Stai attento a quello che fai!”, e ancora: “C’abbiamo tutti delle famiglie! Attenzione!”. Con la crisi del mercato immobiliare la situazione precipita e Falbo, tra continue intimidazioni, viene estromesso dalla gestione delle società ed è costretto a dimettersi dai suoi incarichi, a cedere quote per 7 milioni di euro e un terreno dal valore di 850mila euro, fino a quando le sue ditte non vengono dichiarate fallite. Quando si decide a denunciare la situazione, per lui comincia l’isolamento, diventa “l’infame che collabora con la giustizia”, anche se per i pm l’imprenditore, coinvolto nell’indagine, non è sprovveduto e vanta appoggi nella consorteria criminale, come la conoscenza dei Sarcone, a cui si rivolge per farsi aiutare nel braccio di ferro con i suoi soci. La sua posizione è da chiarire, anche se per ora risulta non avere avuto vantaggi, ma soltanto perdite dall’operazione.

(fonte)

Un mestiere comodo

Conformismo. È la peggiore delle retoriche: la più torbida e vile. E per molti è un sistema, anzi una professione: diciamo pure un mestiere. Un mestiere comodo.

Massimo Bontempelli, Il Bianco e il Nero, 1987

Otto colpi

mattarella-copyright-letizia-battaglia

In questa foto c’è il destino di un uomo. C’è la storia di una famiglia che è l’attraversamento della Sicilia, c’è il confine fra la vita e la morte. Era ancora vivo, respirava ancora il Presidente della Regione Piersanti Mattarella quando suo fratello Sergio lo stava tirando fuori dalla berlina scura dove era rimasto schiacciato qualche istante prima da otto pallottole. Era ancora vivo quando lui cercava di prenderlo per le spalle e gli sorreggeva il capo mentre la moglie Irma gli spingeva le gambe, spingeva e spingeva senza sentire più il dolore per quelle dita spezzate da uno dei proiettili.

Questa è una foto che racconta molto dei Mattarella, padri, figli, fratelli, c’è dentro la Palermo degli Anni Ottanta, c’è dentro la paura, il prima e il dopo, c’è soprattutto l’attimo in cui cambia per sempre l’esistenza di un tranquillo professore universitario che ha fra le braccia il fratello morente e raccoglie l’eredità di una stirpe politica che con orme assai diverse ha profondamente segnato la vicenda siciliana fin dal dopoguerra. Proprio in qualche secondo è cambiato tutto per il professore Sergio Mattarella, fra le 12,30 e le 13 del giorno dell’Epifania del 1980. Strade quasi deserte dalla Statua fino al teatro Politeama, sole, chiese, campane e spari. Spari nella città dove si faceva politica con la pistola.

Ero lì, quella mattina del 6 gennaio. C’era qualcosa di informe fra quell’auto e l’asfalto, sembrava un manichino ma io – per non volere vedere un altro corpo massacrato di Palermo (capita ai giovani cronisti di «nera») – non distoglievo lo sguardo dalle dita di quella donna, la moglie Irma Chiazzese, l’indice e il pollice della mano sinistra frantumati, i tendini lacerati. Il fratello Sergio aveva la faccia più bianca dei suoi capelli, la figlia Maria si disperava sul sedile posteriore della Fiat 132 coprendosi il volto, il figlio Bernardo era immobile vicino al cancello.
Ero arrivato in via Libertà – la strada delle splendide ville liberty di Palermo che non c’erano più, fatte saltare in aria di notte con la dinamite per costruire palazzi di mafia – qualche minuto dopo Letizia Battaglia, la fotografa di questo scatto. «Chi è, Letizia? Dimmi chi è? Sai il nome?», le ho chiesto sicuro di una risposta. «Non lo so ancora, sono passata di qui e pensavo a un incidente stradale, poi ho visto qualcuno dentro la macchina e mi sono messa a correre e a tremare ». Letizia puntava l’obiettivo della sua camera dentro l’auto, Franco Zecchin – il suo compagno e fotografo anche lui – riprendeva gli uomini e le donne che si stavano radunando in silenzio davanti al marciapiedi di via Libertà numero 147, la casa dove abitava Piersanti Mattarella, allievo di Aldo Moro che stava portando la sua «rivoluzione» in un’isola che non voleva cambiare.

Stavano andando tutti a messa, come in ogni giorno di festa. Tutta la famiglia Mattarella. Soli, la scorta l’avevano lasciata libera. Poi quel «giovane in jeans e giubbotto che saltellava» e che era appena sceso da un’utilitaria bianca, aveva sparato quattro colpi, se n’era andato, era tornato indietro per spararne altri quattro. E poi quella scena, il fratello Sergio che provava a sollevarlo e tratteneva il suo corpo come per trattenere – in quel momento senza saperlo, senza neanche immaginare cosa sarebbe stata la sua vita dal giorno dopo e negli anni a venire – il suo lascito e il suo pensiero. L’eredità. Quella di Piersanti, gravosa e pericolosa. Quella del padre Bernardo ingombrante, molto scomoda. Avveniva tutto inspiegabilmente in mezzo al sangue e in mezzo al terrore, la cognata ferita, i nipoti sconvolti, tutto fra le 12,30 e le 13 di un giorno di Epifania in via Libertà a Palermo. Piersanti il fratello Presidente che voleva nuove regole e pulizia e il padre Bernardo con quelle ombre che scaraventavano in un passato cupo. Il fratello che sognava una Sicilia più libera e le voci sul padre che portavano indietro, a Castellammare del Golfo, patria dei «castellammaresi » che dal 1925 erano diventati re anche a New York, una moglie che si chiamava Maria Buccellato (famiglia di aristocrazia mafiosa), i sospetti sui suoi legami con i potentissimi Rimi di Alcamo, le accuse (mai provate) di Gaspare Pisciotta al processo di Viterbo negli Anni Cinquanta, i dossier del sociologo triestino Danilo Dolci (condannato per diffamazione e amnistiato) sulle sue complicità nel Trapanese, le molte pagine dedicate dalla prima commissione parlamentare antimafia fino alle confessioni più recenti dell’ultimo pentito di Cosa Nostra Francesco Di Carlo.

Ma quel 6 gennaio del 1980 – in verità almeno da un paio di anni prima, quando Piersanti era stato eletto Presidente e subito aveva cominciato a manifestare il suo desiderio di ribaltare una Regione impastata di mafia – e quell’immagine del fratello in fin di vita sono diventate lo spartiacque fra Castellammare del Golfo e Palermo, il passaggio da una generazione all’altra, il cambio di passo. Non era forse proprio quella la ragione – il cambio di passo, la svolta – che aveva fatto ritrovare quella mattina il professore universitario piegato a sostenere il corpo martoriato del fratello? Non era stata forse la decisione e la forza di Piersanti a mettere paura a gente come Vito Ciancimino e a tutti quegli assassini che circolavano per la Sicilia e chissà dove altro ancora? Non lo sapeva ancora il tranquillo professore universitario che quelle otto pallottole rappresentavano non solo, come si diceva allora in Sicilia, un omicidio di tipo «preventivo», quelli che vengono ordinati per eliminare un pericolo imminente. Era anche «dimostrativo », di quegli altri omicidi che servono come monito, che portano sempre una minaccia che raggiunge tutti, omicidi che producono paura. La paura che c’è in questa foto. Prima di andarmene da via Libertà, quel giorno mi sono guardato intorno. A duecento metri avevano ucciso qualche mese prima il capo della squadra mobile Boris Giuliano, a trecento metri il consigliere istruttore Cesare Terranova, a cinquecento metri il segretario provinciale della Democrazia Cristiana Michele Reina. E, a meno di un chilometro, il nostro bravissimo collega Mario Francese.

(Attilio Bolzoni, link)

La sinistra concreta (nel giorno della balena bianca)

Poiché va molto di moda parlare dell’esperienza di “Podemos”, la nuova sinistra spagnola, e poiché mi sembra evidente che sia importante per la propria immagine parlarne (fingendo di saperne) vale la pena leggere questo discorso di Pablo Iglesias pronunciato durante un’assemblea:

podemosSo molto bene che la chiave per comprendere la storia degli ultimi cinque secoli è la formazione di specifiche categorie sociali, chiamate “classi”; è per questo che vorrei raccontarvi un aneddoto. Quando il movimento 15-M ebbe inizio, alla Puerta del Sol, alcuni studenti del mio dipartimento, il dipartimento di scienze politiche, studenti molto politicizzati – avevano letto Marx, avevano letto Lenin – parteciparono per la prima volta nella loro vita a iniziative politiche con persone normali.
Si disperarono. “Non capiscono niente! Proviamo a dirglielo, voi siete proletari, anche se non lo sapete!” Le persone li guardavano come se venissero da un altro pianeta. E gli studenti tornavano a casa depressi, dicendo “non capiscono niente”.
Gli avrei voluto rispondere: “Non capite che il problema siete voi? Che la politica non ha nulla a che fare con l’avere ragione, ma con il riuscire?” Voi potete fare le migliori analisi, comprendere le chiavi di lettura dello sviluppo economico a partire dal sedicesimo secolo, capire che il materialismo storico è la via da seguire per capire i processi sociali. E dopo di questo, cos’è che fate? Urlate a quelle persone “siete proletari e nemmeno ve ne rendete conto”?
Il nemico non farebbe altro che ridervi in faccia. Potete indossare una maglietta con falce e martello. Potete persino portare un enorme bandiera rossa, e tornarvene a casa con la vostra bandiera, il tutto mentre il nemico continua a ridervi in faccia. Perché le persone, i lavoratori, continuano a preferire il nemico a voi. Gli credono. Lo capiscono quando parla. Mentre non capiscono voi. E probabilmente voi avete ragione! Probabilmente potreste chiedere ai vostri figli di scrivere sulla vostra lapide: “Aveva sempre ragione – ma nessuno lo seppe mai”.
Quando si studiano i movimenti rivoluzionari di successo, si può notare con facilità che la chiave per riuscire è lo stabilire una certa convergenza tra le proprie analisi e il sentire comune della maggioranza. E questo è molto difficile. Perché implica il superamento delle contraddizioni.
Pensate che avrei qualche problema ideologico nei confronti di uno sciopero selvaggio di 48, di 72 ore? Neanche per idea! Il problema è che l’organizzare uno sciopero non ha nulla a che fare con quanto grande sia il desiderio mio e vostro di farlo. Ha a che fare con la forza dei sindacati, e sia io che voi siamo insignificanti in materia.
Voi e io possiamo desiderare che la terra sia un paradiso per l’umanità intera. Possiamo desiderare quello che vogliamo, e scriverlo su una maglietta. Ma la politica è una questione di rapporti di forza, non di desideri o di quel che ci diciamo in assemblea. In questo paese ci sono solamente due sindacati che hanno la capacità di organizzare uno sciopero generale: la CCOO e la UGT. Mi piacciono? No. Ma così è come stanno le cose, e organizzare uno sciopero generale è molto difficile.
Ho partecipato ai picchettaggi davanti ai depositi degli autobus a Madrid. Le persone che erano lì, all’alba, sapete dove dovevano andare? A lavoro. Non erano crumiri. Ma sarebbero stati cacciati dal loro posto di lavoro, perché lì non c’erano sindacati a difenderli. Perché i lavoratori che possono difendersi da soli, come quelli nei cantieri navali o nelle miniere, hanno sindacati forti. Ma i ragazzi che lavorano come venditori telefonici, o nelle pizzerie, o le ragazze che lavorano nel commercio al dettaglio, non possono difendersi.
Sarebbero segati immediatamente il giorno dopo lo sciopero. E voi non sarete lì, e io non sarò lì, e nessun sindacato sarà lì per sedersi col capo e dirgli: faresti meglio a non far fuori questa persona perché ha esercitato il diritto di sciopero, perché pagherai un prezzo per questo. Questo non succede, non importa quanto entusiasmo possiamo avere.
La politica non è ciò che io o voi vogliamo che sia. È ciò che è, ed è terribile. Terribile. Ed è per questo motivo che dobbiamo parlare di unità popolare, ed essere umili. A volte dovrete parlare con persone cui non piacerà il vostro linguaggio, con le quali i concetti che voi usate non faranno presa. Cosa possiamo capire da questo? Che stiamo venendo sconfitti da parecchi anni. Il perdere tutte le volte implica esattamente ciò: implica che il “senso comune” sia differente [da ciò che noi pensiamo sia giusto]. Ma non è nulla di nuovo. I rivoluzionari lo hanno sempre saputo. L’obiettivo è riuscire nel deviare il “senso comune” verso una direzione di cambiamento.
César Rendulues, un tipo molto acuto, afferma che la maggior parte delle persone sono contro il capitalismo ma non lo sanno. La maggior parte delle persone difende il femminismo anche se non ha mai letto Judith Butler o Simone de Beauvoir. Ogni volta che voi vedete un padre fare i piatti o giocare con suo figlio, o un nonno spiegare a suo nipote di condividere i suoi giocattoli, c’è più trasformazione sociale in questi piccoli episodi che in tutte le bandiere rosse che potete portare ad una manifestazione. E se falliamo nel comprendere che queste cose possono servire come fattori unificanti, loro continueranno a riderci in faccia.
Quello è il modo in cui il nemico ci vuole. Ci vuole piccoli, mentre parliamo un linguaggio che nessuno capisce, fra di noi, mentre ci nascondiamo dietro i nostri simboli tradizionali. È deliziato da tutto ciò, perché sa che finché continueremo ad essere così, non saremo mai pericolosi.
Possiamo avere toni davvero radicali, dire che vogliamo organizzare uno sciopero selvaggio, parlare di popolo armato, brandire simboli, portare ritratti dei grandi rivoluzionari alle nostre manifestazioni – loro ne saranno deliziati! Ci rideranno in faccia. È quando metterete insieme centinaia, migliaia di persone, quando inizierete a convincere la maggioranza, persino quelli che votavano per il nemico – è in quel momento che inizieranno a spaventarsi. E questo è quel che è chiamata “politica”. Quello che abbiamo bisogno di capire.
C’era un compagno qui che parlava dei Soviet del 1905. C’era un tizio calvo e col pizzetto – un genio. Egli intuì l’analisi concreta della situazione concreta. In tempo di guerra, nel 1917, quando il regime russo era sull’orlo del collasso, disse una cosa molto semplice ai russi, fossero essi soldati, contadini o lavoratori. Egli disse: “Pane e pace”.
E quando disse “pane e pace”, che era ciò che tutti volevano – che la guerra finisse e che si potesse avere abbastanza da mangiare – molti russi che non sapevano neppure se fossero di “destra”o di “sinistra”, ma sapevano di essere affamati, dissero: “Il tizio calvo ha ragione”. E il tizio calvo fece molto bene. Non parlò ai russi di “materialismo dialettico”, gli parlò di “pane e pace”. E questa è una delle lezioni più importanti del ventesimo secolo.
Cercare di trasformare la società scimmiottando la storia, scimmiottando i simboli, è ridicolo. La strada non è quella di ripetere le esperienze di altri paesi, eventi storici del passato. La strada è quella di analizzare i processi, le lezioni della storia. E comprendere in ogni momento della storia che il “pane e pace”, se non è connesso a ciò che le persone sentono e provano, è giusto una ripetizione, come farsa, di una tragica vittoria del passato.