Vai al contenuto

Giulio Cavalli

‘Ndrangheta a Reggio Emilia: 10 milioni sequestrati

La Guardia di finanza di Reggio Emilia ha sequestrato beni per oltre 10 milioni di euro a un imprenditore residente a Montecchio che si ritiene legato alla cosca della ‘ndrangheta dei Grande Aracri. Terreni, fabbricati, aziende, auto e conti corrente che dal cuore dell’Emilia arrivano fino al profondo sud della Calabria, tutti di proprietà di Palmo Vertinelli e della sua famiglia, anche se il 54enne di origine cutrese residente a Montecchio, nel reggiano, dichiarava redditi sulla soglia dell’indigenza. Il provvedimento, emesso ai sensi della normativa antimafia dal Tribunale di Reggio su proposta del procuratore capo Giorgio Grandinetti, riguarda l’imprenditore e i suoi famigliari. Dalle prime ore di mercoledì 21 gennaio i finanzieri del nucleo di polizia tributaria delle Fiamme gialle stanno mettendo sotto sequestro beni riconducibili all’uomo, che sono collocati nel territorio reggiano, parmense, e nella zona di Crotone.

Il sequestro è scattato dopo un’approfondita attività di indagine su Vertinelli da parte degli uomini della Guardia di Finanza, che hanno riscontrato una “conoscenza interessata” di ambienti associativi criminali. Il nome dell’imprenditore era già noto agli inquirenti per la sua vicinanza al clan dei Grande Aracri. Il 54enne era apparso in un’inchiesta antimafia nel 2003, anche se allora venne escluso un suo coinvolgimento con le organizzazioni criminali. A suo carico ci fu anche una denuncia per dichiarazione fraudolenta per un giro di false fatture e infine venne colpito da un’interdittiva della prefettura di Reggio per le sue frequentazioni con la famiglia Grande Aracri, ma anche con altri pericolosi esponenti di Cutro e di Isola di Capo Rizzuto.

Dagli accertamenti della Guardia di finanza è emerso come l’imprenditore dichiarasse redditi molto bassi, quasi sulla soglia dell’indigenza, che gli investigatori hanno definito “neppure sufficienti a coprire la spesa media annua individuata dall’Istat e quindi di far fronte alle normali necessità di sostentamento”, a fronte di un patrimonio personale che è risultato essere molto cospicuo. Da qui la decisione di far scattare il provvedimento. I finanzieri hanno sequestrato quote societarie dell’Impresa Venturelli srl, Edilizia Costruzioni Generali srl, Mille Fiori srl, Bar Tangenziale Nord-Est Sas. Numerosi anche i beni immobili sotto sequestro, tra cui un complesso immobiliare costituito da nove appartamenti e un’autorimessa a Isola di Capo Rizzuto, un terreno a Crotone. A Montecchio (Reggio Emilia) sono stati sequestrati un complesso immobiliare da dieci appartamenti, due autorimesse e un magazzino, due appartamenti e un complesso immobiliare di otto appartamenti e tre autorimesse. Sempre nel reggiano, a Gattatico, è stato posto sotto sequestro un complesso immobiliare costituito tra tre appartamenti e tre autorimesse. Altri sequestri hanno riguardato anche il parmense, dove i sigilli sono stati messi a un complesso immobiliare di tre appartamenti e tre autorimesse e un terreno a Montechiarugolo, a un complesso immobiliare costituito da un appartamento e tre autorimesse a Soragna, e a un appartamento a Busseto.

‘Ndrnagheta: preso Natale Trimboli

Trimboli-Natale-600x400Non ha opposto alcuna resistenza e si è fatto arrestare dai carabinieri ai quali aveva dato prima un nome falso. Dopo 5 anni finisce così, in un appartamento di Molochio nella Piana di Gioia Tauro, la latitanza del boss Natale Trimboli originario di Platì ma ritenuto un “santista” di Volpiano in provincia di Torino. Inserito nell’elenco del Ministero dell’Interno sui ricercati più pericolosi in ambito internazionale, Natale Trimboli aveva un ruolo di primo piano nella cosca Trimboli-Marando di Platì. “Era un personaggio di peso nella criminalità organizzata – ha spiegato il colonnello Falferi – Era l’uomo di collegamento tra le cosche della Locride e il nord Italia”.

Oltre a numerosi anni di carcere per traffico di droga e associazione mafiosa, sulla testa di Natale Trimboli pesa una condanna all’ergastolo per gli omicidi di Antonio e Antonino Stefanelli e Franco Mancuso, trucidati a Torino in un regolamento di conti durante una faida tra famiglie ‘ndranghetiste per il controllo del territorio e del traffico di stupefacenti e di cui non sono mai stati ritrovati i corpi. Casi di lupara bianca sui quali è stata fatta luce grazie alle dichiarazioni del collaboratore Rocco Marando il quale aveva raccontato ai pm come sono state uccise le vittime in risposta all’omicidio di Francesco Marando: “Mio fratello Rosario e Trimboli Natale – è scritto nel verbale – sparano dei colpi di pistola con il silenziatore a Mancuso e al nipote Stefanelli Nino: li colpirono alla schiena. Poi, lo zio Stefanelli Antonino, visto che i due suoi familiari erano stati uccisi, chiedeva pietà e diceva che ad uccidere Francesco era stato suo nipote Nino e Mancuso, dicendo ‘io non c’entro niente’”.

Coinvolto nell’inchiesta “Minotauro” della Dda di Torino, Trimboli da tempo si nascondeva in Calabria. Con lui sono stati arrestati anche tre fiancheggiatori: Natale Altomonte, Santo Surace e Carmine Luci. Quest’ultimo, che ha precedenti di polizia per associazione a delinquere e armi, aveva la disponibilità dell’appartamento dove è stato scovato il latitante. Un appartamento che doveva essere abitato ma i carabinieri da alcuni giorni avevano notato alcuni movimenti all’interno. Insospettiti hanno proceduto a un normale controllo scovando il latitante Natale Trimboli. Fratello dei narcos Saverio e Rocco Trimboli, al momento dell’arresto il ricercato non era armato e il materiale rinvenuto all’interno dell’abitazione ora è al vaglio dei carabinieriche stanno cercando di ricostruire la rete di favoreggiatori che ha consentito al latitante di sfuggire alla giustizia.

 (clic)

Don Inzoli è innocente, indagato, condannato, ora sì, ora no

corriereinzoliPer fortuna c’è qualcuno che ha scritto con chiarezza sulla presenza di Don Inzoli (e soprattutto su Don Inzoli) al convegno organizzato da Regione Lombardia:

Dunque don Inzoli è stato scoperto tra gli spettatori del convegno omofobo patrocinato dalla Regione Lombardia, il che risulta imbarazzante per organizzatori e patrocinatori del convegno, perché don Inzoli è stato accusato di pedofilia. Tutto chiaro? No, non proprio.

Da un punto di vista mediatico, non c’è dubbio che l’identificazione di don Inzoli sia un grosso colpo per chi quel convegno lo stava osteggiando. Si tratta però di un’arma impropria che avrei pudore di impugnare: Inzoli è un privato cittadino che ha il diritto di andare dove vuole. E cosa significa che è “accusato di pedofilia”, come molti organi di stampa hanno scritto il giorno dopo? Lo status di “accusato” non esiste in giurisprudenza, né dovrebbe essere ammesso dal buonsenso, specie quando l’accusa è così grave e infamante. Si è pedofili o non lo si è. Si è pedofili se si è stati indagati, processati, condannati: altrimenti no.

Tra il bianco e il nero è ammessa una sola sfumatura: si può essere indagati per pedofilia. È il caso appunto di don Inzoli, ma chi conduce l’indagine in questione finora è stato talmente discreto che fino a qualche giorno non ero riuscito a trovarne notizia on line (ringrazio chi mi ha aiutato). In questo caso però non solo dovremmo ricordare che siamo tutti innocenti fino a prova contraria, ma che indagini di questo tipo spesso si sono concluse con un nulla di fatto: se a molti probabilmente non dice più nulla il nome di don Giorgio Govoni, morto condannato e in seguito riabilitato, i casi di Brescia o Rignano Flaminio dovrebbero essere a portata di memoria collettiva. Si può essere indagati per tante cose, ma si è innocenti fino a prova contraria: e fino a prova contraria si è liberi di andare ai convegni; non si capisce nemmeno chi ci dovrebbe tenere fuori. Tutto chiaro ora?

No, nemmeno ora.

Il caso di don Inzoli è ancora più complicato. Dichiarandolo “accusato di pedofilia”, i giornalisti semplificano per necessità una questione abbastanza spinosa. Inzoli in effetti è sia innocente che colpevole, una situazione in cui in Italia si può trovare soltanto un sacerdote. Innocente per lo Stato, Inzoli è colpevole per la Chiesa cattolica. La Congregazione della Fede si è già pronunciata sul suo caso non una ma due volte: nel 2012 e poi, dopo un ricorso, nel 2014, con una “sentenza definitiva” in cui si mette nero su bianco la formula “abuso di minori”.

“In considerazione della gravità dei comportamenti – si legge nel documento a firma del cardinale Muller – e del conseguente scandalo, provocato da abusi su minori, don Inzoli è invitato a una vita di preghiera e di umile riservatezza, come segni di conversione e di penitenza”.

L'”umile riservatezza” prescritta dalla Congregazione prevede che Inzoli non possa più celebrare messe in pubblico (può però consacrare l’eucarestia in privato, quindi è ancora un sacerdote). Non può risiedere nella diocesi di Crema e nemmeno “entrarvi”, quasi che ai confini ci fosse ancora una guardia vescovile in grado di respingerlo. Non può attendere ad attività ricreative o pastorali che coinvolgano minori – una norma di buon senso – e deve intraprendere “per almeno cinque anni, un’adeguata psicoterapia”, il che costituisce secondo me una notizia in sé (per la Chiesa la psicoterapia funziona! Chissà se gli psicoterapeuti sono tutti d’accordo).

Quindi, per questa grande e rilevante e autorevole comunità che è la Chiesa cattolica, don Inzoli non è “indagato”, e nemmeno “accusato”, ma è colpevole di gravi comportamenti e responsabile di uno scandalo provocato da abusi su minori. Per questo motivo non può più dir messa, circolare a Crema, e deve fare psicoterapia. Tutto qui? Tutto qui.

Ora i casi sono due: o ci fidiamo della Chiesa, o no. Chi tende a non seguire le sue direttive in materia di etica e sessualità forse dovrebbe prendere con le pinze anche le sue sentenze, che sono tutto quello che sappiamo: non conosciamo le motivazioni, gli atti, nulla. Solo una sentenza nel buio. Se capita ai tribunali della repubblica di condannare preti e laici e poi riabilitarli dopo anni, può succedere anche a questa Congregazione di cui non si sa poi molto.

Se invece ci fidiamo di quello che la Chiesa ci dice su don Inzoli, a questo punto vorremmo capire perché i suoi prudenti pastori, dopo averlo trovato colpevole di tanto scandalo, lo hanno lasciato libero di andare per le strade del mondo, purché fuori dalla diocesi di Crema: senza darsi pena di denunciarlo alle autorità dello Stato in cui vive: uno Stato che ha una sensibilità fortissima per gli abusi di questo tipo, e li sanziona con pene ben più pesanti di un ciclo di terapia. E infatti l’indagine della procura di Crema, quella di cui si sa così poco, è ferma alla fase della rogatoria internazionale. Per conoscere le prove che hanno portato la Congregazione a sospendere don Inzoli, i giudici di Crema hanno dovuto inoltrare una rogatoria in Vaticano. Tutto chiaro? Un prete commette abusi a Crema, un cardinale a Roma lo trova colpevole, un giudice a Cremona deve fare una rogatoria internazionale per scoprire il perché.

Se era un sistema per mettere a tacere la cosa, ha funzionato fino a un certo punto. Certo è impressionante quanto poco si sia parlato, fuori Cremona, di uno scandalo che ha coinvolto un prete già tanto potente e chiacchierato (in questo come in tanti altri casi Mazzetta resta un punto di riferimento prezioso e ormai unico). Allo stesso tempo, imprimere un segno indelebile di colpevolezza su un uomo e poi lasciarlo libero di intrufolarsi ai convegni poteva risultate alla lunga controproducente per la Chiesa che ancora rappresenta, e infatti così è stato. A tutti coloro che combattono quotidianamente contro le ingerenze del Vaticano suggerisco di desistere dal seguire a ruota ogni battutina di papa Francesco – le sta azzeccando tutte, fidatevi – e porre qualche semplice domanda: se un prete è innocente, perché non può più mettere piede in una diocesi? Perché non può più frequentare gli oratori? Se invece è colpevole, e di una cosa tanto grave, perché non lo avete denunciato a un tribunale vero?

Postilla: chiunque condividesse le idee di quel convegno, e ne avesse avuto a cuore la riuscita, e fosse stato presente, e abbastanza intimo con don Inzoli per chiedergli di andarsene per favore, lo avrebbe fatto. Se Formigoni non lo ha fatto, o non era così preoccupato della buona riuscita del convegno, o non è più in grado di farsi ascoltare nemmeno da un suo ex sodale caduto in disgrazia.

(fonte)

“Con una stella d’oro in fronte”: come giura la ‘ndragheta a Roma

E’ un documento straordinario quelle nelle mani degli inquirenti della Capitale. Del codice di San Luca si era parlato in occasione degli arresti dei killer di Vincenzo Femia, quanto il pentito Gianni Cretarola aveva iniziato a vuotare il sacco. Un codice criptato utilissimo alle inchieste di Polizia e Guardia di Finanza che hanno messo sotto scacco l’intera organizzazioni della ‘ndrangheta che a Roma aveva messo radici profonde. “Una bella mattina di sabato Santo, allo spuntare e non spuntare del sole, passeggiando sulla riva del mare vitti una barca con tre vecchi marinai, che mi domandarono cosa stavo cercando…”. Si legge nel codice tradotto dagli investigatori. A testimonianza che le cosche calabresi hanno fatto della Capitale una base operativa importante, trapiantando in blocco piombo, sangue, tradizioni e riti. Cretarola, saltando il fosso ed è andato a ingrossare le fila dei collaboratori di giustizia. A casa sua gli agenti di Renato Cortese sequestrarono nei mesi scorsi, tra l’altro, tre fogli scritti a mano in un alfabeto che sembrava un mix di cirillico e arabo. Il pentito su quegli strani geroglifici aveva fatto spallucce e i poliziotti avevano dato il compito di tradurli a due colleghi appassionati di enigmistica. Niente programmi software di lettura incrociata, niente consulenti d’alto livello, solo olio di gomito, passione e un po’ di intuito. Così è saltato fuori il senso di quei disegni incomprensibili. Ad esempio: “Come si riconosce un giovane d’onore? Con una stella d’oro in fronte, una croce da cavaliere sul petto e una palma d’oro in mano. E come mai avete queste belle cose che non si vedono? Perché le porto in carne, pelle e ossa”. Parole che affondano le radici nel mito dei tre vecchi, fondatori della tre mafie: Osso, Malosso e Carcagnosso. A quel punto il collaboratore di giustizia si è aperto ed ha iniziato a raccontare nei dettagli l’affiliazione alla cosca, avvenuta nella calzoleria del carcere di Sulmona e che l’avrebbe portato a occupare un ruolo stabile nella gerarchia della ‘ndrangheta. Prima picciotto, poi sgarrista, e via via santista, vangelista, quartino, trequartino, padrino e capobastone. Nella ‘ndrangheta si entra per nascita o per battesimo e anche i figli dei boss, fino a 14 anni, sono “mezzi fuori e mezzi dentro”. Nell’ordinanza che lo accusa di aver partecipato all’omicidio di Femia si legge: “Per il battesimo ci vogliono cinque persone, non di più non di meno ma nella calzoleria ce n’erano solo due, oltre a me. Gli altri erano rappresentati da fazzoletti annodati”. E ancora: “Il primo passo è la formazione del locale, una sorta di consacrazione che, alla fine del rito, verrà rifatta al contrario”. Quindi il rito: “Se prima questo era un luogo di transito e passaggio da questo momento in poi è un luogo sacro, santo e inviolabile”. A quel punto il solito “tributo simbolico di sangue”. In mancanza di un coltello, in carcere, il “puntaiolo” impugna un punteruolo da calzolaio. È il novizio che deve pungersi da solo, se non ci riesce al terzo tentativo, l’auspicio è pessimo e bisogna rinviare di sei mesi. Cretarola ci riuscì, successivamente le formule: “A nome dei nostri tre vecchi antenati, io battezzo il locale e formo società come battezzavano e formavano i nostri tre vecchi antenati, se loro battezzavano con ferri, catene e camicie di forza io battezzo e formo con ferri, catene e camicie di forza, se loro formavano e battezzavano con fiori di rosa e gelsomini in mano io battezzo e formo…”. Il picciotto è fatto, e anche il suo destino, che lo ha portato dritto dietro le sbarre.

(fonte)

Schermata-01-2457043-alle-10.23.56

‘Ndrangheta: “allarmante potenza di fuoco”. A Roma.

Un gruppo criminale autonomo, ma con radici solide nel cuore della ‘ndrangheta, San Luca. Una rete di ‘ndrine, che si incrociano con gli alberi genealogici delle cosche più conosciute e potenti, pronta a prendersi la capitale d’Italia. E una strategia ben chiara: “Stare sotto traccia e non mischiarsi con nessuno”. L’organizzazione colpita oggi dalla Squadra mobile di Roma e dal Gico della Guardia di finanza è la conferma della centralità di Roma nella geografia criminale italiana. Accanto alla Lombardia, alla Liguria, all’Emilia Romagna – regioni dove la presenza della ‘ndrangheta è ormai confermata da moltissimi atti giudiziari – ecco apparire nella sua chiarezza la cosca capitale. Autonoma, invisibile, ma obbediente alle formule più antiche e tradizionali. Con riti di affiliazione celebrati nelle carceri laziali o nelle periferie romane, a pochi passi dagli antichi santuari e dal Raccordi anulare.

Svelati almeno tre gruppi di ‘ndrangheta
I trenta arresti nascono da due inchieste che si sono coordinate negli ultimi due anni. La prima – condotta dalla Mobile guidata da Renato Cortese – aveva messo a fuoco l’omicidio di Vincenzo Femia, ‘ndranghetista di peso ucciso dalle parti del Divino Amore il 24 gennaio 2013. La seconda inchiesta – in mano al Gico della Guardia di Finanza, diretto dal colonnello Gerardo Mastrodomenico – era partita da una sofisticata intercettazione di una rete segreta di BlackBerry, usata da un gruppo criminale per movimentare centinaia di chili di cocaina. Un sistema pensato per essere impenetrabile, bucato grazie ad un pin code finito nella mani dei finanzieri.

Indagini, queste, che hanno portato alla luce almeno tre gruppi di ‘ndrangheta ormai radicati e attivi nel cuore di Roma: i Pizzata-Pelle-Crisafi (formato da Giovanni Pizzata, Bruno Crisafi, Massimiliano Sestito, Gianni Cretarola, Francesco Pizzata, Antonio Pizzata, Antonio Angelo Pelle, Andrea Gusinu, Salvatore Manca, Stefano Massimo Fontolan, Mario Longo), i Crisafi-Martelli (organizzazione finalizzata alla gestione della rete del narcotraffico ramificata in Italia, Colombia, Spagna, Olanda e Marocco, costituita da Bruno e Vincenzo Crisafi, Luigi Martelli, Renato Marino, Adamo Castello) e i Rollero (costituita da Marco Torello e Andrea Rollero, Giuseppe D’Alessandri, Giuseppe Langella, Roberta D’annibale).

Il codice San Luca
Vincenzo Femia era considerato il referente dei Nirta di San Luca nella capitale. Attivo nel traffico della cocaina, commette un errore imperdonabile: staccarsi troppo dalla casa madre, quasi una replica della scelta che era costata la vita a Carmelo Novella, il boss ucciso in un bar di San Vittore Olona nel 2008. Il 24 gennaio 2013 il suo corpo viene ritrovato nella campagna a sud di Roma, a pochi passi dal santuario del Divino amore. Subito fu chiaro che quello era un omicidio più che eccellente.

A luglio, dopo pochi mesi, arriva la prima svolta nelle indagini, con l’arresto di Gianni Cretarola. Il suo è un profilo di ‘ndranghetista di peso, con alle spalle una lunga serie di reati commessi in Liguria, regione dove era cresciuto. Bastano pochi giorni di carcere e inizia a collaborare.  Poco dopo l’arresto, nella sua abitazione la Polizia sequestra un documento in codice, una serie di segni apparentemente indecifrabili. Cretarola – durante uno dei primi interrogatori – prende la penna e un foglio: “ecco la chiave”, la matrice per leggere quello che verrà ribattezzato “il codice di San Luca”. “Una bella mattina di sabato Santo – era l’incipit del documento – allo spuntare e non spuntare del sole passeggiando sulla riva del mare vitti una barca dove stavano tre vecchi marinai che mi domandarono cosa stavo cercando. Io gli risposi sangue e onore Mi dissero di seguirli che l’avrei trovato Navigammo tre giorni e tre notti fino ad arrivare nel ventre del isola della Favignana”. In altre parole un estratto della mitologia ‘ndranghetista, ad uso e consumo degli affiliati.

L’affiliazione nel cuore della capitale
Cretarola racconta tutto, legami, riti, affari. Ma, soprattutto, riferisce che “la caratteristica del gruppo era la forza militare”. Tantissime le armi a disposizione, un arsenale che in parte è stato sequestrato durante le indagini e le perquisizioni scattate dopo gli arresti del 20 gennaio. Disegna, poi, l’organigramma preciso della ‘ndrina: “Giovanni Pizzata era “capo società”, Massimiliano Sestito “contabile”, e lui il “mastro di giornata”. Recita a memoria – nei suoi interrogatori – la formula di affiliazione che ha imparato nel carcere di Sulmona, dove è formalmente entrato nell’organizzazione: “Buon vespro, siete conformi?…a battezzare il locale e formare società”), quindi battezzò il nuovo affiliato (“se loro battezzavano co’ ferri, catene e camicie di forza io battezzo co’ ferri, catene e camicie di forza. Se loro battezzavano co’ gelsomini e fiori di rose in mano io battezzo con gelsomini e fiori di rose”. Rito che ricalca alla perfezione le formule raccontate in centinaia d’inchieste calabresi. Accanto alla potenza di fuoco, ecco dunque apparire – nel cuore della capitale d’Italia – l’essenza stessa della ‘ndrangheta, il patto di sangue, l’affiliazione con l’organizzazione mafiosa più pericolosa al mondo. Il legame con San Luca, ovvero la mafia calabrese che fattura miliardi di euro, superando di gran lunga le principali aziende italiane.

Il killer di Femia affiliato in carcere a Sulmona
Cretarola ha spiegato poi ai magistrati che il suo ingresso nella ‘ndrangheta ha avuto la particolarità di vedere tre padrini di tre diverse province, dandogli un lasciapassare riservato a pochi. Quando il pm gli ha chiesto se era stato “affiliato formalmentealla ‘ndrangheta?” Cretarola dice: “Certo, certo, certo”. Affiliazione avvenuta “in carcere a Sulmona nel 2008 da Massimo Sestito, Fedele Rocco e Bono Michele”. Alla domanda del pm sulla provenienza Cretarola risponde: “di Sant’Eufemia d’Aspromonte, Rocco Fedeli e Serra San Bruno – Bono Michele e Massimo Sestito – Gagliato, fa riferimento a Gagliato nonostante è nato a Milano. La conclusione degli inquirenti che si stratta di “tre famiglie, addirittura di tre zone diverse“. Sì, “per avere la possibilità di muoversi in tutte le province ed essere riconosciute in tutte le province” la spiegazione.

Il gip che ha firmato l’ordinanza di custodia cautelare non ha dubbi: a Roma agiva un “nucleo operativo e direzionale convergente, “rappresentato da soggetti di elevatissimo spessore criminale di ascendenza ‘ndranghetistica, stabilmente dediti al traffico internazionale di stupefacenti ai massimi livelli, e caratterizzato, nel contempo, oltre che dal qualificato contesto criminale di appartenenza, dalla disponibilità di armi e da allarmante potenza di fuoco”. Benvenuti a Roma, provincia di San Luca.

(clic)

Il ‘Codice di San Luca’. A Roma.

Una ‘ndrina che operava in collegamento con i referenti in Calabria, riconducibili alla cosca dei Pizzata. E sarebbero stati proprio esponenti di questa cosca ad uccidere a Roma nel gennaio dello scorso anno Vincenzo Femia, boss di San Luca considerato referente della cosca Nirta-Scalzone nella capitale.

L’operazione, coordinata dalla Dda, ha portato a una trentina di arresti, al sequestro di 600 chili di cocaina e hashish, armi e un manoscritto contenente i riti di affiliazione alla ‘Ndrangheta. Il documento, denominato ‘Codice San Luca‘, era composto da una serie di appunti che sono stati decifrati dagli investigatori. A eseguire le misure e le perquisizioni ordinate dai pm 400 agenti della Polizia e della Guardia di Finanza. Agli indagati sono contestati, oltre l’omicidio di Femia (avvenuto a Roma il 24 gennaio del 2013), alcuni ferimenti e diverse estorsioni.

Femia da anni era uno degli esponenti di spicco e referenti della ‘ndrangheta su Roma da vent’anni. Quando fu ucciso gli inquirenti parlarono di ”un personaggio di primo piano” nella malavita della Capitale, con diversi precedenti tra cui associazione mafiosa e appartenente alla cosca di San Luca, conosciuta per la strage di Duisburg in Germania nel 2007. Femia, originario di Reggio Calabria residente nel quartiere di Montespaccato, era sorvegliato speciale. Il presunto killer fu arrestato nel luglio del 2013 e aveva iniziato a collaborare, l’ipotesi degli inquirenti è che dietro l’omicidio ci fosse il progetto criminale per la creazione di una nuova ‘locale’ della ‘ndrangheta a Roma. Alla quale la vittima si sarebbe opposto. Successivamente erano arrestati altri due uomini, accusati del delitto.

(clic)

3707 (tremilasettecentosette)

È un allarme grandissimo, ma pare passi come notizia secondaria: 3707 minori migranti sono spariti in Italia. È gravissimo. Un numero enorme: quattro cifre che rappresentano, due occhi bambini che hanno visto di tutto e girano, soli, col freddo, chissà dove, alla ricerca di una vita possibile.

Sono ragazzi entrati nel nostro paese ed è quindi nostro dovere occuparci di loro, è nostro dovere accorciare i tempi che intercorrono tra lo sbarco, la nomina di un tutore e l’accoglienza definitiva. Si tratta di ragazzi che hanno alle spalle viaggi allucinanti ed esperienze drammatiche, arrivati in un paese sconosciuto, con il problema aggiuntivo di dover restituire i soldi che si sono fatti prestare per il viaggio. Ovviamente sono facile preda per le organizzazioni criminali del nostro paese. Arrivano dall’Afghanistan, dal Bangladesh, dall’Egitto, dalla Tunisia, dalla Nigeria, dalla Somalia e dall’Eritrea, dalla Siria, dalla Nigeria.

Il nostro sistema di accoglienza non va bene, è improntato su una logica emergenziale e troppo lunghi sono i tempi di azione, troppe le carenze, troppi i rimpalli di competenze e responsabilità tra istituzioni locali e nazionali e tra gli stessi ministeri, con l’effetto immediato e continuato di esporre proprio chi è più vulnerabile a rischi anche gravissimi. In queste maglie larghe, i minori scompaiono. Esiste un testo di legge su cui si sta lavorando ormai da due anni e sul quale è assolutamente necessario accelerare: è la proposta di legge C. 1658 Zampa, 26 articoli scritti a partire dalle osservazioni di Save The Children e di tante altre associazioni che lavorano con i minori.

Approvata ad ottobre alla Commissione affari costituzionali della Camera e sostenuta da quasi tutti i gruppi politici – ha tra i primi firmatari: Sandra Zampa (Pd), Mara Carfagna (Pdl), Matteo Dall’Osso (M5S), Nicola Fratoianni (Sel) e Antimo Cesaro (Scelta civica per l’Italia) – la proposta di legge punta ad uscire dalla logica emergenziale per creare un sistema stabile di accoglienza, con regole certe ed una disciplina organica. Il testo ha avuto anche l’apprezzamento da parte dell’Authority Garante per l’infanzia e l’adolescenza che ha anche evidenziato alcuni elementi migliorativi ai fini di armonizzare la proposta con le altre azioni legislative avviate in Parlamento.

Bisogna fare presto. Serve una formazione per le famiglie affidatarie, i tutori e gli operatori coinvolti, dalle forze dell’ordine agli operatori delle comunità, dai magistrati agli avvocati. E serve finanziare il Fondo nazionale per l’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati in modo da non gravare sui Comuni. È importante uniformare le procedure di identificazione e di accertamento dell’età, istituire un sistema nazionale di accoglienza, con un numero adeguato di posti e con standard qualitativi garantiti, bisogna attivare una banca dati nazionale per organizzare al meglio la sistemazione dei minori in base alla disponibilità di posti nelle strutture di accoglienza dislocate in tutte le regioni, ed in base ai bisogni specifici dei minori. Occorre fare presto. Ogni giorno che passa, bambini spariscono.

(clic)

Il partito di Cosa Nostra

Offrivano sostegno a Domenico Scilipoti, si alleavano con Raffaele Lombardo, facevano campagna elettorale sotto le bandiere del Movimento per l’Autonomia e promettevano addirittura 300 mila posti di lavoro. Dopo Sicilia Libera, voluto da Leoluca Bagarella in persona negli anni delle stragi, dopo che decine di collaboratori di giustizia giurano di aver ricevuto l’ordine di votare Forza Italia, fondata da Marcello Dell’Utri oggi condannato in via definitiva per concorso esterno, c’è un altro partito fondato direttamente da Cosa Nostra.

Nasce il 4 giugno del 2008, quando davanti ad un notaio di Catania, Francesco Caruso e Giuseppe Scuto fondano il Partito nazionale degli autotrasportatori. Un tir in primo piano, il tricolore sullo sfondo e uno slogan entusiasta: “Insieme verso un nuovo futuro”. Peccato che a quel futuro fosse interessato anche Vincenzo Ercolano, figlio del boss Pippo, fratello di Aldo, il killer del giornalista Pippo Fava e nipote del capo dei capi di Cosa Nostra catanese Nitto Santapaola. A scoprirlo è stata la Procura di Catania guidata da Giovanni Salvi con l’operazione Caronte, che alla fine del 2014 ha aperto le porte del carcere per ventitré persone, sequestrando beni per 50 milioni di euro. Coinvolti nell’operazione del Ros dei Carabinieri anche Caruso e Scuto, rispettivamente segretario e presidente del neonato partito. “Il cardine del nostro impegno politico è la riqualificazione del ruolo dell’autotrasportatore, settorizzando (sic!) le merci e i servizi richiesti tramite l’istituzione di una tariffa controllata che permetta di regolamentare il settore” diceva Caruso presentando il partito nel lussuoso Ergife Palace Hotel di Roma.

Il presidente Scuto alzava il tiro: “Puntiamo a creare 300 mila posti di lavoro” prometteva entusiasta. Subito dopo la presentazione del 30 giugno 2008, a Scuto squilla il cellulare: è Vincenzo Ercolano, che chiede informazioni sull’esito della conferenza stampa. Ercolano è il titolare della Geotrans Srl ed è l’ex presidente della Federazione Autotrasportatori Italiana della provincia di Catania, dove conta 1500 iscritti: è anche in rappresentanza dei camionisti se nel 2012, il nipote di Nitto Santapaola aderisce ai Forconi, il movimento che in pochi giorni riesce a paralizzare la Sicilia, isolando l’intera Isola. Nel 2008, però, quelli che poi diventeranno i Forconi, militano ancora tutti o quasi sotto le bandiere dei partiti autonomisti: il Movimento per l’Autonomia di Raffaele Lombardo, e poi anche Grande Sud diGianfranco Micciché. E dopo che il leader del Mpa riesce a vincere le elezioni regionali, facendosi eleggere governatore, incontra i due leader del Partito sostenuto da Ercolano.

“I primi contatti con il governatore venivano stabiliti dal Caruso nel settembre 2008 per il tramite dell’avvocato Pietro Maravigna e di Carmelo Ragusa, addetto alla segreteria di Lombardo – scrivono i magistrati nell’ordinanza Caronte – Caruso e Scuto riuscivano ad avere un appuntamento con il Presidente Lombardo, il 2 aprile 2009, grazie all’intesa che i due stabilivano con l’on. Giovanni Cristaudo”. Cristaudo è in quel momento un deputato regionale del Mpa: oggi è condannato in secondo grado a cinque anni di carcere per concorso esterno a Cosa Nostra. La stessa imputazione che è costata a Lombardo una condanna di primo grado a sei anni e otto mesi. In quell’incontro del 2009, tra l’ex governatore e i dirigenti del partito voluto da Enzo Ercolano si discute di un’alleanza in vista delle imminenti elezioni europee: un accordo che venne formalizzato il 21 aprile dello stesso anno. Poi il 6 maggio Scuto, Caruso e Lombardo ufficializzano l’alleanza in una conferenza stampa convocata a Roma.

“La coalizione L’Autonomia, formata da Mpa, La Destra di Francesco Storace, Alleanza di centro e Partito dei pensionati, avrà alle elezioni europee del 6 e 7 giugno giugno prossimi il sostegno del Partito nazionale degli autotrasportatori che conta 70mila iscritti su tutto il territorio nazionale” racconta l’agenzia Adnkronos. “L’accordo – continua il take d’agenzia – prevede che il Mpa in Parlamento si faccia portavoce e promotore delle proposte avanzate dal Pna nel settore dell’autotrasporto, prima fra tutte quella del blocco dei Tir dalle 22 alle 5 del mattino. Una proposta di legge in tal senso sarà presentata dai parlamentari del Mpa nei prossimi giorni”. Comincia la campagna elettorale: e lo stesso Enzo Ercolano si adopera con alcuni conoscenti per far votare Lombardo e per il Movimento per l’Autonomia. Nel frattempo il volto baffuto di Lombardo, con annesso logo del Mpa, compare su enormi manifesti portati in giro da decine di camion: sono i mezzi di proprietà degli aderenti al Partito degli autotrasportatori. Che per quel servizio di campagna elettorale si erano accordati con lo stesso Lombardo: avrebbero dovuto ricevere una somma di denaro. Ma l’ex governatore non pagherà mai il conto al Partito voluto da Enzo Ercolano. E Scuto e Caruso si vedranno costretti a mettere in mora il movimento di Lombardo, con un decreto ingiuntivo da 171.600 euro.

Ma non c’è solo Lombardo nell’agenda di Scuto e Caruso. “Io con l’onorevole ci sono andato. Abbiamo discusso. Dice lui che è a disposizione sia per Roma sia per qua in Sicilia. Quando lo vogliamo chiamare è a nostra piena disposizione” dice Salvatore Favazzo, un’emissario di Caruso, a sua volta attivista del partito dei camionisti, il 30 agosto 2008. L’onorevole in questione è Domenico Scilipoti, originario di Terme Vigliatore, in provincia di Messina, diventato famoso quando lascia l’Italia dei Valori per votare la fiducia al governo di Silvio Berlusconi e quindi aderire a Forza Italia. Quando Scilipoti si mette a disposizione del partito dei camionisti è ancora un parlamentare dell’Italia dei Valori. Secondo la ricostruzione dei magistrati della procura di Catania, nei primi giorni di ottobre, Scilipoti avrebbe dovuto incontrare Scuto e Caruso. Un incontro che non lascia traccia nelle indagini della magistratura: cosa si disserro Scilipoti e i due dirigenti del partito voluto da Enzo Ercolano rimarrà dunque un segreto.

(fonte)

L’uguaglianza secondo Obama

Tanto per notare le differenze:

Obama va alla guerra delle tasse: imposte più alte sui ricchi (colpiti i «capital gain», non i redditi da lavoro) da redistribuire al ceto medio in difficoltà sotto forma di sgravi fiscali per le famiglie con figli e misure di sostegno sociale: soprattutto il college gratis per quasi tutti gli studenti e l’aspettativa di paternità pagata. Deciso a non passare alla storia come il presidente che ha stabilizzato e rilanciato l’economia Usa dopo una crisi gravissima, ma poi non è riuscito a evitare una frattura nella società col drammatico impoverimento del ceto medio, il leader democratico proporrà domani sera al Congresso e all’America una ricetta economica con la quale infrange il tabù dell’aumento dei tributi.

Lo farà nell’occasione più solenne: il discorso sullo Stato dell’Unione, che viene pronunciato ogni anno in diretta tv davanti alle Camere riunite. La sicurezza e la lotta al terrorismo saranno sicuramente temi centrali, ma, entrato nell’ultimo biennio alla Casa Bianca, la sua eredità politica Obama se la gioca soprattutto sulle questioni interne. In America, poi, è già iniziata la campagna per le presidenziali del 2016 al centro della quale ci sarà il malessere assai diffuso in un Paese che, pure, ha ripreso a creare molti posti di lavoro. Ma la globalizzazione dell’economia e i processi di automazione hanno favorito una progressiva polarizzazione dei redditi, mentre i nuovi lavori sono concentrati nella fascia alta delle professioni creative più remunerative o in quella bassa della manodopera non qualificata che spesso non arriva nemmeno a mettere insieme il reddito minimo di sopravvivenza del nucleo familiare. In mezzo, un ceto medio sempre più schiacciato.

E’ soprattutto per questo che Obama ha visto la sua popolarità declinare negli ultimi anni. Mentre la «sconfitta annunciata» alle elezioni di «mid term» di novembre si è trasformata in débâcle, nonostante Pil e occupazione in forte crescita. Col Congresso ora totalmente controllato dalla destra, la Casa Bianca ha pochi margini di manovra, ma il presidente ha deciso ugualmente di lanciare una controffensiva: «State of the Union» diventa così il punto d’arrivo di un percorso fatto di annunci di interventi sociali a sostegno del ceto medio.

Fino a ieri Obama aveva puntato soprattutto sull’istruzione e il welfare: asili nido, i primi anni dell’università pagati dallo Stato, i permessi di paternità retribuiti. Ma ora il team del presidente fa sapere che domani Obama romperà gli indugi anche sul fronte del Fisco. Tre le misure che dovrebbero essere proposte dal lato delle entrate: 1) l’aumento, dal 23 al 28 per cento, della tassa su dividendi e «capital gain» di chi ha un reddito superiore al mezzo milione di dollari l’anno. 2) L’estensione del prelievo fiscale ai «trust» che oggi vengono usati dalle famiglie più facoltose per trasmettere la loro ricchezza agli eredi evitando ogni tributo. 3) Un maggior prelievo su banche e finanziarie di grandi dimensioni (oltre 50 miliardi di dollari di patrimonio) concepito in modo da colpire chi fa un ricorso maggiore all’indebitamento. Una manovra consistente ma non gigantesca né radicale: 320 miliardi di dollari in dieci anni (parliamo di circa 27 miliardi di euro l’anno) senza aumenti delle aliquote sui redditi da lavoro o riduzione di sgravi oggi molto generosi come quelli sui mutui-casa. Un gettito, comunque, più che sufficiente a coprire i costi del piano di interventi sociali che Obama si accinge a proporre. 60 miliardi serviranno per il college gratis. Poi ci sono da coprire i costi dell’aspettativa pagata per i padri, ma il grosso della manovra (235 miliardi, sempre in dieci anni), andrà ai sostegni economici alle famiglie. Qui il presidente vuole aumentare a 3 mila dollari il contributo annuo erogato per ogni figlio fino all’età di 5 anni, più 500 dollari versati a ogni famiglia con un reddito inferiore ai 210 mila dollari nella quale entrambe i coniugi lavorano.

E’ improbabile che tutte queste misure entrino in vigore: Obama può realizzare solo alcuni interventi marginali utilizzando i poteri presidenziali. Per il resto dovrà affidarsi al voto del Congresso dove alcuni repubblicani hanno già bocciato le sue proposte. Ma la destra deve stare attenta: Obama punta su misure condivise in passato anche da esponenti conservatori e le inserirà nel bilancio che presenterà il 2 febbraio. A dire no su tutto i repubblicani rischiano di finire in rotta di collisione col ceto medio.

(clic)

Sacra Corona Unita (internazionale): 19 arresti tra Lecce, Germania e Svizzera

Blitz all’alba dei carabinieri contro la “sacra corona unita”: arrestate 19 persone appartenenti al clan De Tommasi-Notaro(quest`ultimo arrestato il primo dicembre scorso dopo un periodo di latitanza, perché colpito da altra misura cautelare in carcere per associazione mafiosa), operante nel nord della provincia.
I provvedimenti sono stati disposti dal Giudice per le Indagini preliminari del Tribunale di Lecce su richiesta della locale Direzione Distrettuale Antimafia e gi arresti sono stati eseguiti in provincia di Lecce, in Germania e Svizzera, dove due persone sono ricercate poiché colpite da mandato di arresto internazionale.

Vengono contestati i reati di associazione di tipo mafioso di cui all`art. 416 bis, associazione finalizzata al traffico di stupefacenti, detenzione e porto abusivo di armi anche clandestine, estorsioni e rapina.
Nel corso dell`intensa ed articolata attività investigativa sono stati accertati una serie di episodi intimidatori, anche a scopo omicidiario, tra membri dello stesso clan. Obiettivo, la conquista della leadership sul territorio, finalizzata al controllo del traffico di stupefacenti e delle altre attività illecite.

Le indagini hanno permesso di ricostruire una serie di eventi, in particolare numerose intimidazioni attuate attraverso l`esplosione di colpi d`arma da fuoco contro persone, auto e abitazioni degli affiliati, prologo di una faida interna per la supremazia del gruppo emergente.  In distinte operazioni, sono stati eseguiti numerosi sequestri di droga e di un arsenale di armi nella disponibilità del clan. Quest`ultimo sequestro, operato dai carabinieri all`insaputa dei detentori, ha accresciuto in questi la preoccupazione di una imminente escalation di violenza da parte della fazione rivale.
Nel corso della pianificazione delle azioni di fuoco in danno degli avversari, gli investigatori sono riusciti a disinnescare ogni minaccia eseguendo numerosi controlli con conseguenti arresti. Nel dettaglio: 9 persone sono state arrestate in flagranza di reato, nel corso delle indagini di cui 7 per stupefacenti e due per detenzione di armi.

(fonte)