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Giulio Cavalli

‘Ndrangheta a Perugia: i fatti e i nomi

La droga arrivava su dalla Calabria fino a Perugia occultata nei trolley a bordo di autobus di linea privati. Ogni due settimane fino a dieci chili della polvere magica che poi immessa sul mercato umbro fruttava ai calabresi centinaia di migliaia di euro. A finire in manette nell’operazione condotta dagli uomini del Raggruppamento Operativo Speciale dei Carabinieri, un gruppo di ‘ndranghetisti crotonesi impiantanti a Perugia, tutti ritenuti appartenenti alla cosca dei Farao-Marincola di Cirò, operante da tempo sul territorio umbro. Un traffico di stupefacenti sul quale gli uomini del Ros sono riusciti a mettere le mani partendo dalle carte del processo a carico di Gregorio Procopio, attualmente in attesa della sentenza di Cassazione, il cui imputato è ritenuto responsabile dell’omicidio di Roberto Provenzano, muratore 37enne originario di Maida, in provincia di Catanzaro, ucciso da un colpo di pistola alla tempia la notte tra il 28 e il 29 maggio del 2005 e ritrovato in un lago di sangue nel bagno della sua abitazione di Ponte Felcino alle porte di Perugia. Secondo quanto illustrato dal Pm della Dda di Perugia Antonella Duchini le intercettazioni già oggetto del dibattimento processuale, sono state rilette e rivisitate, incrociate con le carte dell’inchiesta ”Acroterium”, anche alla luce di nuove tecniche investigative, grazie alle tecniche di filtraggio operate dalRIS dei Carabinieri di Roma, hanno portato all’individuazione degli altri presunti responsabili, convincendo il Gip ad emettere la nuova ordinanza cautelare per altre sei persone. A finire in manette in relazione all’omicidio sono stati Antonio Procopio, Elia Francesco e Platon Guasi, indicati come esecutori materiali, e Salvatore Papaianni, Vincenzo Bartolo e Giuseppe Affatato, che avrebbero invece ordinato il delitto. Soggetti ritenuti appartenenti al gruppo criminale dei calabresi che teneva praticamente il monopolio del traffico di cocaina nel perugino. Secondo quanto emerso dalle indagini, una volta giunta in Umbria, la coca veniva venduta sul mercato locale attraverso una fitta rete di spacciatori. “Dobbiamo andare dal dottore“, “sono pronte le patate rosse“: queste le parole d’ordine che servivano a pusher e ganci per capire che la droga era arrivata a Perugia ed era pronta per essere spacciata. L’asse Calabria-Umbria garantiva una fiorente attività di narcotraffico, attraverso la distribuzione di ingenti partite di cocaina nelle province di Perugia e Terni. Venivano poi stabiliti i compensi per le attività illecite: spezzare le gambe o appiccare un incendio costava circa 7 o 8 mila euro. Un gruppo criminale che, secondo quanto ricostruito dagli investigatori, costituisce la naturale prosecuzione della locale di ‘ndrangheta, già capeggiata dai pregiudicati Salvatore Papainni, Vincenzo Bartolo ed Francesco Elia, che nei primi anni 2000 gestiva il traffico di sostanze stupefacenti nel capoluogo umbro e che aveva ordinato l’omicidio di Roberto Provenzano. Circostanza, quest’ultima, ricostruita anche grazie alle dichiarazioni del testimone di giustizia Giuseppe Affatato, uno dei mandanti dell’omicidio, che nel settembre del 2013 aveva ricordato ai complici che eventuali “sgarri” nei pagamenti della droga avrebbero comportato “un colpo in fronte”, esattamente come avvenuto era avvenuto per Provenzano.

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“Ammazzalo”: a Perugia la mafia non esiste


Anche una condanna a morte pronunciata dal boss nelle intercettazioni finite nell’inchiesta che ha colpito a Perugia un gruppo criminale collegato alla cosca di ‘Ndrangheta dei Farao-Marincola, capeggiato dai pregiudicati Salvatore Papaianni, Vincenzo Bartolo e Francesco Elia. Le indagini, coordinate dalla Direzione distrettuale antimafia perugina, hanno fatto luce su un traffico di cocaina dalla Calabria al capoluogo umbro, ma hanno anche permesso di individuare mandanti, organizzatori ed esecutori materiali di un omicidio avvenuto nel maggio del 2005: Roberto Provenzano fu ucciso con un colpo di pistola alla testa per uno “sgarro” nei pagamenti della droga. Le ordinanze cautelari eseguite dai carabinieri del Ros hanno riguardato 20 persone, non solo in Umbria, ma anche nelle province di Catanzaro, Crotone, Terni, Prato e Roma. I carabinieri hanno diffuso alcune delle conversazioni tra gli indagati che sono state intercettate.

Quelli che sì, ma…

img1024-700_dettaglio2_Copertina-del-Charlie-Hebdo-dopo-lattentato-ReutersIn questi anni ci siamo sentiti un po’ soli nel tentativo di respingere a colpi di matita gli insulti e le sottigliezze pseudo-intellettuali scagliate contro di noi e contro i nostri amici che difendevano la laicità: islamofobi, cristianofobi, provocatori, irresponsabili, attizzatori di fiamme, ve-la-siete-cercata… Sì, condanniamo il terrorismo, ma. Sì, minacciare i vignettisti di morte non va bene, ma. Sì, dare fuoco a un giornale è brutto, ma. Ne abbiamo sentite di tutti i colori. Spesso abbiamo cercato di riderci su, visto che è la cosa che ci riesce meglio. Adesso però ci piacerebbe molto ridere di altro. Perché stanno già ricominciando.

(Gerard Biard, Charlie Hebdo)

 

L’intelligenza sta (forse) nel dubbio: “Nous sommes Charlie ma noi siamo anche i genitori dei tre assassini”.

Mai come in questi ultimi giorni ho imparato quanto siano pericolose le persone senza dubbi: fedeli a se stessi riescono a vivere i propri luoghi comuni come un dogma incrollabile. La categorizzazione di questi giorni, ad esempio, propone dei tipi umani costruiti banalmente sull’educazione religiosa come se non esistessero le mille sfumature di una socialità umana che si perde in mille rivoli. Per questo credo che valga la pena leggere la lettera tradotta da Claudia Vago che pone (per chi ama coltivare dubbi e farsi domande non accomodanti) quesiti interessanti:

Siamo professori di Seine-Saint-Denis. Intellettuali, scienziati, adulti, libertari, abbiamo imparato a fare a meno di Dio e a detestare il potere e il suo godimento perverso. Non abbiamo altro maestro all’infuori del sapere. Questo discorso ci rassicura, a causa della sua ipotetica coerenza razionale, e il nostro status sociale lo legittima. Quelli di Charlie Hebdo ci facevano ridere; condividevamo i loro valori. In questo, l’attentato ci colpisce. Anche se alcuni di noi non hanno mai avuto il coraggio di tanta insolenza, noi siamo feriti. Noi siamo Charlie per questo.

Ma facciamo lo sforzo di un cambio di punto di vista, e proviamo a guardarci come ci guardano i nostri studenti. Siamo ben vestiti, ben curati, indossiamo scarpe comode, siamo al di là di quelle contingenze materiali che fanno sì che noi non sbaviamo sugli oggetti di consumo che fanno sognare i nostri studenti: se non li possediamo è forse anche perché potremmo avere i mezzi per possederli. Andiamo in vacanza, viviamo in mezzo ai libri, frequentiamo persone cortesi e raffinate, eleganti e colte. Consideriamo un dato acquisito che La libertà che guida il popolo e Candido fanno parte del patrimonio dell’umanità. Ci direte che l’universale è di diritto e non di fatto e che molti abitanti del pianeta non conoscono Voltaire? Che banda di ignoranti… E’ tempo che entrino nella Storia: il discorso di Dakar ha già spiegato loro. Per quanto riguarda coloro che vengono da altrove e vivono tra noi, che tacciano e obbediscano.

Se i crimini perpetrati da questi assassini sono odiosi, ciò che è terribile è che essi parlano francese, con l’accento dei giovani di periferia. Questi due assassini sono come i nostri studenti. Il trauma, per noi, sta anche nel sentire quella voce, quell’accento, quelle parole. Ecco cosa ci ha fatti sentire responsabili. Ovviamente, non noi personalmente: ecco cosa diranno i nostri amici che ammirano il nostro impegno quotidiano. Ma che nessuno qui venga a dirci che con tutto quello che facciamo siamo sdoganati da questa responsabilità. Noi, cioè i funzionari di uno Stato inadempiente, noi, i professori di una scuola che ha lasciato quei due e molti altri ai lati della strada dei valori repubblicani, noi, cittadini francesi che passiamo il tempo a lamentarci dell’aumento delle tasse, noi contribuenti che approfittiamo di ogni scudo fiscale quando possiamo, noi che abbiamo lasciato l’individuo vincere sul collettivo, noi che non facciamo politica o prendiamo in giro coloro che la fanno, ecc. : noi siamo responsabili di questa situazione.

Quelli di Charlie Hebdo erano i nostri fratelli: li piangiamo come tali. I loro assassini erano orfani, in affidamento: pupilli della nazione, figli di Francia. I nostri figli hanno quindi ucciso i nostri fratelli. Tragedia. In qualsiasi cultura questo provoca quel sentimento che non è mai evocato da qualche giorno: la vergogna.

Allora, noi diciamo la nostra vergogna. Vergogna e collera: ecco una situazione psicologica ben più scomoda che il dolore e la rabbia. Se proviamo dolore e rabbia possiamo accusare gli altri. Ma come fare quando si prova vergogna e si è in collera verso gli assassini, ma anche verso se stessi?

Nessuno, nei media, parla di questa vergogna. Nessuno sembra volersene assumere la responsabilità. Quella di uno Stato che lascia degli imbecilli e degli psicotici marcire in prigione e diventare il giocattolo di manipolatori perversi, quella di una scuola che viene privata di mezzi e di sostegno, quella di una politica urbanistica che rinchiude gli schiavi (senza documenti, senza tessera elettorale, senza nome, senza denti) in cloache di periferia. Quella di una classe politica che non ha capito che la virtù si insegna solo attraverso l’esempio.

Intellettuali, pensatori, universitari, artisti, giornalisti: abbiamo visto morire uomini che erano dei nostri. Quelli che li hanno uccisi sono figli della Francia. Allora, apriamo gli occhi sulla situazione, per capire come siamo arrivati qua, per agire e costruire una società laica e colta, più giusta, più libera, più uguale, più fraterna.

« Nous sommes Charlie », possiamo appuntarci sul risvolto della giacca. Ma affermare solidarietà alle vittime non ci esenterà della responsabilità collettiva di questo delitto. Noi siamo anche i genitori dei tre assassini.

Catherine Robert, Isabelle Richer, Valérie Louys et Damien Boussard

‘Ndrangheta padana: condannato l’ultimo mandante dell’omicidio Novella

LEUZZI-COSIMO-GIUSEPPE-54Voleva dividere la ‘ndrangheta, sognava per sé il ruolo di capo indiscusso della Lombardia. Non fece in tempo, due killer lo giustiziarono mentre sorseggiava cappuccino bianco ai tavolini di una bar a San Vittore Olona. Era il tardo pomeriggio del 14 luglio 2008. Carmelo Novella, il boss secessionista, ebbe solo il tempo di fissare le armi che da lì a pochi secondi lo avrebbero ucciso. Sette anni e sei mesi dopo, il Ros di Milano chiude il cerchio attorno a uno dei più eclatanti omicidi di mafia nel nord Italia. Questa mattina, infatti, il giudice per le indagini preliminari Andrea Ghinetti ha firmato un’ordinanza di custodia in carcere per il capo della locale di Stignano Cosimo Giuseppe Leuzzi, ritenuto il terzo e ultimo mandante dell’esecuzione, incastrato dalle dichiarazioni di un collaboratore di giustizia.

Si tratta del nono provvedimento cautelare dal 5 luglio 2010 quando tra Calabria e Lombardia scattò il maxi-blitz Crimine-Infinito. Nella rete, allora, finì anche Antonino Belnome, padrino di Seregno, il quale la sera del Natale 2010 decise di collaborare con la giustizia. Da quel momento il boss della ‘ndrangheta, con natali tutti lombardi, ha riempito migliaia di pagine di verbali. Belnome parla anche dell’omicidio Novella. E lo fa a ragion veduta visto che lui è uno dei due killer. Svela che a decretare la morte del boss furono i capi della ‘ndrangheta tra Guardavalle e Monasterace, Vincenzo Gullace e Andrea Ruga. L’altro killer si chiama Micheal Panajia, anche lui affiliato alla locale di Seregno, anche lui collaboratore di giustizia. Ed è grazie alla sua testimonianza che l’antimafia milanese è riuscita ad accendere la luce sul terzo mandante dell’omicidio. Recita il capo d’imputazione: “Cosimo Leuzzi, capo della locale di Stignano alleata con le locali di Monasterace e Guardavalle agiva in qualità di mandante (…) deliberando l’omicidio di Carmelo Novella e incaricando Panajia e Belnome della esecuzione”.

All’inizio del 2012 Panajia, del quale le forze dell’ordine conoscono ben poco, decide di collaborare. Parla molto, ma non dice tutto. In particolare non approfondisce la figura di Leuzzi, al quale è molto legato. La decisione arriva nell’estate dello stesso anno, quando, scrive il gip, “Panajia ha finalmente vinto ogni resistenza e ha raccontato l’origine e l’evolversi del proprio rapporto con Cosimo Leuzzi, personaggio carismatico che, specie dopo gli omicidi Novella e Ierinò, ebbe a occupare nella vita di Panajia il ruolo di maestro“. Prosegue il giudice: “Panajia ha detto di avere conosciuto Cosimo Leuzzi nel 2007 e che lo stesso gli venne presentato da Cosimo Spatari con il quale egli aveva stretto una forte amicizia tanto da avere con questi il sangianni, avendolo designato come padrino di battesimo della figlia”.

Il collaboratore di giustizia, poi, spiega la genesi dell’omicidio. Dice Panajia: “A dicembre di quell’anno (2007,ndr), quando io ho battezzato mia figlia (…) invitai Leuzzi” che “mi chiamò una sera, mi fece convocare da Cosimo Spatari (…) c’era anche Andrea Ruga”. Quelli di Panajia sono ricordi nitidi: “Eravamo nel salotto a casa di Leuzzi. Ci siamo salutati, abbiamo bevuto qualcosa e poi siamo usciti fuori da casa e siamo andati dietro che lui ha una specie di box, non abbiamo parlato in casa, e mi disse Leuzzi: senti, vedi che a Milano c’è un lavoro da fare, te la senti di darci una mano?Ci dai lo disponibilità?”. Panajia risponde affermativamente. Con Belnome parteciperà all’omicidio di Carmelo Novella.

Il giorno dopo l’esecuzione, il killer si trova in un locale di Guardavalle, il Molo 13. “Sono entrato e al bancone del bar c’era Domenico Tedesco, l ‘ho salutato, mi ha offerto un caffè. (…) Mi venne incontro Antonio Belnome, ci salutammo. Disse: entra dentro che ti stanno aspettando. A un tavolo c’era seduto Cosimo Leuzzi, Andrea Ruga e questa persona che mi dovevano presentare che era Vicenzo Gallace, era la prima volta che lo vedevo (…) Ci salutammo e mi disse: ti ringrazio di cuore per la cosa di Milano”. Quindi Leuzzi consegna a Panajia una mazzetta da tremila euro invitandolo nella sua villa per una cena.

Le parole di Micheal Panjia, secondo il giudice, completano quelle dello stesso Belnome, il quale, davanti al pubblico ministero Alessandra Dolci, aveva già parlato del ruolo di Leuzzi. Riassume il giudice: “Belnome ha più volte parlato dell’alleanza esistente tra Vincenzo Gallace, Andrea Ruga e costui, dicendo che i medesimi erano i tre uomini più potenti della costa ionica (” .. sono oggi i numeri uno e sono tutti e tre insieme”) e precisando che ogni decisione che riguardi Guardavalle, Monasterace e Stignano veniva presa congiuntamente da Leuzzi, Gallace e Ruga”.

Lo stesso Belnome ha ricordi ben precisi sul giorno successivo all’esecuzione. Ecco, allora, cosa racconta ai magistrati di Milano. “Le spiego – dice l’ex boss – perché dopo che arrivò Panajia andammo a casa di Vincenzo Gallace che ci fece trovare una tavola nella sua taverna piena di pasticcini e bottiglie di champagne, eravamo io, Panajia, il genero di Gallace, Franco Aloi, Leuzzi, si discusse delle dinamiche e si accennò all’omicidio”.

Per le parole di Blenome, la posizione di Leuzzi viene stralciata e nel febbraio 2012 lo stesso giudice Ghinetti chiede l’archiviazione. Il fascicolo è stato riaperto, quando a maggio dello stesso anno Panajia svela i suoi rapporti con il boss di Stignano, il quale, attualmente si trova in carcere dopo che la corte d’Appello di Reggio Calabria nel febbraio 2014 gli ha confermato otto anni di carcere per l’inchiesta Crimine-Infinito. Oggi per Leuzzi, il giudice di Milano ha firmato un’ennesima ordinanza in carcere sottolineando come “il pericolo di reiterazione del reato è quanto mai attuale e concreto ove si consideri che dall’omicidio Novella è scaturita una vera e propria faida tuttora in corso”.

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Stefano Cucchi è stato picchiato. Parola dei giudici. Se fosse tuo figlio?

slide_379124_4479564_compressedStefano Cucchi fu sottoposto senza dubbio “ad una azione di percosse” e “non può essere definita una astratta congettura l’ipotesi prospettata in primo grado, secondo cui l’azione violenta sarebbe stata commessa dai carabinieri che lo hanno avuto in custodia nella fase successiva alla perquisizione domiciliare”.

Sono destinate a fare rumore le motivazioni della corte d’appello di Roma, relative alla sentenza con cui il 31 ottobre scorso sono stati assolti dal reato di lesioni tre agenti della polizia penitenziaria e da quello di omicidio colposo nove tra medici e paramedici dell’ospedale Sandro Pertini, dove Cucchi morì il 22 ottobre del 2009, sei giorni dopo essere stato arrestato per droga.

Per il collegio, presieduto da Mario Lucio D’Andria, le 67 pagine di motivazioni saranno trasmesse alla procura di Roma perchè “valuti la possibilità di svolgere ulteriori indagini al fine di accertare eventuali responsabilità di persone diverse” dai poliziotti della penitenziaria già giudicati.

Per la corte d’Appello le lesioni subite da Cucchi “debbono essere necessariamente collegate a un’azione di percosse e, comunque, da un’azione volontaria, che può essere consistita anche in una semplice spinta, che abbia provocato la caduta a terra, con impatto sia del coccige che della testa contro una parete o contro il pavimento”.

E agli atti ci sono “concrete circostanze testimoniali” secondo cui “già prima di arrivare in tribunale (per l’udienza di convalida dell’arresto, ndr) Cucchi presentava segni e disturbi che facevano pensare a un fatto traumatico avvenuto nel corso della notte”.

Per i giudici di secondo grado Samuura Yaya, il detenuto gambiano cui Cucchi avrebbe confidato di essere stato picchiato mentre si trovavano nelle celle di sicurezza del tribunale, non può essere un “teste oculare decisivo” e dal “valore probatorio determinante”, come sostenuto dalla procura.

Yaya, nel chiuso della sua cella, sente solo trambusto e rumori e non vede con i suoi occhi quello che poi Cucchi gli racconterà “in maniera piuttosto vaga”. Non solo ma, come evidenziato dai difensori degli imputati, lo straniero aveva tutto l’interesse a mostrarsi collaborativo con gli inquirenti al punto da ottenere un patteggiamento a una pena piuttosto mite per droga.

La procura di Roma dovrebbe essere già pronta a nuove indagini: lo aveva promesso lo stesso procuratore capo Giuseppe Pignatone alla famiglia di Cucchi all’indomani della sentenza di assoluzione, per dare una risposta alla richiesta di giustizia. Nel frattempo –ha aperto un fascicolo per valutare se il perito della stessa procura, Paolo Arbarello, abbia tenuto un comportamento professionalmente corretto nello stilare la perizia medico-legale sul corpo di Stefano.

A tirare in ballo i carabinieri che arrestarono Cucchi sono stati anche gli agenti di polizia penitenziaria assolti dalla corte d’Appello. Ma la famiglia del ragazzo ha spesso sostenuto che i militari dell’Arma non potevano essere stati responsabili delle botte.

Nel 2013 un avvocato ha reso testimonianza, raccontando di avere visto il ragazzo con il volto tumefatto già in tribunale:

Il giovane di corporatura esile aveva il volto – ed in particolare gli occhi – estremamente arrossato e gonfio, come recante delle tumefazioni, e lo stesso, probabilmente risaltava ancor di più proprio perché sproporzionato rispetto al resto della struttura fisica. Era come se sotto gli occhi avesse quelle che in gergo comune sono individuate come “borse” gonfie e di un colore tendente al violaceo. Aveva un’aria di sicuro molto “provata”.

Mentre si dirigeva abbastanza lentamente, verso l’aula di udienza il giovane mostrava difficoltà nel camminare; me ne rendevo conto soprattutto una volta che lo stesso mi aveva superato e dunque osservandolo da dietro: il ragazzo infatti appariva come irrigidito nella coordinazione della deambulazione e se non ricordo male, non sollevava del tutto i piedi da terra ma sembrava trascinarli in avanti ad ogni passo.

Il Paese dove falliscono i testimoni di giustizia

Paolo De Chiara (sempre attento al tema) propone su restoalsud.it un’intervista a Cosimo Maggiore, testimone di giustizia di San Pancrazio (provincia di Brindisi) che ha denunciato i suoi estorsori ed oggi si ritrova fallito. Il fallimento di un’azienda di un testimone di giustizia (succede anche per Ignazio Cutrò e molti altri) è il segnale migliore che si possa inviare alla mafia. Al di là della retorica.

Ecco l’intervista:

Cosimo Maggiore, il testimone di giustizia che ha sfidato la mafia pugliese, è determinato, fermo sulle sue posizioni. “Meglio la morte, che perdere la dignità”. Non vuole e non cerca compromessi. Abbiamo già raccontato la sua drammatica storia (Il Testimone di giustizia abbandonato dallo Stato, restoalsud.it), ma nulla è cambiato.

Cosimo è un imprenditore (si occupava di infissi), vive a San Pancrazio, in provincia di Brindisi, dove risiede la figlia del capo di Cosa Nostra, Totò Riina. Ha avuto il coraggio di dire no nel suo territorio, stretto da una morsa mortale, quella dellaSacra Corona Unita, la mafia sotterranea, di cui pochi si occupano. Una delle mafie più pericolose presenti in Italia, che opera nel silenzio e nel disinteresse generale. Maggiore ha rotto questo muro di omertà, ha denunciato, ha testimoniato. Ha indicato con il dito i suoi aguzzini, ha fatto i nomi e i cognomi.

Ha permesso allo Stato di condannare questi pericolosi delinquenti, assassini senza scrupoli.

“Grazie alle mie dichiarazioni lo Stato si è imposto con la legge, con la legalità. Ora lo stesso Stato mi ha lasciato solo. Oggi (lunedì 12 gennaio 2015, ndr) entreranno nel mio capannone, messo all’asta per il mancato rispetto di una legge dello Stato (legge 44 del 1999, ‘Disposizioni concernenti il Fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura’), ma io non rinuncerò a lottare. Dovranno prima uccidermi”. 

Dopo le denunce è iniziato il suo percorso ad ostacoli. “Sto combattendo la mia battaglia anche contro le Istituzioni”. Poco attente, distratte e insensibili, soprattutto nei confronti dei testimoni di giustizia, che non hanno nulla a che fare con i collaboratori. Due figure diverse: i primi, semplici cittadini che hanno fatto il proprio dovere attraverso la denuncia; i secondi, già appartenenti a consorterie mafiose (definiti anche ‘pentiti’) e con dei reati sulle spalle.

“Ho scritto al presidente della Repubblica, al Ministro degli Interni, al Presidente del Tribunale di Brindisi, al Generale dei Carabinieri. L’Arma è l’unica Istituzione che mi è stata vicina. Gli altri non hanno risposto ai miei appelli, al mio grido di aiuto”. Ma perché il capannone di Maggiore è andato all’asta? Non è riuscito a pagare i suoi creditori, “nemmeno il giudice civile ha accettato la sospensione (articolo 20, legge 44 del ’99)”.

L’asta è stata vinta da un unico partecipante “legato alla criminalità. Ho chiesto informazioni, un mio amico mi ha riferito dei legami di sangue con Roberto Maci, fratello di Vito, appartenente alla delinquenza locale. Sono stanco di combattere inutilmente, la mia scelta è stata fallimentare. Ogni volta che rilascio un’intervista devo subire anche le pressioni di alcuni soggetti. Mi arrivano anche continui messaggi per le cose che scrivo quotidianamente su Facebook. Ho tutti contro, maledetto il giorno che ho denunciato”.

Cosimo ha tentato anche la strada del dialogo con il “prestanome”. Tutto inutile.

“Ho visto l’ufficiale giudiziario salire sulla macchina del boss della Scu, denunciato da me e condannato a due anni di carcere. Non mi sento più un testimone di giustizia, ma una vittima dello Stato”. Il testimone di giustizia pugliese è sconfortato, ha perso fiducia. Il dovere di ogni cittadino è denunciare, sempre e comunque. Costi quel che costi.

L’unica arma è allearsi con lo Stato, almeno per mettere i bastoni tra le ruote a questi ripugnanti delinquenti.

Cosimo Maggiore è pentito della sua scelta, porta avanti da solo la sua battaglia.“Per entrare dovranno chiamare un fabbro. La mia reazione dipenderà dalle loro azioni. Mi farò ammazzare, meglio morto che senza dignità”. 

Il corteo dei Giuda

parigi-manifestazione-per-charlie-hebdo-e-la-liberta-di-espressione-46-631273Gli amici della satira sono arrivati tutti insieme su un autobus nero dai vetri oscurati come una squadra di calcio. Poi si sono piazzati a semicerchio alla testa del corteo, loro che di solito i cortei li subiscono. Angelona Merkel e Francois Hollande si sono molto abbracciati e per un pomeriggio hanno dimenticato il 3%. C’erano anche David Cameron e Matteo Renzi, con i suoi pantaloni di un blu elettrico che era impossibile non notare in tutte le inquadrature di gruppo. Non c’era Obama, che della lotta al terrorismo ha quasi fatto una professione, e non s’è capito perché. 

Sono tutti Charlie, dunque, i nostri capi di Stato. Lo sono anche Abu Mazen e Benjamin Netanyahu, riconosciuti campioni della libertà di stampa e di satira. Lo sono i reali di Giordania, il premier turco Ahmet Davutoglu, che nelle sue carceri protegge una cinquantina di cronisti, e il presidente del Gabon, Ali Bongo, che si illustra nelle classifiche di “Reporters sans frontières”. Se si voleva una rappresentazione plastica dell’ipocrisia del potere non se ne poteva immaginare una migliore. Almeno Putin, altro eroe della libertà di stampa, s’è reso conto dell’assurdità ed è rimasto a casa.

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