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Giulio Cavalli

Poi magari un giorno si farà chiarezza sulle fondazioni politiche

Altro che triangolazioni con destinazione Bvi, British Virgin Islands. Il paradiso fiscale, per molti, è a portata di mano.
Sono le fondazioni politiche. I cosiddetti pensatoi, o se si preferisce think tank, che proliferano in Italia. Nessun obbligo di pubblicare bilanci o di rendere noto l’elenco dei sostenitori e sponsor. Intassabilità delle entrate e deducibilità dei contributi. Insomma, per i costumi italici, una vera e propria cuccagna.
LA FONDAZIONE NUOVA ITALIA. Lo ha dimostrato l’inchiesta Mafia Capitale. La Fondazione Nuova Italia guidata da Gianni Alemanno ha ricevuto dalla piovra dell’ex Nar Massimo Carminati «finanziamenti non inferiori ai 40 mila euro».

  • L’homepage del sito di Nuova Italia, fondazione di Gianni Alemanno.

Ma la Nuova Italia non è la sola. Dagli accertamenti effettuati sui conti corrente delle cooperative riconducibili a Salvatore Buzzi, braccio imprenditoriale del Nero, risulta che in data 15 novembre 2012 «era stata bonificata la somma di euro 30 mila in favore della Fondazione per la Pace e Cooperazione Internazionale Alcide De Gasperi».
Il presidente? Il ministro dell’Interno Angelino Alfano.

Fondazioni, la politica si è appropriata di «uno strumento per farsi i fatti propri»

Gian Gaetano Bellavia.Le Fondazioni si sprecano, a destra e a sinistra. Ogni leader politico, finanche ogni capocorrente, ne ha una. Con finalità diverse, certo.

Si va – solo per citarne alcune – da Italiani europei di Massimo D’Alema, nata nel 1998, a Magna Carta di Gaetano Quagliariello fino a Fare Futuro di Adolfo Urso e alla montezemoliana Italia Futura.
Ma ci sono anche la Liberamente di Mariastella Gelmini, Riformismo & Libertà di Fabrizio Cicchitto, la Cristoforo Colombo di Claudio Scajola (ma il numero di telefono riportato sul sito risulta inesistente).
Censire tutti questi enti è difficile. Altraeconomia ne ha contati almeno una quarantina.
MANCA LA TRASPARENZA. Una cosa è certa però. Tranne rarissime eccezioni si tratta di organizzazioni i cui bilanci e i soci sostenitori non risultano pubblici.
«Le fondazioni», spiega a Lettera43.it Gian Gaetano Bellavia, commercialista esperto di diritto penale dell’economia, già consulente in materia di riciclaggio per la procura di Milano, «sono come le macchine. Si possono usare per fare la spesa, per portare i figli a scuola. E per fare una rapina».
Il problema è uno: «I politici si sono appropriati di uno strumento giuridico particolare solo per farsi i fatti propri». Si tratta, in altre parole, di un uso (spesso) illecito di uno strumento lecito.
Le fondazioni nacquero infatti nell’800 con finalità di pura beneficenza, per gestire immobili e denari donati. Quindi non era certo necessaria una «pubblicità» dei bilanci. Le cose poi sono cambiate.
BILANCI SOLO IN PREFETTURA. Oggi i bilanci devono essere redatti, questo sì. «Per essere presentati ai membri del consiglio di amministrazione. Poi vengono consegnati, da sempre, in prefettura», continua Bellavia. Ma i controlli, secondo l’esperto, «non ci sono. Il prefetto di fatto è l’unico che può sciogliere una fondazione. Ma all’interno della prefettura nessuno si occupa di vagliare le carte». Senza considerare un particolare: alla fine «controllati e controllori appartengono alla stessa categoria».
Per cambiare le cose servirebbe poco. Ora che il premier Matteo Renzi ha annunciato un’accelerata contro la corruzione, potrebbe molto semplicemente «rendere obbligatoria la trasparenza delle fondazioni». E l’iscrizione alle Camere di commercio. «Basta che depositino i bilanci», conclude Bellavia, «anche gratis».

Symbola e Open, le uniche ad aver un bilancio pubblico

Ermete Realacci, presidente della commissione Ambiente alla Camera.

Ermete Realacci, presidente della commissione Ambiente alla Camera.

Ci sono delle eccezioni, però: Open, che ha raccolto l’eredità della fondazione Big Bang a sostegno di Matteo Renzi, e Symbola, del deputato Pd Ermete Realacci. Quest’ultime sono le uniche due fondazioni ad avere scelto la massima trasparenza di bilanci e liste dei sostenitori.
IL TETTO MASSIMO.«Abbiamo un tetto massimo di 10 mila euro per le donazioni», spiega a Lettera43.it il presidente Realacci, «e un minimo di 50 euro». Symbola si occupa di promuovere e studiare la qualità italiana. «Non organizziamo eventi politici a sostegno del Pd», chiarisce il presidente. «Svolgiamo lavori di ricerca e redigiamo rapporti. Abbiamo anche rinunciato alla donazione del 5 per mille». Symbola vive sulle donazioni dei soci e sulle sponsorizzazioni. Ma è tutto «trasparente», insiste Realacci. E, infatti, sul sito è possibile consultare il bilancio preventivo 2013: entrate previste 877.940 euro e un utile di 49.485 euro.
Open nel 2013 ha registrato proventi per 1.027.546 euro e oneri per 1.064.288 euro.
Tutto nero su bianco. Insieme con la lista dei sostenitori, per un totale di finanziamenti ricevuti pari a 1.905.819,99 euro.

Italianieuropei, la trasparenza solo se c’è una legge ad hoc

Massimo D'Alema.

A metà strada sta la dalemiana Italianieuropei il cui bilancio, come tengono a sottolineare gli addetti stampa, è depositato alla Camera di Commercio anche se «non ce ne sarebbe l’obbligo».

Per pubblicare finanziatori e quant’altro, però, aspettano una legge. Per adesso preferiscono rispettare la «privacy» dei donatori. Il problema, dicono dalla fondazione, è regolamentare le lobby. Soprattutto ora che è venuto meno il finanziamento pubblico ai partiti. Imprese e gruppi infatti potrebbero fare pressione dietro finanziamenti coperti dal segreto.
PER D’ALEMA&CO 16,7 MLN DALL’UE. Italianieuropei, però, fa parte di una super-fondazione europea, la Feps (Foundation for european progressive studies: qui il bilancio) attraverso la quale percepisce finanziamenti pubblici Ue: dal 2008 al 2013, secondo Il Fatto Quotidiano, si è portata a casa 16,7 milioni di euro.
Si dice pronto «a rendere pubblici i bilanci» anche Anche Adolfo Urso, presidente di Fare Futuro. «Nonostante con la pubblicità ci sia il rischio che le donazioni private diminuiscano per la paura di esporsi.
CICCHITTO: «L’UNICA VIA PER I PARTITI». Ma, anche alla luce delle ultime inchieste, «la trasparenza pagherebbe sicuramente di più».
Fabrizio Cicchitto, di Riformismo e Libertà, dal canto suo, vede nelle fondazioni «l’unica via di finanziamento regolare ai partiti». Con l’abolizione dei contributi pubblici, «non c’è alternativa». Anche se la «sua» fondazione, poi trasformata in associazione per problemi economici, era «sui generis: non finanziavamo l’attività politica, tantomeno una corrente. Organizzavamo dibattiti».

Fare Metropoli e Liberamente, soldi costestati a Penati e Gelmini

Filippo Penati.

Filippo Penati.

Mafia Capitale, però, non è la prima inchiesta che tocca le fondazioni.
PENATI E IL TESORETTO DA 363 MILA EURO. Sempre un’associazione – Fare Metropoli – era al centro del cosiddetto Sistema Sesto San Giovani del piddino Filippo Penati. Definita dagli inquirenti un «mero schermo destinato a occultare la diretta destinazione delle somme» all’ex presidente della Provincia di Milano per le sue campagne elettorali. Si parlò di 18 finanziamenti illeciti da aziende e banche per un totale di circa 363 mila euro.
IL CASO LIBERAMENTE. Nell’inchiesta «Ambiente svenduto» sull’Ilva di Taranto emerse invece – come riportato dalla Gazzetta del Mezzogiorno – «un contributo di 4-5 mila euro chiesto a Fabio Riva dall’avvocato Luigi Pelaggi, capo della segreteria tecnica del ministero dell’Ambiente per l’organizzazione il 10 luglio 2010 a Siracusa di un convegno della fondazione Liberamente», ente fondato dall’allora ministro dell’Ambiente Stefania Prestigiacomo con i colleghi Mariastella Gelmini e Franco Frattini.
E proprio Gelmini tiene a precisare a Lettera43.it che si è trattato «di un caso isolato». «Non va fatta di tutta l’erba un fascio», ripete l’ex ministro berlusconiano. «Le fondazioni sono perfettamente regolamentate, poi dipende dall’uso che se ne fa».
Insomma, la responsabilità è «individuale». E il problema, se problema lo si vuole chiamare, «non è certo la trasparenza», continua Gelmini: «A servire è una norma sulle lobby».

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La solidarietà impossibile per Nino Di Matteo

si-muore-quando-si-e-lasciati-soliPino Maniaci è arrivata la telefonata di Matteo Renzi in persona: “Pino vienimi a trovare a Roma”, ha detto il premier manifestando solidarietà al giornalista, minacciato per l’ennesima volta, con il macabro atto dei cani impiccati. Una telefonata simile a quella fatta dal premier pochi giorni fa, quando sotto minaccia era finita il pm di Latina Lucia Aielli: anche in quel caso dal centralino di Palazzo Chigi era partita la chiamata di solidarietà di Renzi. Pochi mesi fa, invece, a squillare era stato il telefono di don Luigi Ciotti: “Farà la fine di Don Puglisi“, aveva sentenziato Totò Riina, intercettato dalla Dia nel carcere milanese di Opera mentre chiacchierava col compagno d’ora d’aria Alberto Lorusso. A stringersi giustamente attorno al fondatore di Libera erano arrivati i messaggi di solidarietà di tutta la classe politica, dal Nuovo Centro Destra a Sel, passando dai Cinque Stelle. Poi, dopo l’ormai classica chiamata di solidarietà di Renzi, era arrivata la telefonata di Giorgio Napolitano in persona.

Uno solo è il numero di telefono che i centralini di Palazzo Chigi e quelli del Quirinale non hanno mai composto: quello di Nino Di Matteo, il pm della Trattativa Stato mafia. “Gli farei fare la fine del tonno, lo faccio finire peggio del giudice Falcone” aveva detto Riina, emettendo la sua sentenza di morte. Un ordine che, come ha svelato il neo pentito Vito Galatolo, è in fase esecutiva dal dicembre del 2012. Il piano di  un attentato al tritolo svelato nei dettagli dall’ex picciotto dell’Acquasanta è stato preso sul serio dalla procura di Caltanissetta e dal prefetto di Palermo Francesca Cannizzo: messo al corrente del racconto di Galatolo, il ministro Angelino Alfano si è affrettato a convocare una riunione straordinaria del Comitato per l’ordine e la sicurezza.  E anche il governo ha agito di conseguenza inserendo proprio ieri un emendamento alla legge di Stabilità che prevede lo stanziamento di sei milioni di euro per realizzare misurestraordinarie di sicurezza al Palazzo di giustizia di Palermo. Palazzo Chigi, dunque, ritiene credibile il progetto di strage annunciato dal pentito, al punto da mettere a disposizione una cifra considerevole (in tempi di spending review) per fare del Palazzo di Giustizia un vero e proprio fortino, ma il telefono del pm condannato a morte è rimasto muto: nessun messaggio da Renzi, nessun cenno, neppure minimo, di solidarietà da parte del Quirinale.

E se da Roma i messaggi di vicinanza per Di Matteo o sono generici oppure semplicemente non esistono, a Palermo non va certo meglio: a parte il sindaco Leoluca Orlando, e qualche esponente del Pd o del Movimento Cinque Stelle, per la classe dirigente cittadina il pm della Trattativa semplicemente non esiste. Nessun messaggio da parte della Palermo dei professionisti, neppure quelli dell’antimafia, sempre impegnati in continui convegni per ragionare sul problema Cosa Nostra, sordi e ciechi di fronte al piano dettagliato di un attentato, con il tritolo già pronto per essere piazzato nel centro della città.

E se la solitudine di Di Matteo si percepisce anche soltanto avvicinandosi al secondo piano del palazzo di giustizia di Palermo, ancora irrisolta è la questione sicurezza.”Mi risulta che Di Matteo sia protetto nel migliore dei modi”, assicura il presidente del Senato Piero Grasso, sulla stessa lunghezza d’onda del procuratore antimafia Franco Roberti: “A Di Matteo sono state assicurate misure di altissimo livello di protezione. Bisogna tenere sempre alta la guardia, in questo momento il collega è particolarmente esposto per le cose che ha fatto e per quelle che fa, quindi va tutelato e sostenuto”. Di segno opposto il parere degli uomini della scorta del pm: “L’unico strumento che ci può salvare la vita è il bomb jammer” dicono, riferendosi al congegno elettronico capace di neutralizzare i telecomandi che attivano gli ordigni esplosivi.  “Il bomb jammer per Di Matteo? E’ già stato messo a disposizione” assicurava Alfano dopo le minacce di Riina. Era il dicembre del 2013: da allora sono passati dodici mesi, è arrivata la confessione di Galatolo sul progetto attentato da mettere in pratica con un’autobomba, ma il bomb jammer per Di Matteo non è mai arrivato. Anzi è arrivata quasi una mezza marcia indietro del Ministro dell’Interno. “Si è parlato con troppa superficialità di bomb jammer: ci sono state riunioni in questi giorni e lo Stato sta mettendo a punto tutti i dispositivi necessari per proteggerlo da congegni elettronici di attivazione dei telecomandi delle bombe senza però creare danno alle apparecchiature elettroniche che possono trovarsi vicino al suo passaggio”.

Riunioni e studi che sarebbero, si presume, ancora in corso. E mentre a Palermo si aspetta il bomb jammer, Di Matteo continua a lavorare ogni giorno per servire lo Stato: lo stesso Stato che sembra lasciarlo ogni giorno più solo.

(fonte)

(Per firmare la petizione e il mailbombing potete andare qui)

Un figlio che diventa dolore, poi poesia, poi libro.

Schermata 2014-12-13 alle 18.52.39Ho appena finito di leggere il libro di Simona Sparaco: Nessuno sa di noi

Mi porto via insieme all’ultima pagina un dolore scritto a cuore aperto, senza nessuna paura, senza i filtri che vorrebbe la buona educazione e mi viene da pensare a quante mosche ci hanno volta sopra a quel cuore senza barriere.

Vi prego: prima di provare a “incasellare” le vite, i sentimenti o le regole abbiate il coraggio di leggere che forma ha il dolore di un figlio “a perdere” per una donna.

Il libro lo potete acquistare qui

Le inopportunità e la ‘ndrangheta a Fino Mornasco, Como, Lombardia.

Affari e politica, favori in cambio di voti. E’ la ‘ndrangheta che si divora la Lombardia anche grazie alla compiacenza della pubblica amministrazione. E così mentre le inchieste fissano ruoli e competenze dell’infiltrazione, alle prefetture tocca il compito di valutare le ipotesi di scioglimento per mafia dei comuni del nord. E’ successo per Sedriano dopo l’indagine Grillo Parlante che ha coinvolto non solo il sindaco Alfredo Celeste ma anche l’ex assessore regionale Domenico Zambetti. Rischia di ripetersi oggi per il comune di Fino Mornasco. Il prefetto di Como Bruno Corda, infatti, ha intenzione di chiedere l’accesso agli atti della pubblica amministrazione. Corda lo ha detto esplicitamente ai membri della Commissione parlamentare antimafia che il 25 novembre sono saliti a Milano. Corda è stato ascoltato dopo che il 18 novembre l’operazione Insubria, coordinata dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini, ha svelato gli interessi di tre locali di ‘ndrangheta: Cermenate, Calolziocorte e Fino Mornasco, quest’ultima definita come “uno dei più fulgidi esempi di comunità mafiosa nel nord Italia”. Il comune del Comasco così si candida a essere la seconda città lombarda sciolta per mafia.

Il primo spunto dal quale parte il Prefetto è l’inchiesta Insubria del 18 novembre 2014. L’indagine del Ros, infatti, nasce da una serie di atti intimidatori, “che – scrive il giudice Simone Luerti nella sua ordinanza d’arresto – pur se all’apparenza scollegati tra loro, possono essere, con alta probabilità, ricondotti a un filo comune”. Tra le vittime ci sono anche tre politici: si tratta dell’attuale sindaco Giuseppe Napoli, dell’ex vicesindaco Antonio Chindamo e dell’attuale presidente del consiglio comunale Luca Cairoli, il quale subisce ben quattro intimidazioni: il 24 novembre 2011 viene appiccato un incendio davanti alla sua concessionaria di auto Finomotori. Il 10 dicembre 2011 qualcuno invia una richiesta estorsiva sempre all’autosalone, l’8 febbraio 2011 ignoti sparano con un fucile calibro 12 contro la Finomotori, il 14 giugno 2012 arriva una lettera minatoria.

Politica sotto scacco, dunque. Questa la fotografia scattata dal Ros. Fotografia parziale. Per capire, infatti, bisogna riprendere l’inchiesta Arcobaleno che tra il 2009 e il 2010 mostra l’opacità della stessa politica locale. Nelle oltre mille pagine dell’informativa dei carabinieri di Como finiscono centinaia di intercettazioni e decine di amministratori pubblici. Sull’inchiesta pesa attualmente una richiesta di archiviazione.

Ma se i contatti con gli uomini delle cosche da un lato non hanno rilevanza penale, dall’altro le intercettazioni dei carabinieri mettono in primo piano le responsabilità politiche di diversi amministratori pubblici. Tra questi certamente l’attuale presidente del consiglio comunale di Fino Mornasco Luca Cairoli (non indagato), il quale, se tra il 2011 e il 2012 subisce quattro intimidazioni, nel 2010 è in contatto con diversi pregiudicati calabresi. In quell’anno, poi, annotano i carabinieri di Como, Cairoli si occupa della campagna elettorale del consigliere regionale Pdl Gianluca Rinaldin (non indagato), recentemente coinvolto nella “rimborsopoli” della Regione Lombardia. Lo stesso Rinaldin che, intercettato dalla Dda, afferma: “A me interessa la parola (…) cioé preferisco sedermi col peggior delinquente di questo mondo ma di parola”

Tra i vari contatti di Cairoli c’è Luciano Nocera, trafficante di droga legato al boss Bartolomeo Iaconis e alla cosca Muscatello di Mariano Comense, recentemente coinvolta nell’operazione Quadrifoglio del Ros di Milano. Nocera risulta indagato anche per l’omicidio di Ernesto Albanese ucciso a Guanzate nel maggio 2014. Nel 2010 Luca Cairoli spende i propri contatti politici per far ottenere a Nocera una licenza per aprire il locale Black Mamba ad Appiano Gentile.

Il 10 marzo così va in scena un’incredibile intercettazione tra Cairoli, l’allora consigliere regionale Rinaldin e Martino Clerici (non indagato), all’epoca sindaco di Appiano e oggi consigliere di maggioranza nello stesso comune. Cairoli chiama Rinaldin il quale risponde e chiede: “Sono al telefono con il sindaco di Appiano, si chiama Nocera questo qua”. Cairoli: “Sì Nocera”. Dice Rinaldin: “Lo ha appena visto mezz’ora fa e gli risolve il problema (…) aspetta che unisco le telefonate”. Cairoli e Martino Clerici si salutano. Il sindaco: “Lo conosco bene lui (Nocera, ndr)”. Rinaldin chiede a Clerici: “L’hai incontrato oggi?”. Il primo cittadino risponde in modo affermativo. La questione della licenza, dunque, pare risolversi. Cairoli rivolto a Rinaldin: “Gianluca guarda abbiamo fatto un affare perché se il problema glielo risolviamo questo qua è uno che mo smette di lavorare e ci procura voti certi”. A quel punto il consigliere regionale lo ammonisce: “Non parlare al telefono che poi qualcuno…”. Poche ore dopo Cairoli è al telefono con lo stesso Nocera: “Lucio ci ho parlato (…) eravamo in conferenza io, il sindaco e Gianluca Rinaldin che è quello che appoggiamo (…). Il Sindaco, mi fa non c’è problema”.

In quel 2010 Cairoli raccoglie firme per la candidatura di Rinaldin. Per farlo si appoggia anche a Salvatore Larosa soprannominato Satana e ritenuto affiliato alla locale di Fino Mornasco con la dote di santista. Coinvolto nel blitz Insubria del 18 novembre, si consegnerà alle forze dell’ordine dopo pochi giorni di latitanza. I due si sentono spesso. Si salutano con l’appellativo di “compare”. Il 22 febbraio 2010 sono al telefono. Argomento: la campagna elettorale per le regionali. “Noi compare – dice Larosa – adesso dobbiamo andare nei comuni più lontani (…) devo chiedere le schede elettorali”. Risponde Cairoli: “Sì e dì che stai facendo la presentazione della lista e delle schede elettorali”. Della partita elettorale è anche Michelangelo Chindamo l’eminenza grigia della ‘ndrangheta anche lui arrestato il 18 novembre 2014. Larosa si rivolge al boss con il voi. “Quando ci vediamo?”, chiede Chindamo e spiega: “Perché (di firme, ndr) ne ho trovate altre”. Larosa spiega che ne bastano “cinque o sei”, poi dice: “Diciamo che poi è più importante ancora di più il voto queste firme qua sono importanti ma il voto dopo è ancora più importante”

Inquietano e non poco alcune espressioni di Antonio Chindamo (altro politico intimidito nel 2012 e non indagato), il quale, all’epoca delle intercettazioni, è vice sindaco di Fino Mornasco. Il 16 marzo 2010, all’interno dell’ufficio tecnico del comune, Chindamo parla con un architetto e racconta l’episodio di una persona che lo ha minacciato. “Gli ho detto – spiega il politico – se il tuo discorso è quello di intimorirmi perche parli di pistole guarda hai sbagliato strada te lo dico subito (…) Tu sai qual è la mia provenienza? Le pistole le troviamo in ogni angolo del mondo”. Annotano i carabinieri: “Pasquale, fratello di Antonio Chindamo, già candidato nelle elezioni amministrative del 1975 per il comune di Fino Mornasco, nel 1996 viene coinvolto nell’operazione antimafia La notte dei fiori di San Vito bis”. L’indagine Arcobaleno, come detto, si occupa anche del boss Michelangelo Chindamo (nessuna parentela accertata con l’ex politico), scarcerato nel 2009 e riarrestato il 18 novembre 2014. Definito dal Ros di Milano, capo della locale di Fino Mornasco, il 31 luglio 2009 Chindamo viene controllato dalla polizia stradale a Lamezia Terme. L’auto su cui viaggia è intestata alla Omega Team srl di Casnate con Bernate, società riconducibile ai figli dell’ex vicesindaco.

Politici e boss. Contatti, relazioni, favori, voti. Ci sono le intercettazioni, ma ad oggi non c’è reato. Responsabilità politiche però sì e molti ora dovranno spiegare. Questa la feroce istantanea di uno dei territori più ricchi d’Italia.

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Buzzi che citofona alla ‘ndrangheta

Per tutti quelli che “sono solo affaristi”:

Il patto con la ‘ndrangheta

Gli arresti dei carabinieri del Ros sono scattati poche ore prima dell’audizione di Pignatone all’Antimafia: in carcere sono finiti Rocco Rotolo e Salvatore Ruggiero, che già nel 2009 si sarebbero recati in Calabria, su richiesta di Buzzi, per accreditarsi con la cosca Mancuso di Limbadi (Vibo Valentia), in relazione all’esigenza di ricollocare gli immigrati in esubero nel Cpt di Crotone. A luglio scorso il clan avrebbe chiesto il conto: in cambio della protezione Buzzi – con l’assenso di Carminati, a cui giovedì i militari hanno sequestrato una katana, cioè una spada da samurai, nella casa di Sacrofano – avrebbe fatto ottenere l’appalto per la pulizia del mercato Esquilino a Giovanni Campennì, imprenditore di riferimento della cosca, mediante la creazione della cooperativa Santo Stefano. Il clan calabrese sarebbe comandato da Sabatino Di Grillo e dal suo braccio destro Vincenzo Evolo, già coinvolti nell’inchiesta sui legami tra la ‘ndrangheta e alcuni imprenditori in Lombardia: giovedì Evolo è stato perquisito e ha ricevuto un avviso di garanzia.

(fonte)

Anche il Portogallo riconosce la Palestina. In Italia tutto tace.

 Il parlamento portoghese ha votato in favore del riconoscimento da parte del governo della Palestina come “stato indipendente e sovrano”. La mozione era stata presentata dalla maggioranza di centrodestra insieme con il Partito socialista, principale schieramento d’opposizione. Il Portogallo si unisce così ai parlamenti di Francia, Gran Bretagna, Spagna e Irlanda che hanno tutti riconosciuto lo stato palestinese. Caso a parte la Svezia, dove è stato il governo stesso a riconoscere la Palestina.

(link)

A Roma si appendono al prefetto. Imperfetto.

Apre il suo blog Emiliano Fittipaldi, e punta diritto là dove nessuno osa andare:

Ordunque è lui, il prefetto di Roma, il mr. Wolf che deve salvarci dai cattivi di Mafia Capitale. È “Peppino”, come lo chiama l’ex dg Rai Mauro Masi, l’uomo che deve ripulire i sette colli dalla lordura dei fascio-ladroni e dei politici corrotti. È lui che in questi giorni dichiara e tranquillizza («non scioglierò il comune, sarebbe una vergogna») e che vuole dare la scorta a Marino. È sempre lui, uomo di Stato, che il ministro dell’Interno Angelino Alfano ha mandato a spulciare le carte degli appalti del Campidoglio.

Epperò sarà davvero Giuseppe Pecoraro l’uomo giusto per l’impresa? Il nocchiere senza macchia che a cui affidare il timone in così perigliosa tempesta? In effetti il suo nome torna alla mente non tanto per la gestione della Prefettura romana, finita in polemiche continue (dai funerali di Priebke all’annullamento dei matrimoni gay), ma per l’inchiesta napoletana sulla P4. Ossia l’organizzazione capeggiata dal faccendiere Luigi Bisignani che manovrava nell’ombra il potere politico, gli affari milionari  e le nomine pubbliche di società di Stato e servizi segreti.

Oggi sembra che se lo siano dimenticati tutti. Ma il nome di Pecoraro fa capolino spesso e volentieri tra le carte dell’inchiesta. E non poche sono le telefonate tra il prefetto e Bisignani, condannato a 1,7 anni i reclusione per una sfilza di reati, tra cui associazione per delinquere, favoreggiamento, rivelazione di segreto e corruzione.

Tre anni fa i colloqui tra i due sodali hanno incuriosito non poco il pm Henry John Woodcok, che  cercò di capire come mai il prefetto chiamava il faccendiere discutendo di questioni assi sensibilil, come riunioni del Copasir e affari di imprenditori prodiani come Angelo Rovati. Così il magistrato, il 23 febbraio di quell’anno, convocò il prefetto nei suoi uffici (Pecoraro non è mai stato indagato per la vicenda) in modo da avere delucidazioni. Lì il poliziotto, nominato prefetto su proposta dei sottosegretari berlusconiani Nitto Palma e Mantovano, ammise che sì, Bisignani lui lo conosceva bene. «Dal 2004, da quando ero capo della segretaria del capo della Polizia De Gennaro. Io parlo con Bisignani come si parla ad un amico. Siamo amici di famiglia, conosco anche la moglie», spiegò.

Pecoraro, rappresentante dello Stato, frequenta Bisignani anche se sa che il lobbista anni prima è stato arrestato e condannato in via definitiva per il riciclaggio della maxitangente Enimont allo Ior. Incredibilmente, il prefetto nega a Woodcock di sapere che l’amico è stato anche iscritto alla loggia segreta P2. «Mi risulta, però, che sia legato al sottosegretario Gianni Letta…Escludo che il Bisignani si sia speso per farmi ottenere la nomina di Prefetto di Roma: la mia carriera e il mio curriculum sono ineccepibili».

Meno ineccepibile, secondo i pm, è il tenore delle loro conversazioni. I due al telefono parlano di tutto. Se Gigi chiede all’amico di intervenire nella scuola della figlia dell’ex ministro Stefania Prestigiacomo perchè infestata «da cinghiali», Pecoraro cerca di sapere dal lobbista informazioni su un progetto per un Parco Giochi a Val Montone. «Bisignani mi disse che c’era dietro anche Angelo Rovati, che chiamai facendo presente che c’erano problemi di viabilità legati all’apertura del predetto parco. Perchè chiamai Bisignani? È un imprenditore che conosce tutti. Ho richiamato poi direttamente Rovati perchè avevo già parlato con la presidenza del Consiglio senza successo. Rovati lo conosco da tanti anni, non volevo danneggiare l’iniziativa». In realtà è lo stesso Bisignani a spiegare ai magistrati che Pecoraro lo aveva chiamato «per mettere in guardia Rovati, consigliandogli di dirgli di uscire dall’affare». Per i pm napoletani il colloquio telefonico è perfetta metafora del potere della ragnatela del lobbista: «Che un prefetto ritenga normale rivolgersi a un privato cittadino per contattare un imprenditore coinvolto in un procedimento amministrativo di sua competenza la dice lunga sull’anomalia Bisignani».

In altre telefonate Pecoraro spiega al pidduista di aver parlato con il segretario di Letta (ora ai servizi segreti), in un’altra chiede a Bisi di trovare lavoro a un suo amico, «l’ex collega Mario Esposito, prefetto in pensione, che voleva lavorare come consulente in materia di sicurezza». In un’altra telefonata tra i due si parla addirittura di una riunione del Copasir, il comitato di controllo dei nostri 007, che avrebbe dovuto discutere di alcune accuse lanciate da Massimo Ciancimino a De Gennaro. «Appare inquietante» chiosano i magistrati napoletani che indagano sulla P4 «il fatto che il Bisignani e il prefetto Pecoraro parlino dell’ordine del giorno del Copasir, se si pensa che il Bisignani è soggetto assolutamente estraneo alle istituzioni dello Stato».

Pecoraro, però, non è d’accordo: l’amico Gigi lo ha sempre tenuto in gran conto: «Le accuse contro di lui? È un aspetto che non conosco, mi stupisce e mi auguro che non sia vero» disse a “Repubblica” quando Bisi venne arrestato «Detto ciò non voglio esprimere alcun giudizio. Io in questa vicenda ci sono entrato come i cavoli a merenda».

Ma l’uomo che qualcuno vorrebbe commissario di Roma al posto del sindaco Marino s’è fatto notare anche per altre vicende. Se recentemente ha difeso i poliziotti che hanno manganellato gli operai dell’Ast di Terni, lo scorso aprile ha giustificato l’agente immortalato a “camminare” sul costato di una ragazza inerme finita in terra durante una manifestazione. «Il poliziotto non doveva essere lì, è vero, ma forse voleva dare una mano ai suoi colleghi: per la frenesia e la frustrazione di chi, improvvisamente, si sente bersaglio alla mercé di chi, i manifestanti, è chiamato a tutelare», disse.

Ma Pecoraro è stato protagonista anche della scandalosa espulsione della moglie e della figlia del dissidente kazako Mukhtar Ablyazov, Alma e Alua Shalabayeva, un’azione definita «illegale» sia dall’Onu che da Amnesty International e gravata, secondo la Cassazione, da «manifesta illeggittimità originaria».Un abuso, da stato di polizia: la donna aveva i documenti in regola, ma le autorità italiane non vollero vedere. Piegate da motivazioni ancora oscure. Ebbene quel provvedimento, deciso dal ministero dell’Interno, portava la firma del prefetto Pecoraro.

Già. L’intoccabile Peppino, promosso in questi giorni a salvatore della Patria.

Gli effetti non secondari di “Mafia Capitale”

In Italia la miopia delle politiche sociali considerate un costo e un peso da appaltare il più possibile ha lasciato al terzo settore e alla cooperazione il compito di sostenere quasi intere porzioni di umanità.

Nel terzo settore e nella cooperazione lavorano moltissimi uomini e donne che hanno scelto di sacrificare (anche economicamente) la propria vita in nome di un valore da professare nel proprio mestiere.

Carminati e compagni sono riusciti a pisciare anche su questi. Anche se sente poco in giro.

L’egoismo ancora vince sulla solidarietà.

Il processo “Crimine” regge anche in appello

Un importante articolo di Claudio Cordova:

E’ la scommessa investigativa della DDA reggina. Una scommessa vinta. Anche le motivazioni d’appello del procedimento “Crimine” non fanno che confermare l’unitarietà della ‘ndrangheta. Un risultato ottenuto dopo decenni, sebbene fin dal summit di Montalto, del 1969, si parli di unitarietà delle cosche. E tanti saranno i riferimenti anche nelle indagini dei decenni successivi. Solo con il blitz del luglio 2010 (e con i vari procedimenti nati da esso) si arriverà all’assunto decisivo. Un’evoluzione, quella delle cosche, che si pone “in senso piramidale e tendenzialmente unitario dell’organizzazione criminale di stampo mafioso denominata Ndrangheta”. Ma anche “una evoluzione nella continuità, che dimostra ancora una volta la multiforme capacità dell’associazione illecita in oggetto – considerata ad oggi quella più potente e ramificata tra le organizzazioni mafiose storiche italiane – di adeguarsi ai tempi e di trovare delicati e efficaci punti di equilibrio e di sintesi tra rispetto delle tradizioni e delle regole (che affondano in un retroterra sociale e culturale arcaico e di sottosviluppo e di supplenza illegale rispetto alle assenze o complicità dello Stato) e adeguamento alle nuove realtà economiche e finanziarie, che offrono ulteriori e succulenti sbocchi alle attività illecite di questa organizzazione criminale”.

La Corte presieduta da Rosalia Gaeta, dunque, premia ancora una volta il lavoro dei pm antimafia reggini (Giovanni Musarò, Marialuisa Miranda e Antonio De Bernardo: “Può senz’altro dirsi che gli elementi raccolti nel presente procedimento penale possono realmente costituire la base per un primo vero processo contro l’associazione mafiosa denominata ‘Ndrangheta nel suo complesso, indistintamente dalle cosche di appartenenza dei singoli soggetti indagati” è scritto nelle motivazioni.

Di ‘ndrangheta unitaria si parlerà per decenni. Il 26 ottobre 1969, nel corso di un summit di Ndrangheta tenutosi in località Serro Juncari, ai piedi del massiccio di Montalto, sull’Aspromonte, interrotto dall’intervento della Polizia di Stato, il vecchio boss Giuseppe Zappia aveva affermato: “Qui non c’è ‘ndrangheta di Mico Tripodo, non c’è ‘ndrangheta di ‘Ntoni Macrì, non c’è ‘ndrangheta di Peppe Nirta! Si deve essere tutti uniti, chi vuole stare sta e chi non vuole se ne va”. Un ventennio dopo, in una conversazione intercettata il 8 maggio 1998 tra Filiberto Maisano e tale Leone Mauro, il primo diceva tra l’altro: “… non ci sono mandamenti per niente, compare Leo, ci sono …che se vi dà una carica per parte … una carica alla Tirrenica, una alla Jonica e una al Centro … (…) noi siamo tutti uomini dello stesso modo … siamo tutti del crimine … criminali … e basta! (…)”.

Ancora vent’anni dopo, il 20 gennaio 2009 nella città di Singen (Germania), durante una riunione tra affiliati, l’imputato Salvatore Femia chiede: “Ma il nostro referente che è sotto chi è?” – “Don Mico Oppedisano, risponde Tonino Schiavo, Lui è uno del Crimine! E’ di Rosarno (…) E’ il numero uno!”. Ed ancora, Bruno Nesci, residente in Germania, afferma “la società mia è da sette anni che sta rispondendo al Crimine, sette anni… e là c’è il nome mio, la società mia è aperta, non la devo aprire… loro devono aprirla…. che vada a domandare al crimine quali nomi rispondono”.

Nella stessa data, dialogando in Lombardia in ordine a dinamiche criminali di quel territorio, tale Nino Lamarmore (ritenuto intraneo alla Ndrangheta operante in quella regione del Nord Italia) diceva a Stefano Sanfilippo: “Noi prendiamo decisioni dal Crimine…. siamo andati a Platì”.

E subito dopo l’omicidio del boss scissionista Carmelo Novella, Giuseppe Piscioneri riferiva a Antonio Spinelli: “Nunzio (Novella Carmelo) era stato fermato da giù (dalla Calabria) … tutti gli uomini si possono fermare….la provincia…. Li ferma la provincia” ….” Quando sei fermo per la Calabria sei fermo per tutti”.

Scrive la Corte d’Appello: “E’ stata una precisa scelta processuale della stessa Direzione distrettuale antimafia reggina l’aver voluto impostare l’odierno processo come un giudizio per così dire di “Ndrangheta pura”, puntando sulle prove inerenti l’associazione criminale mafiosa in sé, senza portare alla cognizione di questo giudice (e, quindi, contestare agli imputati) se non una piccola parte di reati c.d. fine: ciò in quanto l’obiettivo era quello di dimostrare (peraltro con successo) l’esistenza di una struttura unitaria di un sodalizio storicamente e processualmente già accertato nella sua materialità, nonché una sua diffusività sul territorio (calabrese e non solo).

Una struttura unitaria da cui dipenderebbero le varie propaggini in giro per l’Italia e per il resto del mondo. Un discorso valido per tutti gli altri territori, quello che la Corte fa per la Lombardia: “Emerge certamente un quadro in evoluzione, nel tentativo di trovare un punto di equilibrio tra le aspirazioni autonomistiche dei locali lombardi e l’intento della “casa madre calabrese” di esercitare comunque un controllo sulle sue “filiazioni”; emerge, altresì la circostanza che i locali lombardi debbono essere riconosciuti dalla “Lombardia” per trovare riconoscimento anche in Calabria, anche se a sua volta la “Calabria” deve dare il nulla osta per conferire nuove doti e per aprire nuovi locali, estendendo la sua influenza ben al di là dello stretto ambito territoriale regionale (ed in ciò riscontrando specularmente quanto si vedrà a proposito dell’articolazione tedesca della Ndrangheta). Scrivono, ancora, gli inquirenti che “Le ” filiazioni lombarde” sono una imponente ” testa di ponte” per inserirsi in un mercato certamente più ricco e di più ampie prospettive rispetto alla realtà del sud. In effetti, un’ultima annotazione sul tema “la Lombardia”; come già si è detto in Lombardia sono “attivi” 20 locali per un complesso di circa 500 affiliati. Si tratta all’ evidenza di ” un piccolo esercito” a disposizione delle cosche calabresi le cui mire, al di là delle questioni di forma afferenti l’ attribuzione delle “cariche”, sono la spartizione degli affari, come afferma lo stesso capo del Crimine Micu Oppedisano”.

A chiedere consiglio (o permesso) ai vari Oppedisano e Commisso si recano personaggi da ogni parte del mondo: “In passato si trattava solo di usare un argomento logico-sistematico che, oggi, è invece divenuto un prepotente ed incontestabile dato fattuale: oltre alle inequivoche intercettazioni che saranno oltre riportate nel prosieguo dell’esame delle singole posizioni soggettive, deve sottolinearsi come si assiste ad un continuo “pellegrinaggio” che individui provenienti da ogni parte del globo effettuano presso l’agrumeto di Oppedisano Domenico e presso la lavanderia di Commisso Giuseppe. Quali ragioni, diverse da quelle di obbedire ad un’unica entità criminosa che determina la vita del sodalizio, potrebbero celarsi dietro i viaggi di soggetti residenti ed operanti in Germania, Canada, ecc.. presso i citati Commisso e Oppedisano, ai quali rendono conto e chiedono direttive sulla vita del sodalizio in terre distanti decine di migliaia di chilometri?” si chiede la Corte d’Appello.

L’indagine “Crimine”, dunque, riesce dove altri, in passato, avevano fallito: “Orbene, alla luce del poderoso compendio probatorio fin qui riportato, appare del tutto evidente che la conclusione raggiunta dal primo giudice, pienamente condivisa da questa Corte, non deriva da una costruzione investigativa, ma costituisce una conclusione obbligata dalle emergenze processuali dell’indagine, che rappresenta una decisa virata nella direttrice giudiziaria fin qui susseguìta. Si ribadisce, l’interprete non può che limitarsi a prendere atto che l’unitarietà della ‘ndrangheta è caratteristica attestata dagli stessi protagonisti, esplicitamente ed inequivocamente affermata in plurime conversazioni, peraltro intrattenute dai più disparati correi, in realtà territoriali del tutto diverse. Si cita, emblematicamente, la vicenda relativa al defunto boss Novella, cui gli stessi sodali hanno addebitato una volontà di “distaccarsi” dalla Calabria che ne ha determinato la “fine”, perché “la Provincia lo ha licenziato”, o ancòra le nette, plurime e convergenti affermazioni contenute nelle intercettazioni o le dichiarazioni rese dal collaboratore, secondo cui le ‘ndrine stanziate in Lombardia fuori dalla Calabria rispondono comunque al Crimine, da cui prendono “disposizioni”, richiamandosi poi le numerose altre emergenze citate dal GUP tutte conferenti con l’impianto accusatorio, posto che hanno in comune il medesimo denominatore: la “dipendenza” dei gruppi siti fuori regione dal “Crimine” e dalla “madrepatria”, da cui mutuano la struttura e derivano la loro stessa essenza , talchè risulta palesemente che se anche i precedenti processi celebrati nel distretto giudiziario reggino non abbiano riconosciuto l’esistenza di una struttura unitaria dell’associazione, ciò è avvenuto esclusivamente per un deficit probatorio che la presente indagine ha invece colmato ed anzi esaltato come detto in tutta la sua chiarezza”.

Inoltre, i giudici di secondo grado liquidano anche il pretesto, avanzato da più parti, della presunta assenza dei De Stefano nell’inchiesta: “Nell’ingente compendio probatorio acquisito al processo è rinvenibile un preciso e significativo riferimento alla famiglia ndranghetistica dei De Stefano, quali soggetti appartenenti alla storica cosca operante nella zona Nord di Reggio Calabria: ci si riferisce alle conversazioni fra Giuseppe Pelle e Giovanni Ficara, captate nei primi mesi del 2010 nella c.d. Operazione Reale, nel corso delle quali il secondo dichiarava esplicitamente, fra l’altro, che tutti appartenevano ad un’unica organizzazione, la “‘ndrangheta”, e, ragionando in merito a possibili alleanze, citava esplicitamente i De Stefano, soggetti “vicini” ai Ficara”.

Da qui, dunque, il dato, lapidario, espresso dalla Corte d’Appello presieduta da Rosalia Gaeta: “In conclusione, quindi, nessun dubbio può nutrirsi sulla corretta impostazione accusatoria, relativamente a tale caratteristica della struttura, rispetto alla quale non può neanche dirsi distonico il preteso disinteresse o comunque il mancato intervento dell’organismo unitario nelle fasi di criticità del sodalizio, quali le faide sanguinose o le c.d. guerre di mafia che hanno caratterizzato (e talora ancora caratterizzano) gli ultimi decenni. Invero, ciò è agevolmente spiegabile non solo con l’autonomia dei singoli “locali”, che comunque coesiste con il riconoscimento di una struttura apicale, di coordinamento e direzione, ma con la fisiologica esistenza ed inevitabilità di motivi di forte contrasto che animano qualsiasi consesso umano, maggiormente quelli a connotazione illecita, il cui sorgere non può certo essere impedito dall’esistenza di un’autorità che orienta la vita dell’intero gruppo criminoso. Anche la doglianza difensiva inerente tale aspetto dell’indagine risulta quindi infondata e va pertanto disattesa”.