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Giulio Cavalli

“Un lavoratore, un padre e un compagno”: la mia intervista per LA NOSTRA VOCE

Schermata 2014-12-11 alle 19.52.51Giulio Cavalli nasce come artista di teatro, è un attore, ma non è un interprete qualunque.

I suoi spettacoli si ispirano a fatti realmente accaduti, al presente civile, sociale e politico del nostro Paese. E’ sotto scorta dal 2008. La ‘Ndrangheta non gradisce gli attacchi che lancia dal palco, le verità che racconta al pubblico di quel Nord dove per molti ancora vale il ritornello: “Qui la mafia non esiste”. Nell’aprile 2010 è stato eletto come consigliere regionale indipendente nella lista dell’Italia dei Valori in Lombardia. In seguito, ha aderito al gruppo di Sinistra Ecologia e Libertà. Questa è l’intervista che gentilmente ci ha concesso.

Chi è Giulio Cavalli oggi?

Un lavoratore, un padre e un compagno. E’ concentrato sul lavoro che ama di più: scrivere, oltre che nell’ascolto di tutto ciò che purtroppo si è perso in questi ultimi anni.

E’ attore, regista e scrittore. Cosa, ritiene, abbiano in comune queste tre arti?

L’amore per le storie, per le persone che troppo spesso rimangono impigliate nelle proprie fragilità o nella pavidità di coloro che gli stanno intorno. Credo che la parola scritta e recitata sia un utile scalpello per portare in superficie vicende che sono rimaste troppo sole o che non sono state abbastanza forti per riuscire ad avere voce.

Perché ha deciso di fare l’attore? Qual è stata la scintilla che le ha fatto capire di intraprendere questo percorso?

Ho studiato per molti anni pianoforte. Uno studio intenso, quasi convulso, in cui ho sperimentato il piacere di comunicare “a cuore aperto” senza mediazioni. Con il tempo ho voluto cercare uno strumento che mi permettesse di mantenere la musica aggiungendo parola e movimento.

Partendo dal suo impegno, ha affermato che il teatro deve essere un “mezzo per mantenere vive pagine importanti della nostra storia”, ha un ruolo civile ma anche partigiano. Ci spiega meglio cosa intende? Si potrebbe definire un teatro di controinformazione?

Il mio lavoro non è di mera informazione. Non credo nemmeno di essere capace di esercitare l’informazione pura: quando vado in scena, devo prendere una posizione, sento il bisogno di comunicare al mio pubblico da che parte sto. In “bambini a dondolo” sono contro i turisti sessuali su minori, in “Linate” racconto le responsabilità degli enti e dell’aeroporto e, allo stesso modo, nei miei spettacoli di “mafia” decido volontariamente di scagliarmi contro i criminali che racconto.

Ritiene che il teatro possa avere la forza di influire sulla coscienza civile di un Paese, nonostante il numero ristretto di persone che raggiunge?

Sì. Perché il teatro è un ottimo punto di partenza per aprire un dibattito che spesso scivola poi su mezzi molto più popolari.

Diversi suoi spettacoli nascono da sentenze giudiziarie. In che modo avviene il processo di trasformazione di una sentenza in un’opera teatrale?

Leggendo la documentazione senza tenere conto dei reati commessi dal punto di vista penale ma pensando all’opportunità e all’inopportunità degli atteggiamenti. Esercitare il senso comune di etica può essere un allenamento per una chiave di lettura collettiva.

A partire dal 2010, è passato anche all’impegno diretto in politica; si è candidato alle elezioni regionali della Lombardia come indipendente nella lista dell’Idv. Come mai ha deciso di affrontare anche questo tipo di impegno? Teatro e politica, quali sono secondo lei i punti in comune?

Credo che la buona politica sia una delle più alte forme d’arte. So che di questi tempi può suonare anacronistico ma credo che l’alfabetizzazione (anche, nel mio caso, sul tema delle mafie) sia compito degli intellettuali e della politica.

Cos’è per lei la mafia?

Tre o più persone che si mettono d’accordo per arricchire il proprio privato a danno del pubblico. E con tutto intorno un ambiente che glielo consente.

“Mafie al nord” è un’espressione molto usata oggi. E’ opportuno parlare di connivenza?

Sicuro. Dopo l’arresto di un assessore della Giunta Regionale in Lombardia penso che la cosa sia acclarata. Chi oggi lo nega o è un imbecille o è un colluso.

Per lo spettacolo “Do ut Des”, nel 2008, ha subìto delle intimidazioni mafiose, per le quali le è stata assegnata la scorta. Immaginava che il suo spettacolo potesse provocare un effetto simile? Quali sono state in concreto le minacce ricevute?

Le minacce sono la cosa meno interessante. Non amo il voyeurismo che si scatena su minacciati “d’arte” per altro in un Paese che dimentica o testimoni di giustizia o i tanti “al fronte”. Posso dirti che ad ogni azione corrisponde una reazione e, visti i soggetti su cui lavoro, era immaginabile una reazione non convenzionale. E continua negli anni.

Continua a vivere sotto scorta. Si è mai sentito solo?

Mai.

Tra i motivi che l’hanno resa una persona “scomoda” per la mafia vi è la denuncia dei rapporti che legano la politica e la criminalità organizzata. Quanto è ancora forte il legame che intreccia lo Stato e l’antistato per eccellenza, e come è possibile reciderlo?

Direi che l’arresto di un ex Ministro degli Interni possa fotografare bene la gravità situazione attuale. Credo che si possa immaginare un miglioramento se ognuno di noi cominciasse a sentirsi, nel proprio piccolo e nella propria funzione, classe dirigente di questo Paese.

Cos’è per lei la libertà?

Rispondere alle regole e non alle convenienze. Potersi permettere di farlo, sempre.

(fonte)

E poi scopro che sono stato profeta su #TorSapienza

Basta leggere quello che scrivevamo qui, eh.

roma-141113144703Chi insufflò le prove di pogrom di Tor Sapienza? Chi doveva incassare i dividendi delle notti di fuoco, sassi e cocci di bottiglia di una borgata “rossa” che improvvisamente, a metà novembre, si era accesa al comando di saluti romani e ronde assetate di “negri” e “arabi”? Sono stati scomodati i sociologi per provare a dare un senso alla furia della banlieue di Roma. E invece, per raccontare quella storia bisogna cominciare da un’altra parte. Dagli appetiti mafiosi del Mondo di Mezzo. Dai Signori degli appalti del “terzo settore” Salvatore Buzzi e Sandro Coltellacci, oggi a Regina Coeli per mafia, dal loro interfaccia “nero” Massimo Carminati e dalla sua manovalanza del Mondo di Sotto. E da una coraggiosa donna salentina, Gabriella Errico, presidente della cooperativa sociale “Un sorriso”, che in quelle notti ha perso tutto. I 45 minori non accompagnati di cui aveva la custodia e la struttura che li ospitava, resa inagibile da un assedio violento.

Seduta nel suo ufficio a Cinecittà, Gabriella respira profondo. “Sono madre di due bambini. Ho paura”, dice. “Ho ancora paura”. Ma non della furia di Tor Sapienza. Di quei due lì. Buzzi e Coltellacci. Del ricordo di quella telefonata arrivata durante il secondo giorno dell’assedio. “Mi chiamò Buzzi. Mi disse: “Resisti, Gabriella, mi raccomando”. Gli spiegai cosa stava succedendo. “Qui fuori è l’inferno. Sono fascisti, Salvatore. Gridano “Duce, Duce”. Mi rispose lasciandomi di sale: “Non ti preoccupare. Ora faccio un paio di telefonate e sistemo””.

“Ce l’ho in pancia”. Un paio di telefonate. E a chi? “Non capivo cosa c’entrasse Buzzi con i fascisti”, dice Gabriella. Con i giorni, quel dubbio diventa un pensiero cattivo. La rivolta di Tor Sapienza è sedata, la cooperativa ha perso il centro e i suoi minori, trasferiti nella struttura della Domus Caritatis all’Infernetto. Gabriella viene avvicinata da un amico. “Mi disse che Buzzi andava dicendo che ora “mi aveva in pancia”. Sì, così diceva: “Ora, ho in pancia quella lì del Sorriso”. Mi infuriai. E per un attimo pensai che a Tor Sapienza solo la mia cooperativa era stata assediata. Come mai le strutture nell’orbita di Tiziano Zuccolo, grande amico di Buzzi, che pure ospitavano migranti adulti non erano state sfiorate dalla rivolta? Dissi al mio amico che Buzzi non aveva in pancia proprio un bel niente”. E però, dopo poco, Buzzi si fa vivo. “Mi fissò un appuntamento per il 4 dicembre alle 11. Mi disse che era venuto il momento di sedersi intorno a un tavolo e discutere del “Condominio Misna””. Condominio Misna? “Era il suo modo di dire. Per riferirsi alla spartizione degli appalti, lui diceva “condominio”. O anche “cartello”. Voleva parlarmi di come intendeva dividere la torta dei “misna”, che sta per “minori stranieri non accompagnati”. Pensava evidentemente che, dopo Tor Sapienza, fossi finalmente pronta a cedere. Per fortuna, il 2 dicembre lo hanno arrestato”.

La solitudine del vigile di Cadorago

Davide Milosa racconta una storia che rende bene le proporzioni della solitudine e della ‘ndrangheta nel profondo nord. Una storia piccola, sembra:

bulldog-675In Lombardia oggi c’è una linea geografica che rappresenta l’ultimo avamposto della ‘ndrangheta. Corre a semicerchio da Appiano Gentile a Guanzate, tocca Cadorago, si allunga a Bulgorello. Sale a nord, attraversa Fino Mornasco, Como, la Svizzera. Un complicato tracciato lungo il quale s’incontrano storie di efferati omicidi e di collusioni tra mafia e politica. Succede in piccoli comuni, dove capita di avere come vicino di casa l’assessore o il boss, e dove la banalità del quotidiano, così come succede in Calabria, radica la mafia ben più dell’infiltrazione nel grande appalto pubblico. L’allarme mediatico, però, resta nascosto tra quelle righe (e sono migliaia) che non raccontano né di Expo né di parlamentari romani. Eppure è in queste storie locali che sempre più spesso le istituzioni abdicano alla mafia.

Succede a Cadorago, settemila anime, Alta Brianza, profondo nord. Il copione è esemplare: il bar Bulldog di Caslino al Piano (nella foto,ndr), che gli investigatori ritengono riconducibile a Bartolomeo Iaconis (‘ndraghetista certificato tale con sentenza definitiva a metà anni Novanta), tiene aperto oltre l’orario di chiusura, i carabinieri di Lomazzo multano i titolari, i quali si rivolgono all’assessore di riferimento per non pagare. Risultato: si attiva l’intera macchina amministrativa, coinvolgendo sindaco, assessore, funzionari comunali. Davanti a tutto questo, ecco il commento sconsolato del capo dei vigili: “ Non ho un buon rapporto con il sindaco in quanto lui e la sua giunta mi hanno praticamente estromesso dalle reale e concrete funzioni comunemente ricoperte dal Comandante della Polizia Locale”.

L’incipit squaderna sul tavolo personaggi, ruoli, rapporti. Indagano i carabinieri di Como che dal 2009 assieme all’allora pm antimafia Mario Venditti intercettano la ‘ndrangheta di Fino Mornasco, tracciando competenze e contatti con la politica. E’ l’inchiesta Arcobaleno sulla quale da luglio pende una richiesta di archiviazione. Il fascicolo, però, recentemente è tornato d’attualità dopo l’operazione Insubria che il 18 novembre 2014 ha chiuso il cerchio attorno a 40 presunti mafiosi affiliati a tre locali di ‘ndrangheta: Cermenate, Fino Mornasco e Calolziocorte. Due inchieste. Stesso contesto. Con Insubria che traccia il solco mafioso mentre Arcobaleno elenca nomi di politici in contatto con i clan. Politici che se non hanno, ad oggi, responsabilità penali, dovranno comunque rendere conto davanti ai loro elettori per i tanti rapporti certificati da decine di intercettazioni.
A Cadorago la metà della popolazione ha precedenti penali

Ecco allora il comandante dei Vigili. Si chiama Marco Radaelli e il 30 settembre 2010 viene sentito a sommarie informazioni dai carabinieri. “Nel territorio di Cadorago – racconta – c’è un’aria molto pesante ed è impossibile lavorare con la giusta serenità. Accade rarissimamente che un cittadino si rivolga a noi per confidarci delle situazioni anomale. Da quando sono arrivato alla polizia locale di Cadorago tutti i miei colleghi mi facevano subito notare i vari personaggi pregiudicati calabresiche usciti dal carcere si presentavano a Cadorago e da cui stare attenti. Nel territorio c’è una situazione di calma apparente e in centro è difficile trovare uno sbandato o spacciatori (…) . La metà della popolazione ha precedenti penali (…). Cito la presenza per le vie del paese di Michelangelo Chindamo uscito da poco dal carcere e di cui tutti parlano come un pezzo grosso della ‘ndrangheta”. Michelangelo Chindamo risulterà tra gli arrestati dell’inchiesta Insubria.

Sembra l’Aspromonte, invece è l’Alta Brianza. Radaelli prosegue. Fa nomi, descrive rapporti. Si tratta di personaggi pregiudicati citati nell’indagine Arcobaleno che,  va detto, ancora non ha dimostrato in pieno le loro responsabilità penali. Ecco allora le parole del capo dei vigili: “Di Bartolomeo Iaconis conosco i precedenti penali (…). Conosco meglio il suo socio Alessandro Tagliente perché si vede più spesso nei pressi della piazza Largo Clerici, dove ha sede il mio comando, il comune ed il bar Bulldog. Frequenta anche l’amministrazione comunale in virtù della sua funzione di Presidente della Società sportiva Zampiero Calcio. So che tra l’assessore Angelo Clerici e Tagliente c’è un buon rapporto di amicizia”.

Bartolomeo Iaconis nei primi anni Novanta viene arrestato nel blitz I fiori della notte di San Vito, a lui i magistrati assegnano il ruolo di capo società della locale di Fino Mornasco, per associazione mafiosa sconterà 14 anni. Nell’indagine Arcobaleno, sui cui pesa richiesta di archiviazione, viene descritto dai carabinieri “con la capacità di fare sistema, di entrare in rapporti di scambio con una serie di personaggi che permettono (…) di trarre vantaggi sempre nuovi”. E il nome di Iaconis, detto Bartolino, pur non indagato, compare nell’indagine Insubria. Ne parlano Giuseppe Puglisi (capo della locale di Cermenate con carica di Quartino) e Domenico Spanò affiliato a Fino Mornasco. Chiede Spanò: “Iaconis è il capo di tutta la Lombardia? E’ responsabile Bartolino?”. Puglisi smentisce. Spanò riprende: “Allora gli hanno dato qualche dote che tu non sai, Bartolino è superiore a voi”. Ribadiamo, che pur condannato per mafia, Iaconis non risulta indagato nell’ultima inchiesta. E nonostante questo, annota il giudice Simone Luerti, più volte la sua presenza è stata richiesta alle “mangiate” dei vari affiliati.

“La famiglia Tagliente – scrivono i carabinieri di Como – è notissima nel campo del traffico e dello spaccio di stupefacenti. I fratelli Alessandro e Sergio, sono da sempre stati indicati quali trafficanti di stupefacenti legati a Michelangelo Chindamo”. Di più: “Alessandro Tagliente (citato nelle informative Arcobaleno, ndr), da sempre uomo di fiducia di Iaconis e suo socio in affari influiva sulle decisioni delle amministrazioni comunali (…) mettendo (…) a disposizione (…) il proprio tessuto relazionale costituito da uomini politici, pubblici ufficiali, imprenditori”.

Tra i politici c’è Angelo Clerici, attualmente capo gruppo di minoranza, all’epoca assessore alla Sicurezza. Clerici, citato più volte nell’inchiesta Arcobaleno, si attiva per far togliere la multa al bar Bulldog gestito dalla moglie di Alessandro Tagliente. Di lui scrivono i carabinieri: “Si è reso disponibile a intercedere, per conto di Elisabetta Rusconi, con il sindaco di Cadorago per sistemare una contravvenzione comminata dai carabinieri di Lomazzo al Bar Bulldog (…) . Il sindaco, su richiesta dello stesso Clerici, ha voluto predisporre (…) una delibera fittizia con effetto retroattivo con la quale giustificare l’apertura del locale e aiutare quindi i gestori dell’esercizio commerciale, molto noti nella comunità come pregiudicati, a non pagare la contravvenzione”. E così lo stesso Clerici a colloquio con l’allora vice segretario comunale dice: “Mi ha detto di sì il sindaco. Ha detto che noi l’autorizzazione la facciamo risultare in quella data”. La conferma arriva dalla funzionaria del comune Domenica Lugarà che sentita dai carabinieri dice: “Il sindaco Franco Pagani mi ha convocata nel suo ufficio alla presenza della titolare dell’esercizio commerciale suddetto al fine di chiarire quali fossero gli orari di apertura e chiusura vigenti in quel periodo dell’anno”.

Quotidianità, si diceva. Questa è la ‘ndrangheta che giorno dopo giorno si sta mangiando la Lombardia. Anche grazie alla politica che, pur immune da responsabilità penali come in questo caso, non si fa scrupoli a intrattenere rapporti con i clan. E così succede che il 24 agosto 2008 Angelo Clerici telefoni a Bartolomeo Iaconis per gli auguri. “Ho detto sentiamo Bartolo che fa l’onomastico”. L’uomo condannato per ‘ndrangheta ricambia e invita l’allora assessore alla cresima di suoi figlio. E’ il 13 febbraio 2010. Aggiunge particolari l’ex maresciallo Paolo Belligi sentito nel 2010 dai carabinieri: “Sono membro dell’osservatorio della sicurezza del comune di Cadorago, e l’assessore alla sicurezza è Angelo Clerici” che “abita a pochi passi dal Bulldog (…) ed è amico intimo dei titolari (…). Tutti a Cadorago sanno che Bartolomeo Iaconis è soggetto importante della criminalità organizzata”. Il boss, poi, si chiama per tutto. Anche per un consiglio nell’acquisto dell’auto alla Fino Motori di proprietà di Luca Cairoli attuale presidente del consiglio comunale a Fino Mornasco. Risponde Iaconis: “Gli dici (a Cairoli, ndr) mi ha detto Bartolino di venire qua da te per farmi fare un preventivo (…) lo conosco bene, siamo amici”. Benvenuti al nord.

Il pentito: “il tritolo per Di Matteo direttamente dalla Calabria”

Per uccidere Nino Di Matteo il tritolo era arrivato dalla Calabria. È l’ultima rivelazione di Vito Galatolo, il boss dell’Aquasanta che ha deciso di “saltare il fosso” e collaborare con la magistratura, svelando il piano di morte organizzato da Cosa Nostra per assassinare il pm che indaga sulla Trattativa Stato mafia. Centocinquanta chili di tritolo, un attentato già in fase organizzativa, ordinato direttamente da Matteo Messina Denaro, che con alcune lettere inviate ai boss palermitani aveva emanato l’ordine di morte per Di Matteo nel dicembre del 2012. A quel punto i padrini del gotha palermitano si erano riuniti in summit: e nella riunione del 9 dicembre 2012 Girolamo Biondino, fratello dell’ex autista di Totò Riina, aveva informato gli altri boss degli ordini di Messina Denaro.

Di Matteo va fatto fuori “perché mi hanno detto che è andato troppo oltre” scrive la primula rossa di Castelvetrano ai boss palermitani. Che dopo aver raccolto 600mila euro, avevano iniziato a cercare l’esplosivo per l’attentato. E almeno una parte del tritolo era arrivato in Sicilia dalla Calabria: solo che quel quantitativo di esplosivo era in cattive condizioni, dato che presentava tracce d’umidità e infiltrazioni d’acqua. I boss di Cosa Nostra si erano subito attivati con i loro referenti calabresi riuscendo a farsi cambiare l’esplosivo difettoso: il particolare dell’infiltrazione d’acqua nel tritolo, però, suggerisce agli inquirenti un’ipotesi investigativa. E cioè la possibile provenienza dell’esplosivo dalle stive della Laura Cosulich, la nave mercantile che, come racconta l’edizione palermitana di Repubblica, è affondata al largo di Saline Joniche durante la seconda guerra mondiale. Le stive della Laura C sarebbero stracolme di tritolo: nel maggio scorso i sommozzatori della polizia sono riusciti a recuperarne ben 24 chili.

A sentire la questura di Reggio Calabria, però, il tritolo dimenticato sulla nave affondata nello Jonio equivale a parecchie tonnellate: diversi collaboratori di giustizia hanno raccontato come la ‘ndrangheta si sia spesso servita dell’esplosivo della Laura C. Tritolo che in alcune occasioni era stato scambiato o venduto ad altre organizzazioni criminali. Anche per la strage di Capaci sarebbe stato utilizzato esplosivo recuperato nei fondali marini: secondo il pentito Gaspare Spatuzza, Cosa Nostra si sarebbe infatti servita del tritolo recuperato al largo di Palermo da Cosimo D’Amato, il pescatore di Porticello che aveva individuato una serie di ordigni inesplosi sganciati durante la seconda guerra mondiale. Fino ad oggi, però, gli inquirenti non hanno trovato analogie tra il tritolo utilizzato nelle stragi del 1992 e quello recuperato dalle stive della Laura C.

Questa volta, invece, Cosa Nostra aveva intenzione di utilizzare quell’esplosivo recuperato nei fondali calabresi per uccidere Di Matteo. Un piano di morte che, come raccontato da Il Fatto Quotidiano, era già stato studiato nei minimi dettagli. L’ipotesi privilegiata dai boss era quella che prevedeva l’utilizzo di un’autobomba, come per l’omicidio di Rocco Chinnici o per la strage di via d’Amelio. In un primo momento, il commando aveva pensato di mettere in scena l’attentato nei pressi del Palazzo di giustizia di Palermo: il rischio di fare strage di civili, però era troppo elevato, e alla fine i boss avevano iniziato a seguire gli spostamenti di Di Matteo, concentrandosi sulla zona in cui abita il pubblico ministero. Una versione confermata da una delle lettere anonime arrivate in procura, quella che nel febbraio del 2013 annuncia per la prima volta un attentato contro Di Matteo: l’estensore si presenta come un uomo d’onore di Alcamo, e racconta di aver pedinato per giorni la scorta del pm.

I magistrati della procura di Caltanissetta, che da settimane interrogano il collaboratore di giustizia, hanno chiesto a Galatolo se per caso non fosse lui l’autore dell’anonimo, ma il boss dell’Acquasanta ha negato: nel commando che doveva assassinare Di Matteo ci sarebbe stata quindi un’altra gola profonda. Galatolo, rampollo di una delle più importanti famiglie di Cosa Nostra, è stato arrestato nel giugno del 2014: poche settimane fa ha chiesto di parlare con il pm che indaga sulla Trattativa, per “togliersi un peso dalla coscienza”, raccontandogli il piano di morte ai suoi danni. “Dottore, i mandanti per lei sono gli stessi del dottore Borsellino” ha detto il neo pentito al pm, raccontando che Cosa Nostra aveva anche preparato un agguato a colpi di bazooka e kalashnikov da eseguire quando Di Matteo si trovava a Roma: il potenziamento della scorta del magistrato aveva però fatto sfumare quest’ipotesi. Tra i particolari svelati dal pentito c’è anche il racconto di un momento d’impasse nella preparazione dell’attentato: dopo aver trovato il tritolo, i boss contattarono Messina Denaro spiegando di non essere in grado di confezionare l’ordigno esplosivo ad alto potenziale. Dal boss di Castelvetrano però era arrivata una rassicurazione: “Non c’è problema” scrive Messina Denaro, dato che al momento opportuno, ai boss sarebbe stato messo a disposizione “un artificiere”. Da dove sarebbe arrivato e inviato da chi non è dato sapere.

(fonte)

‘Ndrangheta in Piemonte: confisca alla famiglia Marando

Una ricchezza accumulata da Sud a Nord grazie “a lucrose attività criminose, rappresentante – inizialmente – da sequestri di persona a scopo di estorsione e – successivamente – dal traffico (anche internazionale) delle sostanze stupefacenti”, scrivono i giudici nel provvedimento di confisca. Un patrimonio immenso tenuto insieme fino ai numerosi arresti che hanno colpito la famiglia. È così che l’impero dei fratelli Marando è finito nelle mani dello Stato. Beni per 18 milioni di euro sono stati confiscati dalla Direzione investigativa antimafia di Torino alla famiglia della ‘ndrangheta insediata da anni a Volpiano, alleata ai Perre e agli Agresta e legata alla cosca Barbaro di Platì (Reggio Calabria). La misura è stata decisa dalla sezione Misure di prevenzione del Tribunale di Torino che ha pure stabilito di mettere sotto sorveglianza alcuni imputati, tra cui l’attuale reggente Domenico Marando, detenuto in carcere a Saluzzo, e il nipote 25enne Luigi. I beni erano stati sequestrati preventivamente nell’operazione “Marcos” di due anni fa.

Secondo gli investigatori, dagli anni Ottanta in poi i Marando sono stati responsabili di sequestri di persona e traffico di stupefacenti, anche a livello internazionale, intrecciando alleanze con Cosa Nostra e con narcotrafficanti in Turchia per l’eroina e in Colombia per la cocaina. In questo modo hanno accumulato capitali i boss Francesco “Ciccio” Marando (ucciso nel 1997 a Chianocco, all’inizio di una faida raccontata dalla sua vedova Maria Stefanelli nel recente libro “Loro mi cercano ancora”) e poi Pasquale (scomparso nei primi anni Duemila per un caso di lupara bianca). Si parla di tre società, di 27 terreni (molti in Calabria) e di 33 immobili tra Marina di Gioiosa Ionica, Volpiano, Cesano Boscone e Busto Arsizio. C’è pure una villa con piscina e un giardino immenso a Nettuno.

I Marando coi soldi ci sapevano fare anche grazie agli aiuti forniti da professionisti come un geometra, Cosimo Salerno, pure lui colpito dalle confische e dalla sorveglianza speciale. A “occuparsi” dei fabbricati c’erano poi alcune aziende tra cui due società offshore basate a Gibilterra e una, la Green Farm di Torino, per alcuni anni gestita da un prete, padre Mario Loi (conosciuto come “Padre Rambo”), “testa di legno” di Pasquale Marando e “schermo ideale in quanto sacerdote e figura quindi al di sopra di ogni possibile sospetto”. Buona parte del denaro contante invece veniva nascosto nelle banche svizzere grazie a un avvocato di Lugano, Francesco Paolo Moretti.

Il sistema, però, si è inceppato. È successo dopo la morte di Francesco, dopo le vendette che hanno portato alla condanna di Domenico e dopo la scomparsa di Pasquale. I fratelli rimasti vogliono spartirsi il bottino. Da una parte, chiuso in cella, c’è Domenico, dall’altra i fratelli rimasti liberi, Nicola e Rosario, che si sarebbero appropriati del patrimonio di Pasquale. Di mezzo una serie di fiancheggiatori (come un’educatrice del carcere) e le nuove generazioni che iniziano a darsi da fare. Infine c’è Rocco, “considerato alla stregua dell’ultima ruota del carro familiare”, osservano i magistrati. Emarginato nella spartizione e preoccupato per le sue sorti, quest’ultimo decide di collaborare con la giustizia spiegando la gestione degli affari e il contrasto tra Domenico e gli altri due, contrasto emerso pure nell’intercettazione di un colloquio in carcere l’8 novembre 2007 tra Domenico, il figlio Antonio e il nipote Luigi, figlio di Pasquale allora appena maggiorenne. Proprio questo ragazzo, ora 25enne, è “fortemente inserito nell’ambiente criminoso di appartenenza, tanto da seguire gli affari di famiglia”. Di questo ambiente “ha condiviso pienamente le logiche e si è fattivamente impegnato per conseguirne i traguardi”, annotano i giudici che lo ritengono un “soggetto dotato di pericolosità sociale” e lo sottopongono a tre anni di sorveglianza speciale.

A differenza di quanto sostenuto da altre sentenze, Rocco Marando è ritenuto un pentito attendibile per la “conoscenza approfondita delle vicende criminose”. Non lo era per i giudici del maxiprocesso “Minotauro” che negarono l’esistenza di una locale di ‘ndrangheta a Volpiano e assolsero Rosario Marando dall’accusa di 416 bis. A Rosario (condannato all’ergastolo in primo grado per gli omicidi della faida contro gli Stefanelli, ma libero) e a Domenico è andata relativamente bene anche nel processo penale nato dall’operazione “Marcos” della Dia: hanno avuto condanne più lievi perché in certi episodi avrebbero commesso “autoriciclaggio”, reato all’epoca non punibile e approvato definitivamente in Parlamento soltanto pochi giorni fa.

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