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Giulio Cavalli

Gli imbecilli della rete

Illuminante Mantellini:

Il linguaggio d’odio quello no. L’hate speech è un tema rilevante che va affrontato con intelligenza. Non perché io creda che le parole d’odio in rete siano un problema rilevantissimo (non lo sono troppo, tranne che in alcuni casi molto particolari) ma perché le parole d’odio oltre ad essere codarde e oltraggiose saranno una scusa per fare altro domani. Da questo punto di vista credo che il contenzioso legale in rete al riguardo sia in Italia ancora troppo modesto e incentrarlo nella discussione pubblica su singoli fatti personali contribuisce a creare un cortocircuito pericoloso. Invece che portare il diffamatore davanti ad un giudice (ma ancora prima più banalmente all’attenzione di Facebook che gli chiuderà il profilo), si preferisce occuparsi del tema in senso generale con editti del tipo: ehi voi, guardate, mi hanno offeso on line. Dobbiamo fare qualcosa! (Laura Boldrini docet). Una quota di imbecilli che scrive “devi morire” in rete rimarrà sempre, ma la parte più rilevante della discussione sulle parole d’odio riguarda altre persone, la maggioranza, e meccanismi basici di controllo dell’interfaccia. Fino a quando questi verranno ignorati ci saranno due tipi di imbecilli nei commenti su Internet. Gli imbecilli imbecilli e gli imbecilli che se avessero avuto idea della propria imbecillità avrebbero fatto in modo di recuperarla prima che fosse troppo tardi.

Caso Manca: la Commissione antimafia convoca Pazienti e Petroselli

loraquotidiano.it_2014-12-01_18-33-38La Commissione nazionale antimafia ha convocato a Palazzo San Macuto il procuratore di Viterbo, Alberto Pazienti e il Pubblico ministero Renzo Petroselli, per un’audizione sull’indagine relativa alla morte di Attilio Manca, l’urologo di Barcellona Pozzo di Gozzo, trovato cadavere nel suo appartamento della cittadina laziale dove lavorava presso la clinica ”Belcolle”. L’indagine fu archiviata come l’overdose di un ”tossicodipendente’,’ e poi riaperta solo nei confronti di Monica Mileti rinviata a giudizio con l’accusa di aver ceduto lo stupefacente al giovane medico.  Ora l’Ufficio di presidenza della Commissione ha convocato i due magistrati che si sono detti disponibili ad essere ascoltati il 17 dicembre.

Secondo l’Antimafia di Palazzo San Macuto– recatasi il 27 e il 28 ottobre scorso a Messina per occuparsi delle commistioni fra Cosa nostra, politica, massoneria e servizi segreti deviati presenti soprattutto a Barcellona Pozzo di Gotto – l’audizione dei due magistrati si rende necessaria per chiarire i tanti perché di questa strana morte, avvenuta nelle ultime ore dell’11 febbraio 2004, e scoperta la mattina del 12 con il ritrovamento del cadavere. La stessa presidente dell’Antimafia, Rosi Bindi, ha dichiarato che “la morte di Attilio Manca a tutto è attribuibile tranne che a un suicidio da overdose”. Anche il vice presidente Claudio Fava ha manifestato tutti i suoi dubbi:“Non è da escludere che questo decesso sia un omicidio legato all’operazione del boss Bernardo Provenzano”.

La Commissione vuol sapere perché la Procura di Viterbo continua a parlare di “inoculazione volontaria” di eroina, se  i due buchi sono stati ritrovati sul braccio sinistro di Attilio Manca, che però era un mancino puro, perché sulle due siringhe trovate a pochi metri dal cadavere, la rilevazione delle impronte digitali è stata ordinata soltanto dopo otto anni (senza alcun risultato), e perché i magistrati continuano a parlare di decesso “volontario” se, dalle foto scattate dalla Polizia dopo il ritrovamento del corpo, si vede il volto di Attilio Manca pieno di sangue, il setto nasale deviato, le labbra tumefatte e i testicoli enormi, con una visibile ecchimosi sullo scroto. A questo va aggiunta la relazione del medico del 118, Giovanbattista Gliozzi, accorso dopo il ritrovamento, che ha messo in evidenza dei lividi ai polsi e alle caviglie.

Perché al cospetto di questi primi elementi, i magistrati hanno seguito una sola pista, senza porre le ipotesi alternative suggerite dalla famiglia, e cioè che Attilio Manca potrebbe essere stato immobilizzato con un colpo ai testicoli e in faccia (almeno uno), tenuto dai polsi e dalle caviglie, sedato con una dose di tranquillante (il primo buco?), e drogato con l’eroina (il secondo)? L’esame tossicologico ha infatti stabilito che nell’organismo del medico era presente una notevole quantità di eroina, mista a del tranquillante e dell’alcol, che, se somministrati contemporaneamente, secondo il parere dei docenti di Medicina legale, portano alla morte immediata. A parere deimagistrati di Viterbo (segnatamente la Procura e il Gip Salvatore Fanti), Attilio Manca, medico ed igienista di professione, dopo essersi bucato, avrebbe lavato il cucchiaio sciogli eroina, rimesso i tappi negli aghi delle siringhe, sarebbe sceso in strada, avrebbe buttato il laccio emostatico e l’involucro conserva-eroina, sarebbe risalito a casa, cenato e, prima di crollare rovinosamente sul letto, si sarebbe massacrato il volto e i testicoli, lasciando però a pochi metri gli oggetti più compromettenti: le siringhe. Una ricostruzione che dovrebbe essere chiarita dai magistrati, così come dovrebbe essere chiarito perché è stata sempre ignorata la pista dell’omicidio semplice o di mafia su cui i familiari e l’avvocato Fabio Repici (al quale da un anno si è aggiunto l’avvocato Antonio Ingroia), ha sempre chiesto di indagare.

I magistrati laziali dovrebbero spiegare perché di esame tricologico (l’analisi effettuata sul campione del capello della vittima, per accertare l’uso pregresso di stupefacenti) hanno parlato solo otto anni dopo, per giunta in conferenza stampa: né alla famiglia Manca, né al legale, era mai stato notificato un atto del genere. Altra spiegazione mai fornita è quella sul perché gli inquirenti colleghino la presunta “inoculazione volontaria” con l’altrettanto presunta positività dell’esame tricologico, quando il nesso fra questi due elementi non è affatto scontato, come la Procura di Viterbo vorrebbe invece fare intendere.

E poi c’è il capitolo legato al caso Provenzano, cioè all’operazione di cancro alla prostata alla quale il boss corleonese  fu sottoposto a Marsiglia nell’autunno del 2003, mentre era latitante col falso nome di Gaspare Troia. Diversi elementi portano in quella direzione, ma la Procura di Viterbo si è sempre ostinata ad insistere sulla morte per droga. L’antimafia vuole capire prchè questa pista noin è mai stata seriamente battuta dagli inquierenti. Una altro buco nero dell’indagine di Viterbo riguarda i tabulati telefonici dell’autunno del 2003 (chiesti più volte dall’avvocato Repici), mai acquisiti dalla procura laziale con un’incomprensibile omissione, dato che, secondo la famiglia, c’è una telefonata risalente all’ottobre di quell’anno in cui Attilio avrebbe detto ai genitori di trovarsi nelSud della Francia per “vedere un intervento chirurgico”. L’ennesimo interrogativo rimasto senza risposta riguarda il rapporto dell’ottobre del 2003, nel quale il capo della Squadra mobile di Viterbo Salvatore Gava scrive che nel periodo in cui Binnu Provenzano è ricoverato a Marsiglia, Attilio Manca non si è mosso dall’ospedale ”Belcolle” di Viterbo. Un anno fa, il programma televisivo “Chi l’ha visto”, mandò in onda un servizio che smentiva quel rapporto:  da un controllo dei registri delle presenze, infatti, risulta che Attilio Manca  proprio in quei giorni non era in ospedale.

La Lupa: la mafia romana, i nomi

La mani mafiose sul Campidoglio. Una immagine che si svela con un’inchiesta della Procura di Roma, battezzata Terra di Mezzo, che porta in carcere 28 persone e ha fatto finire nel registro degli indagati il nome di 37 persone tra cui quello dell’ex sindaco della Capitale, Gianni Alemanno. Che risponde di associazione di stampo mafioso. Ai 37 gli inquirenti, coordinati di Giuseppe Pignatone, contestano a vario titolo, anche estorsione, usura, corruzione, turbativa d’asta, false fatturazioni, trasferimento fraudolento di valori, riciclaggio e altri reati.

Al centro dell’indagine del Ros, un sodalizio da anni radicato a Roma e facente capo a Massimo Carminati, ex terrorista di estrema destra dei Nar ed ex membro della Banda della Magliana, con infiltrazioni “diffuse” nel tessuto imprenditoriale politico e istituzionale.Tra gli arrestati anche l’ex ad dell’Ente Eur, Riccardo Mancini. È in alcuni intercettazioni, Tra Mancini e Carminati, che è venuto fuori il nome dell’ex primo cittadino, dei rapporti con alcuni importanti imprenditori romani.

I carabinieri hanno perquisito gli uffici della Regione Lazio e del Campidoglio per acquisire documenti gli uffici della Presidenza dell’Assemblea Capitolina e presso alcune commissioni della Regione Lazio.Contemporaneamente la Guardia di Finanza ha eseguito un decreto di sequestro di beni riconducibili agli indagati, emesso dal tribunale di Roma, per un valore di 200 milioni di euro. Gli inquirenti, infatti, hanno documentato un sistema corruttivo finalizzato all’assegnazione di appalti e finanziamenti pubblici dal Comune di Roma e dalle aziende municipalizzate, con interessi anche nella gestione dei centri di accoglienza per gli immigrati.

In manette anche Riccardo Brugia, Roberto Lacopo, Matteo Calvio, Fabio Gaudenzi, Raffaele Bracci, Cristiano Guarnera, Giuseppe Ietto, Agostino Gaglianone, Salvatore Buzzi, Fabrizio Franco Testa, Carlo Pucci, Franco Panzironi, Sandro Coltellacci, Nadia Cerrito, Giovanni Fiscon, Claudio Caldarelli, Carlo Maria Guarany, Emanuela Bugitti, Alessandra Garrone, Paolo Di Ninno, Pierina Chiaravalle, Giuseppe Mogliani, Giovanni Lacopo, Claudio Turella, Emilio Gammuto, Giovanni De Carlo, Luca Odevaine. Il gip ha disposto gli arrestu domiciliari per Patrizia Caracuzzi, Emanuela Salvatori, Sergio Menichelli, Franco Cancelli, Marco Placidi, Raniero Lucci, Rossana Calistri, Mario Schina. Il giudice per le indagini preliminari ha invece rigettato la richiesta di misura cautelare nei confronti di Gennaro Mokbel e Salvatore Forlenza, che sono comunque indagati.

Domenica scorsa era stata perquisita la casa di Marco Iannilli, il commercialista romano, già finito in carcere e condannato in primo grado per la colossale truffa su Fastweb e Telecom Sparkle e coinvolto nel caso Enav. Domenica gli uomini del Ros hanno effettuato delle perquisizioni nella villa di Iannilli a Sacrofano, in provincia di Roma. Perquisita anche la casa di Gianni Alemanno, l’ex sindaco di Roma.

di Marco Lillo e Valeria Pacelli

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Mafia e politica: Roma bolle

Nuovo scandalo nella politica romana: martedì mattina i carabinieri dei Ros sono entrati nella sede della Regione Lazio alla Pisana ma anche in Campidoglio per effettuare una serie di perquisizioni negli uffici di alcuni consiglieri regionali e comunali, nell’ambito di un’inchiesta su un’organizzazione di stampo mafioso. Documenti sono stati acquisiti presso gli uffici della presidenza dell’Assemblea Capitolina. Perquisita anche l’abitazione dell’ex sindaco della Capitale, Gianni Alemanno. Nell’inchiesta denominata «Mafia capitale» – che sta determinando 28 arresti – Alemanno (oltre che ex primo cittadino, ex ministro del governo Berlusconi) è coinvolto come indagato del reato di associazione di stampo mafioso insieme ad altri 36 indagati, tra i quali Mirko Coratti, Eugenio Patanè e Luca Gramazio, attuale consigliere regionale del Lazio.

Appalti dirottati anche per i centri d’accoglienza

Nel mirino degli inquirenti una vera e propria «holding criminale» che spaziava dalla corruzione – per aggiudicarsi appalti – all’estorsione, all’usura e al riciclaggio. Un sodalizio radicato a Roma con a capo il redivivo ex Nar ed ex Banda Magliana Massimo Carminati, finito in manette. Gli inquirenti hanno documentato «un sistema corruttivo finalizzato all’assegnazione di appalti e finanziamenti pubblici dal Comune di Roma e dalle aziende municipalizzate, con interessi anche nella gestione dei centri di accoglienza per gli immigrati». Nell’ambito della stessa operazione, la Guardia di Finanza sta eseguendo un decreto di sequestro di beni riconducibili agli indagati, emesso dal tribunale di Roma, per un valore di 200 milioni di euro.

«Relazioni tra giunta Alemanno e gruppo criminale»

«Allo stato dell’indagine – si legge nell’ordinanza d’arresto firmata dal giudice Flavia Costantini – può essere affermato con certezza è che vi erano dinamiche relazionali precise, che si intensificavano progressivamente, tra Alemanno, sindaco di Roma, e il suo entourage politico e amministrativo, da un lato e il gruppo criminale che ruotava intorno a Buzzi e Carminati, dall’altro; dinamiche relazionali che avevano ad oggetto specifici aspetti di gestione della cosa pubblica e che certamente non possono inquadrarsi nella fisiologia di rapporti tra amministrazione comunale e stakeholders». Da ambienti giudiziari si conferma che sono in corso 28 arresti di noti protagonisti della politica romana. Alcune ordinanze di custodia cautelare sarebbero già state eseguite su ordine del Gip. L’indagine è coordinata dal procuratore capo Giuseppe Pignatone – che nei giorni scorsi aveva lanciato un allarme proprio sull’emergenza infiltrazioni criminali nella politica a Roma – dall’aggiunto Michele Prestipino e dai sostituto Paolo Ielo e Giuseppe Cascini e Luca Tescaroli.

In Procura Di Stefano: tangenti dai costruttori

Dopo lo scandalo di Marco Di Stefano (deputato Pd a lungo in Regione Lazio, dove fu anche assessore al Patrimonio) travolto a fine ottobre dall’inchiesta per le tangenti da due milioni di euro nel caso deli affitti pilotati alla PIsana, una nuova puntata del «Lazio gate» sembra travolgere l’istituzione oggi guidata dal governatore Nicola Zingaretti, che pure ha ricevuto nei giorni scorsi il plauso della Corte dei Conti per i notevoli progressi fatti sotto il profilo del risanamento dei conti pubblici e della trasparenza. Proprio mentre scattavano el perquisizioni, martedì Di Stefano è arrivato a Piazzale Clodio per essere interrogato nell’ambito dell’inchiesta su una presunta tangente che avrebbe ricevuto, quando era assessore alla Regione Lazio nella giunta Marazzo, dai costruttori Antonio e Daniele Pulcini. Di Stefano è indagato per corruzione e falso: per l’accusa la tangente servì per favorire la locazione di due immobili dei Pulcini alla società «Lazio service». Di Stefano sarà sentito anche come testimone sulla scomparsa del suo braccio destro Alfredo Guagnelli.

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Preso Marco Sergio Notari (spiace per Albano)

E’ stato catturato dai carabinieri il presunto boss della Scu Marco Sergio Notaro, di 54 anni, di Squinzano (Lecce), raggiunto da un’ordinanza di custodia cautelare del Tribunale di Lecce su richiesta della Dda con l’accusa di associazione mafiosa. Lo scorso 11 novembre era riuscito a scappare all’arresto, in occasione di un’operazione antimafia nella quale sono state catturate decine di persone, fuggendo sui tetti di una masseria.

Chissà come ci sarà rimasto male Albano con le sue patetiche convinzioni.

La mafia che fa politica in Paraguay

di Jorge David Figueredo – 1° dicembre 2014
medina-pablo-2Dopo l’assassinio del giornalista Pablo Medina e della sua assistente Antonia Almada per mano di sicari al servizio della mafia – uno dei presunti mandanti sarebbe l’ex sindaco della città di Ypejhu, Vilmar “Neneco” Acosta – si è sollevata nell’opinione pubblica la questione riguardante politici appartenenti a vari partiti, specialmente a quelli tradizionali, colorado e liberale, nonchè giudici, pubblici ministeri, poliziotti e funzionari di gran parte delle istituzioni pubbliche, che sarebbero vincolati al crimine organizzato e alla mafia.
Questo tipo di denunce, che vedono le autorità politiche, giudiziarie e parlamentari legate al narcotraffico e ad altre attività illecite non è una novità in Paraguay. Già ai tempi della dittatura del Generale Alfredo Stroessner (1954-1989) era noto che i prestanome dello Stronismo accumulavano fortune attraverso attività illecite, curando affari con mafiosi radicati sia all’interno che all’esterno del territorio nazionale. Da questo tipo di interazione e connivenza, secondo studiosi del crimine organizzato in Paraguay, è nata tutta una classe sociale nota come borghesia fraudolenta che, fino ad oggi, controlla il potere politico, economico e gestisce perfino la politica culturale del Paraguay.

La morte del giornalista antimafia ha risvegliato dal letargo tutti quei cittadini che desiderano vivere in un paese libero dal narcotraffico, dalle armi, dagli agro-tossici, dalla deforestazione e da ogni sorta di delitti commessi dai mafiosi nel territorio. Solo dal 1989 al 2013 hanno assassinato 115 contadini secondo il documento Chokokue, una minuziosa investigazione portata avanti dalla Coordinatrice di Diritti umani del Paraguay (Codehupy).
Secondo l’investigatore Hugo Valiente, la stessa mafia che ha ucciso Medina ha ucciso anche questi contadini. Vale a dire che dietro questi morti, fino ad oggi rimasti impuniti, c’è il potere criminale.
Possiamo affermare che esiste un prima e un dopo rispetto alla morte di Pablo ed Antonia nella storia della lotta contro la mafia in Paraguay.  Le organizzazioni civili e sociali hanno incominciato a mobilitarsi permanentemente esigendo giustizia per tutte le persone uccise dalla mafia. Ma non dobbiamo rimanere passivi con le braccia incrociate di fronte all’avanzare del crimine organizzato che non solo si è infiltrato nei tre poteri del Paese, ma ha creato anche delle basi per convivere con settori deviati dello Stato.
Per questo motivo, non dobbiamo diminuire o sottovalutare il potere terroristico della mafia che si nutre non solo di armi o violenza fisica bensì, soprattutto, di corruzione e della paura che si impadronisce di gran parte della popolazione paraguaiana, che non riesce a vedere che le istituzioni repubblicane regolate dalla Costituzione Nazionale stanno lottando per estirpare questo cancro della nostra società. Ci sono evidenze ed indizi che dimostrano il connubio esistente tra Mafia e Stato, e se tutti i cittadini onesti non su uniscono per affrontare insieme questo male la nostra incipiente democrazia e lo Stato di diritto possono essere gravemente distrutte, diventando, non solo una narcocrazia, ma uno Stato-mafia, a dirla come il sociologo italiano Umberto Santino, in uno stato infetto da un doppio fenomeno: le connessioni tra organizzazioni criminali ed istituzioni, rappresentate da uomini incriminati per corruzione o mafia, e l’uso, continuativo e frequente, di pratiche criminali da parte delle istituzioni stesse.
In definitiva le migliori armi che abbiamo noi cittadini per affrontare la mafia sono la parola, la denuncia, l’educazione alla cultura della legalità ed ovviamente l’informazione trasparente, libera, obiettiva capace di risvegliare la consapevolezza che viviamo in un sistema dove il potere criminale impera sovrano e che tocca a noi trasformarlo in una nuova civiltà dove prevalga la giustizia, la pace e l’amore.  Pablo Medina, con le sue denunce, ha affrontato il potere mafioso e gli è costato la vita. Non permettiamo più che altre vittime vengano sacrificate.

Leggi tutte le notizie sull’omicidio del giornalista Pablo Medina: Clicca qui!

Domenico Bosa: il “Mimmo Hammer” che lega estrema destra e malavita

HN TattooIIIl luogo è rimasto segreto fino al primo pomeriggio. Poi la comunicazione riservata: via Toffetti in zona Rogoredo. Stesso capannone dello scorso anno. Periferia est di Milano. Qui ieri si è svolto l’Hammerfest 2014. Concerto nazi rock che ha ospitato decine di band italiane e straniere. Concerto blindatissimo come da copione. Concerto su cui pesava l’ammonizione ai partecipanti da parte della Questura: non mettere in atto comportamenti contrari alla legge Scelba. Si sono presentati in 300. Alcuni hanno organizzato una raccolta fondi per i volontari che in Ucraina combattono contro i filorussi.

L’affluenza è iniziata poco dopo le 16 sotto a un cielo piovoso e pieno di nebbia. Davanti all’ingresso alcuni indossavano la pettorina della Skinhouse di Bollate, la struttura che ufficialmente ha organizzato l’evento. In via Toffetti così hanno fatto la loro comparsa i capi storici del movimento Hammer di Milano. C’erano Stefano Del Meglio e Giovanni Pedrazzoli, che nel 2004 furono coinvolti nell’aggressione armata al centro sociale Conchetta, luogo storico dell’antagonismo meneghino. Oltre a loro, poi, si è fatto vedere il siciliano Domenico Bosa nato a Gela nel 1967, meglio conosciuto come Mimmo Hammer. È lui l’ultimo leader del movimento che inneggia alla “fratellanza bianca”. Lui che sul piatto può mettere rapporti di un certo peso. Rapporti criminali soprattutto. Tanto che il suo nome compare in un’indagine della Guardia di finanza di Milano che nel dicembre 2013 ha fotografato i rapporti tra il narcos montenegrino Milutin Todorovic e uomini della ‘ndrangheta legati allo storico boss di Bruzzano Giuseppe Flachi, detto Pepè . Bosa non risulta indagato nell’inchiesta ma la sua voce finisce in una lunga intercettazione ambientale. Parlano Mimmo Hammer e Todorovic. Parlano didroga e di soldi che i calabresi devono al trafficante che progetta ritorsioni e a Bosa dice: “Mimì vuoi che ti dico una cosa l’unica persona in Italia della quale mi fido sei te”. A quel punto Mimmo Hammer lo avverte sull’opzione omicidi: “Devi avere un approccio giusto, nel senso che magari vieni venduto, hai capito stai attento, io capisco che loro (i Flachi, ndr) sono in debito ed è giusto che lo paghino però ragiona (…). Se ti posso dare un consiglio, non fare le guerre se le puoi risolvere, lascia che le facciano gli altri e così tu avanzi”.

Nell’agenda di Mimmo Hammer compare anche il nome di un altro pregiudicato legato a malavitosi di San Siro imparentati con il serbo Dragomir Petrovicdetto Draga, nome storico della mala meneghina, già legato alla strage al ristorante La Strega di via Moncucco del 1979 e arrestato nel marzo scorso, mentre da ergastolano usufruiva di permessi dal carcere per lavorare in una società dove era l’unico dipendente.

Un contratto d’oro quello di Draga stipulato grazie ai buon uffici dell’avvocato Carlo Maffei, anche lui arrestato. E con Maffei lo stesso Bosa intrattiene diverse conversazioni. Naturalmente Bosa, che attualmente non risulta indagato, smentisce questi contatti. Dice di aver cambiato vita. Di voler pensare solamente agli Hammer. Politica e malavita. In attesa di capire se questi rapporti produrranno sviluppi, ieri in via Toffetti è andata in scena l’ennesima manifestazione neonazi nella città medaglia d’oro della Resistenza. Tanti decibel e un segnale: l’estrema destra rialza la testa e grida presente.

(da Il Fatto Quotidiano del 30 novembre 2014)

La lezione di Pignatone

Ancora una volta la lezione di buona politica, di buona amministrazione o forse semplicemente di buona cittadinanza arriva da un magistrato. E nonostante siarassicurante che esistano uomini di giustizia con pensieri di questa profondità rimane la perplessità di un periodo storico in cui alla magistratura vengono delegati anche i doveri che dovrebbero essere degli intellettuali, dei buoni politici e degli editorialisti. Eppure sembra che vada bene (a tutti) così.

La lezione (alla politica) del capo della Procura. «La premessa, per parlare di Roma: non tutto ciò che non è reato corrisponde a una buona amministrazione…». Quando al Teatro Quirino, alla conferenza del Pd, parla il procuratore Giuseppe Pignatone, c’è un silenzio totale, interrotto qua e là dagli applausi: sarà che l’uomo ha una storia di impegno, di dedizione alla giustizia, di lotta alla criminalità organizzata, ma sarà anche per ciò che dice. Una sferzata. Un resoconto dettagliato dei rapporti tra mafie e politica, amministratori locali, imprenditori. Non viene mai nominato, ma certo c’è il caso Di Stefano sullo sfondo (il deputato Pd accusato di aver intascato mazzette). Soprattutto, la relazione del capo della Procura offre un quadro deprimente per la Capitale, fatto di «rapporti ambigui», e testimoniato anche dalle inchieste, da quel «miliardo di beni sequestrato nel 2014», «dai reati contro la pubblica amministrazione, uno dei problemi maggiori di Roma». Quando smette di parlare, salutato dal lungo applauso, l’ex capogruppo Pd in Comune, Francesco D’Ausilio, parla di «una nuova questione morale per Roma».

Dal narcotraffico alle frodi

Chiude così la sua relazione, Pignatone: «Giovanni Falcone diceva che sulla scrivania di ogni magistrato e di ogni investigatore dovrebbero essere incise le parole “Possiamo sempre fare qualcosa”. Forse, dico io, queste parole dovrebbero essere incise anche sulla scrivania di ogni politico e di ogni amministratore…». La presenza mafiosa va al di là dei reati che, pure, non mancano: «Sono in aumento le denunce per tangenti». Chiede di «cambiare le regole, sugli appalti, sulla trasparenza, basta con il ricorso continuo all’emergenza». Servono «meccanismi premiali, come per i collaboratori di giustizia, per il corrotto o per il corruttore che fornisca elementi utili alla condanna della controparte». Anche «se poi – fa notare – le regole sono importanti ma sono le persone che fanno la differenza…». Chiaro, no?
La situazione, in città, è complessa: «Narcotraffico, reati informatici che crescono in maniera esponenziale, terrorismo, colossali frodi in danno agli enti pubblici e dell’Unione europea, fino alla grande evasione fiscale». L’elenco è lungo.

La causale dell’assegno? «Tangente»

Del resto «le indagini hanno dimostrato la presenza della criminalità organizzata di tipo mafioso, di almeno due organizzazioni a Ostia, una collegata a Cosa Nostra, entrambe pronte a far ricorso alla violenza». Ma, attenzione, non c’è solo la violenza: «A Roma ci sono altri mezzi, c’è la corruzione. La criminalità aspetta che gli aggiustino le gare d’appalto, aspetta i tempi della burocrazia, della politica…». E dunque nella Capitale esiste «il rischio di un accordo tra mafia e altro, di un patto che non si basa sulla paura ma sulla reciproca convenienza». A differenza di quanto accade con la povera gente, «il politico in questo accordo è in una posizione di forza rispetto al mafioso». Non parla solamente di eventi previsti dal codice penale, ma «anche di etica». Di certo, «alle casse pubbliche vengono sottratti miliardi». Miliardi. Certo, «nessuna categoria può dirsi immune, neanche quella dei magistrati» ma è chiaro che il suo discorso, di fronte alla platea politica, ha tutt’altro bersaglio. A volte, dice, «cadono le braccia. Abbiamo sequestrato un carnet di assegni, la causale era di una sola parola, “tangente”». Scritta proprio così: senza traccia di pudore, di vergogna, di timore.

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Il pessimo Stato dell’antimafia

Avevamo già parlato di Calì in una passata puntata di Radiomafiopoli ma le ultime notizie rendono ancora più tragicomico il corso degli eventi. Questo Stato non riesce proprio ad essere credibile. No. Ecco l’articolo di Giuseppe Pipitone:

Questa è una storia di estorsioni, di minacce di morte, di auto incendiate, di immobili sequestrati da agenti della forestale poi finiti agli arresti, di boss mafiosi come Sergio Flamia, oggi pentito, che fanno da confidenti ai servizi e nel frattempo vanno in giro a chiedere il ”pizzo”. Una storia piccola, cominciata tra Altavilla Milicia e Casteldaccia, in provincia di Palermo, e finita in Senato, oggetto d’interrogazioni parlamentari al ministero dell’Interno, e alla prefettura di Milano, all’ordine del giorno di vertici sulla sicurezza. È infatti dal capoluogo lombardo, che nel 2009 Gianluca Calì, originario di Casteldaccia ma residente a Milano, decide di venire ad aprire in Sicilia una succursale della sua concessionaria d’automobili: la Calicar di Altavilla Milicia. “Volevo provare ad investire nella mia terra” spiega oggi, dopo essere finito in un corto circuito al centro tra le minacce di Cosa nostra e la folle burocrazia dello Stato.

Il pizzo di Flamia
In Sicilia, Calì decide anche di comprare all’asta una villa vicino Casteldaccia: due piani da 160 metri quadrati l’uno. “L’idea era quella di trasformarla in una struttura ricettiva, che potesse creare un minimo di ricchezza per la nostra terra, dare lavoro e incrementare l’indotto turistico della zona” racconta. Quella villa però non è una casa qualsiasi: apparteneva allo storico padrino di Bagheria Michelangelo Aiello, che la condivideva con Michele Greco, il Papa di Cosa Nostra. Non è mai stata confiscata perché era ipotecata ed è quindi passata ad un istituto di credito che ad un certo punto la mette all’asta. “Poco prima di presentare la mia offerta, ricevo la visita di alcuni personaggi”, racconta Calì. Si presentano come “eredi dei precedenti proprietari” e chiedono all’imprenditore di “lasciar perdere quella casa”. Ma lui non appare per nulla impressionato: “Risposi di ripetere le loro parole davanti ad un giudice – spiega – poi mi aggiudicai la casa”.
Da quel momento Calì finisce dentro ad un tunnel di intimidazioni e minacce. Il 3 aprile alcune automobili della sua concessionaria vengono incendiate: passano tre mesi e nell’autosalone di Calì si presenta un uomo. “Dice di chiamarsi Flamia, di avere bisogno di denaro per aiutare alcuni parenti detenuti”, racconta l’imprenditore, che si oppone alla richiesta estorsiva, ripetuta poi per altre due volte ad ottobre. Sergio Flamia è un uomo d’onore di Bagheria, autore di una quarantina di omicidi, che quando va da Calì a chiedere il pizzo è già da anni un confidente a libro paga dei servizi segreti: dall’intelligence, il boss bagherese avrebbe ricevuto persino 150 mila euro in contanti. Di Flamia e del pizzo chiesto a Calì si è parlato mercoledì scorso anche nell’ultima seduta della commissione parlamentare antimafia, quando a Palazzo San Macuto sono stati ascoltati i pm Leonardo Agueci, Vittorio Teresi, Nino Di Matteo e Francesca Mazzocco. I verbali della seduta sono stati secretati.

La villa dei boss sequestrata da forestali infedeli
Nel febbraio 2013 il vortice dell’imprenditore diventa ancora più nero. La villa che fu dei boss Aiello e Greco, e che Calì vuole trasformare in una struttura alberghiera, viene sequestrata da due ispettori della Forestale. “Stato grezzo e in corso d’opera”, scrivono nel verbale di sequestro, come se lo stabile fosse stato costruito di sana pianta in maniera abusiva. Così non è, perché quella villa esiste dal 1965, e Calì sta solo facendo dei lavori di ristrutturazione. Fa opposizione al sequestro e il 4 marzo 2013 ritorna in possesso dell’immobile. Gli ispettori della Forestale però non demordono. E il 15 marzo sequestrano di nuovo la villa con le stesse motivazioni. Solo un errore burocratico? Il verbale di sequestro porta due firme: sono gli ispettori della Forestale di Bagheria Luigi Matranga e Giovanni Coffaro. Che a fine marzo 2013 finiscono coinvolti in un’inchiesta della procura di Palermo: al centro dell’indagine proprio i ricatti di alcuni dipendenti della Forestale di Bagheria nei confronti degli abitanti della zona: richieste di denaro dietro la minaccia del sequestro di immobili. “Una vicenda – scrive il gip Angela Gerardi nell’ordinanza di custodia cautelare– in cui emerge lo scarso se non inesistente senso del dovere e indegno esercizio del potere che interessa alcuni componenti dell’ufficio del corpo forestale (tra questi viene citato proprio Giovanni Coffaro) e l’irresponsabile comportamento da parte di altri (come il comandante Luigi Matranga)”. In carcere finiscono in quattro. Coffaro, uno dei due che sequestra la villa di Calì, è tra gli indagati anche se il gip ne respinge l’arresto. Nelle carte dell’inchiesta si ipotizza invece che Matranga, l’altro estensore del verbale di sequestro, fosse a conoscenza del “lavoro sporco” portato avanti dai suoi sottoposti. “Matranga non ha mai presentato una denuncia né ha mai segnalato i comportamenti dei suoi subordinati”, scrive sempre il gip. A Calì non è mai arrivata una richiesta di denaro, la tipica “messa a posto”, per dissequestrare la villa. Anzi in questi giorni gli è arrivata un’ordinanza di demolizione del comune di Casteldaccia: entro gennaio del 2015 dovrà distruggere completamente l’abitazione. Anche se per quella data non ci sarà ancora una sentenza nel procedimento per abusivismo edilizio che lo vede imputato. “In pratica potrei essere assolto, ma a quel punto la villa non esisterebbe più perché sono costretto a distruggerla: in alternativa diventa di proprietà del comune. Mi chiedo quante siano le ordinanze di demolizione così tempestive in Sicilia: talmente tempestive che l’ufficio tecnico arriva prima di una sentenza di un tribunale”. A curare i lavori di ristrutturazione della villa che fu di Greco era stato il fratello dell’imprenditore palermitano, l’ingegner Alessandro Calì. Che i tentacoli di Cosa nostra li ha visti da vicino qualche tempo fa, quando da presidente dell’ordine degli ingegneri ha radiato dall’albo Michele Aiello, il ricchissimo prestanome di Bernardo Provenzano. Aiello è un uomo potente e fortunato:condannato a 15 anni di carcere è riuscito a trascorrerne uno intero ai domiciliari, proprio nella sua Bagheria, perché affetto da favismo: è lo stesso periodo in cui a Calì sequestrano la villa, e l’autosalone dell’imprenditore viene preso di mira dalle cosche.

L’escalation di minacce: “Non sono tranquillo”
Nel frattempo continua l’escalation di minacce nei confronti dell’imprenditore: intimidazioni che diventano inquietanti. Dopo la pubblicazione di alcuni articoli di stampa che lo riguardano, nel giugno del 2013, gli arrivano due telefonate nel cuore della notte: “Mi dicevano: ti ammazziamo, ti diamo fuoco, ti facciamo finire noi”, racconta. Poi la mattina del 6 febbraio 2014 le agenzie di stampa rivelano che Flamia è un uomo a libro paga dei servizi: poche ore dopo due uomini si presentano nella concessionaria di Calì. “Non erano interessati alle autovetture, non chiedono nessuna informazione, ma con fare circospetto mi fissano insistentemente. Appena vanno via mi segno il numero di targa della loro automobile: lo controllo alla motorizzazione ma quella targa non risulta iscritta nei registri”. Una targa falsa, fantasma, come quelle utilizzate sui veicoli in dotazione a uomini dell’intelligence. “Chiamo la squadra mobile, viene fissata una riunione in prefettura per discutere della mia sicurezza: un funzionario di polizia si lascia sfuggire che la situazione è grave e che non se la sente di dirmi di stare tranquillo. E io tranquillo non ci sono per nulla”.
A quattro anni dal primo attentato, Calì non ha ancora avuto accesso al fondo di solidarietà per le vittime delle richieste estorsive e dell’usura. “Ho fatto la richiesta varie volte, ma nulla, neanche un pezzo di carta per rifiutarmi l’aiuto che mi spetta di diritto”. Le vicenda in cui è finito l’imprenditore ha avuto una ripercussione diretta sulla sua azienda: nel 2010 Calì fatturava 24 milioni di euro all’anno e aveva 24 dipendenti. “Oggi – spiega – ho quattro dipendenti e 2 milioni di fatturato: è vero che c’è la crisi, ma la crisi c’è perché Cosa nostra rovina gli imprenditori onesti. E lo Stato li lascia soli. Oppure, ancora peggio, li perseguita”.