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Giulio Cavalli

Luce su Quarto Oggiaro: si pente Alex Crisafulli

Crisafulli-Alessandro-20.09.64-675Per tutti gli anni Ottanta e buona parte dei Novanta è stato il re criminale di Quarto Oggiaro. Assieme al fratello ha gestito lo spaccio sulla piazza di Milano, ha commesso omicidi e si è seduto ai tavoli riservati della mafia spa sotto al Duomo. Adesso, dopo anni di carcere, questo romanzo nero è disposto a metterlo nero su bianco davanti ai magistrati. Sì perché Alessandro Crisafulli ha scelto la via della collaborazione. E lo ha fatto davanti al pm milanese Marcello Musso che il 23 agosto 2014 lo ha interrogato perché coinvolto in un’inchiesta di droga. Si tratta dell’indagine Pavona 4 che a luglio mette in scacco diversi gruppi di narcos legati al crimine organizzato.

“Da sei anni a questa parte io con le istituzioni mi sento alleato. Mi sono arreso”

Prima di quel verbale che potrebbe risultare decisivo per riscrivere trent’anni di storia criminale milanese, Crisafulli ha inviato una lettera dal carcere di Opera. Lettera d’intenti che diventa tale davanti al pubblico ministero che lo accusa, non solo di aver fatto parte di un’associazione a delinquere finalizzata al traffico di droga, ma gli imputa anche la decisione, attraverso ambasciate portate fuori dal carcere dalla moglie, di aver investito il clan Tatone di gestire lo spaccio di droga a Quarto Oggiaro per conto della famiglia Crisafulli. Lui, Alex, nega. Ammette l’esistenza dell’associazione, ma nega di averne fatto parte e soprattutto nega le responsabilità della ex moglie. Poi dice: “Le mie colpe le evidenzieremo strada facendo…”. Quindi aggiunge: “Da sei anni a questa parte io con le istituzioni mi sento alleato (…) Le ho detto che mi sono arreso” e “cazzo, sono venuto qua come collaboratore io (…) perché la galera non è più il mio posto. Non posso stare ancora vent’anni in galera (…) Se Lei mi vedesse, io sono sempre con le cuffie o con il libro. Non ho più un rapporto e lo possono testimoniare tutti gli agenti. E difatti io ogni giorno combatto con un agente perché mi dice: Ma Crisafulli, ma che cazzo ci fai tu qua? Cosa ti può essere successo?Si vede che era il mio Karma”.

Il pm cita le Confessioni di Sant’Agostino, il boss risponde con la filosofia di Gadamer
Difficile essere più chiari di così. Insomma, Crisafulli, fratello di Biagio soprannominato Dentino, vuole parlare perché “per molto tempo ho vissuto nella animalità”. La dichiarazione d’intenti c’è. Il pm, però, tira dritto sui fatti contestati nell’ordinanza. Ed è giusto che sia così. Musso non è arrivato ieri. Di pentiti ne ha sentiti a decine. Padrini di Cosa nostra anche, negli anni in cui ha ricostruito diversi omicidi di mafia a Milano. Non si fida. Nelle 187 pagine il boss e il pm discutono. Dei fatti, prima di tutto. Che Crisafulli nega. Ma anche di filosofia. Nel momento in cui il pm cita addirittura “Le mie confessioni” di Sant’Agostino. “Ci ha insegnato che si ha un’intuizione, che la conoscenza è basata su un’intuizione iniziale che è credere o non credere. Lui parlava di credere in Dio, eccetera. Ecco, credere che quelle emergenze siano buone, ma questa è un’intuizione iniziale, da cui parte la conoscenza. Quella è un’intuizione iniziale, poi bisogna vedere dove ti porta la conoscenza, e di qui l’intercettazione ambientale”. Si parla di filosofia ma si resta agganciati all’indagine. Crisafulli non resta spiazzato e risponde con sorprendente competenza citando Hans-Georg Gadamer, filosofo tedesco e padre dell’ermeneutica. Dice: “C’era anche un certo Gadamer che parlava della precomprensione, che è un’altra cosa”.
Spadino muore, perché una sera si trova a mangiare con il fratello di Foschini tra un pippotto e l’altro

La digressione colta dura poco. Si torna al crimine. “Dottore sono qua. Mi sono messo in gioco. Mi sono dato tutto. Le ho raccontato altre cose”. Tra le varie, il boss pentito, ricostruisce anche l’omicidio di Vincenzo Morelli detto Spadino scomparso la sera del 26 aprile 1991 e ritrovato cadavere solo quindici anni dopo nei boschi del parco delle Groane a sud di Milano. Per quel fatto ci sono già state diverse condanne. Crisafulli prima coinvolto sarà successivamente scagionato. Davanti a Musso racconta come maturò quell’omicidio: “Io questo Morelli lo conoscevo sin da ragazzino (…) spacciava per noi (…) però siccome era troppo montato (…) l’ho sempre mandato via da Quart Oggiaro. Si è unito alla batteria di Vittorio Foschini (oggi collaboratore di giustizia, ndr), Pellegrino, non so se se li ricorda o li ha sentiti nominare, e si è unito a questi e gli faceva l’autista e queste cazzate qua. Solo che loro lo odiavano, però non avevano il coraggio di ucciderlo, perché erano una banda di scappati di casa. Millantavano cose che, specialmente Foschini, non avevano mai fatto. Morale Spadino muore, perché una sera si trova a mangiare con il fratello di Foschini (…) e tra un pippotto di cocaina e l’altro gli dice: Mi sono scopato la sorella di Pellegrino. Siccome il più montato dei Pellegrino era Dino è andato fuori di testa e il giorno dopo l’hanno ucciso. Ed è lì che è morto Spadino, perché Spadino ha fatto questa confidenza (…). Lo hanno portato in casa di Nicolino, altro fratello dei Pellegrino che abitava a Baranzate, lui aveva sposato una zingara, e l’hanno ucciso lì”. Queste una delle tante verità (ancora da accertare) di Alex Crisafulli, ras della droga, boss rispettato, oggi pentito e disposto a parlare con chi in Procura a Milano vorrà ascoltarlo. “Perché – chiude l’ex re criminale –  è vero che io ho ucciso, e non voglio entrare nel merito dei miei motivi, perché non c’è motivo che possa giustificare un’uccisione, ma certamente non se uno mi schiacciava il piede come facevano tanti altri”.

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Antimafiosi solo per gli abbonati SKY

imageCattleya, la società di produzione della serie TV “Gomorra”, ha deciso di non costituirsi parte civile nel processo che deve fare chiarezza sull’estorsione subita durante le riprese e così è riuscita a mandare in onda la propria puntata più brutta: come i maghi che per errore mostrano il trucco per uno svolazzo del telo.

La notizia è qui:

La procura di Napoli ha chiesto oggi al giudice del tribunale la condanna a complessivi 27 anni per i tre imputati accusati di estorsione nei confronti della società cinematografica Cattleya per la produzione televisiva di “ Gomorra la serie ”. L’inchiesta ruota attorno all’imposizione del pagamento di somme di denaro in favore di un clan camorristico di Torre Annunziata. E a versarlo sarebbero stati gli uomini della casa di produzione impegnata nella realizzazione di episodi per la tv che ha avuto grande successo che si ispirano a un marchio, quello di Gomorra, che in Italia e soprattutto nelle regioni con maggiore presenza mafiosa è diventato un importantissimo riferimento per quanti si impegnano a lottare le mafia, nelle istituzioni e nella società civile, e per quanti nutrono la speranza di un paese senza criminalità.

A sposare questi elementi è stata proprio Cattleya, che però, dall’inchiesta dei carabinieri, coordinata dalla procura distrettuale antimafia di Napoli, ne esce come una vittima costretta a pagare i boss pur di girare senza aver problemi in una villa del clan. A questo punto, seguendo le linee di coerenza che il marchio Gomorra impone, ci si sarebbe aspettati che nell’udienza di oggi davanti al giudice, in cui si apriva il giudizio abbreviato per gli imputati, la casa di produzione Cattleya chiedesse di costituirsi parte civile. Un segnale importante per un territorio ostaggio dei clan. Ma nessuno della società che ha prodotto Gomorra lo ha fatto. Diversamente dalla Federazione nazionale antiracket che ha chiesto e ottenuto di costituirsi parte civile contro questi tre imputati: il boss di Torre Annunziata Francesco Gallo, il padre, Raffaele, e la madre, Annunziata De Simone.

Caso Manca: oltre al danno la calunnia

ingroia-manca-angela-conf-stampadi Lorenzo Baldo – 25 novembre 2014
La Procura di Viterbo iscrive nel registro degli indagati l’ex pm per alcune sue dichiarazioni rilasciate durante l’udienza preliminare al processo per la morte del giovane urologo di Barcellona P.G.
Palermo. “Una mostruosità giuridica”. Non usa mezzi termini all’apertura della conferenza stampa l’avvocato della famiglia Manca, Antonio Ingroia (che lavora in team insieme al collega Fabio Repici), riferendosi all’avviso di garanzia inviatogli dalla Procura viterbese. Nel documento il pm Renzo Petroselli lo accusa di aver incolpato ingiustamente il dirigente della Squadra Mobile di Viterbo, Salvatore Gava, di falso ideologico per la sua informativa sulle indagini relative alla morte di Attilio Manca, il giovane urologo barcellonese trovato cadavere nella sua casa di Viterbo nella notte tra l’11 e il 12 febbraio 2004. Petroselli sottolinea che le accuse di “depistaggio” attraverso la costruzione di “prove false” sono state pronunciate durante l’udienza preliminare del 3 febbraio scorso relativa al procedimento penale per la morte del giovane medico che vede come unica imputata la romana Monica Mileti, accusata di aver ceduto la dose fatale di eroina che ha causato la morte del giovane urologo.

L’obbrobrio giuridico
Ingroia esordisce sottolineando l’evidente anomalia del suo avviso di garanzia: è la prima volta che un avvocato viene incriminato per calunnia per quello che ha dichiarato nel corso dell’udienza. L’ex pm ribadisce che bisogna essere “analfabeti del diritto” per non conoscere che l’art. 590 del codice penale prevede una specifica causa di non punibilità per le offese contenute negli scritti e nei discorsi che le parti, pm e difensori, rendono davanti all’Autorità giudiziaria. In questo caso è tutto molto più complesso e occorre mettere insieme tutti i pezzi.

Antefatto
Lo scorso 9 gennaio il giornalista di Chi l’ha visto, Paolo Fattori, confronta il verbale della squadra mobile di Viterbo, guidata all’epoca da Salvatore Gava, con i registri dell’ospedale “Belcolle”, dove Attilio Manca lavorava. Da quel confronto emerge una schiacciante verità: Attilio Manca non era in ospedale nei giorni del ricovero di Bernardo Provenzano a Marsiglia. Un fatto incontrovertibile che si scontrava – e si scontra – con la relazione firmata dallo stesso Gava nella quale veniva scritto invece che l’urologo siciliano era di turno all’ospedale nei giorni in cui il boss si trovava in Francia per sottoposti ad un’operazione alla prostata. I giorni in cui è segnata la mancata presenza del giovane urologo sono quelli tra il 20 e il 23 luglio 2003, poi dal 25 al 31 luglio 2003 e infine nei giorni del 25, 26 e 31 ottobre 2003 (il 30 se ne era andato via intorno alle 15:30, prima quindi che terminasse il suo turno). Il dott. Manca era quindi rientrato in servizio la mattina del 1° novembre. E proprio i giorni in cui il giovane urologo era assente dal lavoro coincidevano con il periodo nel quale Provenzano (tra esami preparatori, intervento alla prostata, e successivi esami di controllo) si trovava in Francia.

I protagonisti
Salvatore Gava è lo stesso pubblico ufficiale già condannato a 3 anni, in via definitiva, per un falso verbale all’epoca delle violenze alla scuola Diaz. La sua informativa sul caso Manca è stata quindi smentita dal confronto con i registri dell’ospedale dove lavorava Attilio Manca. Perché mai in quella relazione si leggeva che la presenza di Attilio Manca sul luogo di lavoro era stata appresa “in via informale” quando “formalmente” i fogli dell’ospedale dicevano tutto il contrario? Dove sono quindi i presupposti di calunnia da parte di Antonio Ingroia? Il pm Petroselli è lo stesso magistrato che, dopo svariate richieste di archiviazione sul caso specifico, ha chiesto e ottenuto l’esclusione della famiglia Manca, quale parte civile, dal processo che si sta celebrando a Viterbo nei confronti di Monica Mileti. Per motivare la sua decisione Petroselli ha affermato che i genitori e il fratello di Attilio non sono stati danneggiati dalla morte del loro familiare. Probabilmente basterebbero queste sue poche parole per qualificare la caratura morale del magistrato.

Strane manovre
Quello che vuole essere fatto passare come un suicidio per droga nasconde in realtà un bieco tentativo di  occultare qualcosa di molto più terribile. Resta da cristallizzare il ruolo di Cosa Nostra all’interno di quello che a tutti gli effetti appare come un omicidio. Così come il ruolo di determinati apparati investigativi. Durante la conferenza stampa lo stesso Ingroia annuncia di voler denunciare il pm Petroselli al Csm o anche per via penale. Per l’ex pm è del tutto evidente che non si voglia arrivare alla verità sul caso di Attilio Manca. E questo perché secondo la ricostruzione del legale della famiglia Manca quella strana morte è collegata alla trattativa Stato-mafia in quanto la copertura della latitanza di Provenzano – garante di quel patto –  rientrava in determinati accordi. Attilio Manca sarebbe stato coinvolto inconsapevolmente nella cura dell’anziano boss e poi, una volta resosi conto della sua reale identità, sarebbe stato eliminato attraverso la più classica delle manovre firmata dalla mafia in sinergia con apparati “deviati”. Ingroia traccia quindi un filo che unisce i misteri di questo omicidio con l’isolamento del pm Nino Di Matteo. “Non è un caso – ha ribadito l’ex pm – quello che si sta verificando per la nomina del nuovo procuratore di Palermo”. Per Ingroia il rischio dell’arrivo di un procuratore “normalizzatore” ostile al processo sulla trattativa che isoli ulteriormente Di Matteo è tutt’altro che peregrino. L’ex magistrato si appella quindi alla Presidente della Commissione antimafia, Rosy Bindi, che poche settimane fa ha definito il caso Manca “un omicidio di mafia”, affinchè mantenga la promessa di istituire al più presto un’apposita commissione a tema. “Chiedo di essere sentito dal procuratore facente funzione Leonardo Agueci – conclude l’ex magistrato – in quanto ritengo che ci siano le condizioni per aprire un fascicolo a Palermo sulla morte di Attilio Manca in quanto questo fatto è collegato alla latitanza di Provenzano e alle indagini sulla trattativa”.

Il dolore di una madre
Non ha più lacrime, Angelina Manca, prende la parola dopo l’ex pm, mostra le foto del volto tumefatto del figlio e ripercorre i momenti salienti di questi 10 anni nei quali lei e la sua famiglia hanno gridato per avere verità e giustizia. Racconta dei tentativi di indurli al silenzio attraverso minacce sibilline o del tutto esplicite. In prima fila suo marito, Gino, la osserva rivivendo ogni istante. La sua richiesta di attenzione rivolta ai media è l’ultimo appello di chi continua a scontrarsi con una macchina della giustizia disposta a risolvere il giallo della morte del loro figlio incriminando unicamente un avvocato e che, senza alcun pudore, evita accuratamente di arrivare alla verità.

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La verità negata su Attilio Manca

MancaAttilio2aConsidero il caso di Attilio Manca uno scempio istituzionale nei confronti della sua famiglia, della verità e della giustizia. Per questo credo che debba impegnarmi anch’io al limite delle mie forze. Intanto vale la pena leggere le parole della madre, Angela:

“Credo che sull’omicidio di Attilio Manca non si voglia fare luce, anzi, stanno cercando di ostacolare ogni nostra iniziativa finalizzata all’ottenimento della verità, sia sulla morte di mio figlio, sia sulla latitanza ‘dorata’ di Bernardo Provenzano, coperta per oltre 40 anni da pezzi importanti dello Stato. Si sono verificati troppi episodi strani, anche recentemente, per poter pensare a delle semplici coincidenze: dalla strano ‘suicidio’ per ‘impiccagione’ in carcere di Francesco Pastoia, braccio destro di Provenzano, agli strani lividi con i quali lo stesso Provenzano è stato trovato in carcere”.

Angela Manca non ha peli sulla lingua. Pesa le parole, ma mette in fila i fatti che riguardano la morte del figlio Attilio Manca, brillantissimo urologo di 24 anni, originario di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina),trovato cadavere la mattina del 12 febbraio 2004 nel suo appartamento di Viterbo, città dove era in servizio da un paio di anni, Per i magistrati laziali, il decesso del medico è da attribuire a un mix micidiale di eroina, alcol e tranquillanti trovati nell’organismo della vittima; per i familiari, invece, all’operazione di cancro alla prostata subita dal boss Bernardo Provenzano nel 2003 a Marsiglia, alla quale Attilio avrebbe preso parte. La Procura di Viterbo è certa dell’”inoculazione volontaria”, in virtù di due buchi trovati nel braccio sinistro dell’urologo (quello sbagliato: Attilio era mancino puro) e di due siringhe rinvenute a pochi metri dal cadavere. La famiglia accusa i magistrati laziali di aver costruito un castello di bugie, a cominciare dal mancato rilievo delle impronte digitali sulle siringhe, effettuato solo otto anni dopo, che tra l’altro non ha dato alcun esito, per passare alle foto del cadavere scattate pochi minuti dopo dalla Polizia, che non sarebbero state tenute in considerazione: dalle immagini si vede il volto di Attilio Manca sporco di sangue, il setto nasale deviato, le labbra gonfie, i testicoli enormi, con lo scroto striato da una evidente ecchimosi, segnali questi, più compatibili con una colluttazione che con una morte da overdose. Ma in verità è l’intera l’impalcatura investigativa a non convincere.

L’on. Sonia Alfano, ex presidente della Commissione antimafia europea, nel volume “Un ‘suicidio’ di mafia”, Castelvecchi editore, dice: “Quando andai a visitare Provenzano in carcere, lo trovai pieno di botte. Gli chiesi: ‘Signor Provenzano, si rende conto che stanno facendo pagare solo lei, mentre gli altri sono fuori dal carcere?’. E lui: ‘Non possiamo parlare fuori?’. Aveva paura. Aveva punti di sutura al sopracciglio, un livido alla guancia e un livido alla mandibola”.

Signora Manca, perché collega il “suicidio” di Pastoia con l’episodio denunciato dall’on. Alfano? Che c’entrano i due episodi con la morte di suo figlio?

“Saranno anche delle coincidenze, ma Pastoia (intercettato dalle ambientali), aveva parlato di un ‘dottore’ che, oltre ad essere presente in sala operatoria a Marsiglia durante l’intervento di cancro alla prostata alla quale si era sottoposto il boss nell’autunno del 2003, avrebbe curato Provenzano prima e dopo l’intervento. Pochi giorni dopo Pastoia morì e la sua tomba venne violentemente profanata nel cimitero di Belmonte Mezzagno. Vogliamo sapere chi è questo ‘dottore’. Perché una cosa è chiara: un urologo deve aver diagnosticato il tumore a Provenzano, e deve averlo curato dopo l’operazione”.

Andiamo ai lividi di Provenzano.

“Sono comparsi dopo che Sonia Alfano aveva chiesto testualmente: ‘Signor Provenzano, ricorda il giovane medico Attilio Manca?’. Il boss non disse di non conoscerlo. Rispose: ‘Amo a mettiri mmenzu autri cristiani?’, dobbiamo mettere in mezzo altre persone?, riferendosi probabilmente a quella rete di personaggi dello Stato che lo ha protetto per tanti decenni. Se è una coincidenza, anche questa è molto singolare”.

Come giudica la clamorosa ritrattazione del boss dei Casalesi, Giuseppe Setola, che recentemente si è pentito di essersi pentito proprio nel momento in cui ha svelato ai magistrati palermitani, Nino Di Matteo e Roberto Tartaglia (che si occupano della Trattativa Stato-mafia) alcuni retroscena sulla morte di Attilio Manca?

“Un altro episodio singolare. Da maggio Setola aveva detto chiaramente quello che sosteniamo noi da dieci anni: ovvero che la morte di Attilio non è dovuta ad overdose di eroina, ma sia da collegare all’operazione di Provenzano. Attenzione: Setola non fa marcia indietro mentre sta raccontando questi retroscena. Decide di non parlare più quando le sue dichiarazioni segrete vengono rese pubbliche, Infatti non smentisce quello che ha detto, dice di temere per i suoi familiari. Evidentemente non si è sentito protetto dallo Stato”.

Eppure il capo della Direzione distrettuale antimafia di Roma, Giuseppe Pignatone, dopo le sue dichiarazioni, ha aperto un fascicolo di indagine “modello 45” sulla morte di Attilio Manca.

“Non sono un’esperta di diritto, ma so che il “modello 45” è un procedimento blando, che temo non porterà a niente. Del resto, il sostituto procuratore Michele Prestipino, da sempre in sintonia con Pignatone, ha detto che la morte di Attilio non c’entra niente con l’operazione di Provenzano. Perché Prestipino è così sicuro se non ha mai indagato su Attilio? Prestipino ha sì svolto una inchiesta, scaturita successivamente in un processo, sulla presenza di Provenzano a Marsiglia, ma non sull’eventuale intervento di Attilio nel contesto dell’operazione del boss corleonese”.

Recentemente a Viterbo la famiglia Manca non è stata ammessa come parte civile al processo che si sta celebrando contro Monica Mileti, colei che, secondo i magistrati laziali, sarebbe stata la spacciatrice che avrebbe ceduto l’eroina “fatale” a suo figlio. Il giudice monocratico ha giustificato la decisione dicendo che “la famiglia Manca non avrebbe ricevuto alcun danno dalla morte del congiunto”.

“Beh, anche in questo caso tutto sembra fin troppo chiaro”.

E’ secondario

Sono quasi due giorni che ripenso alla dichiarazione di Renzi secondo cui l’aumento dell’astensione è un fatto “secondario”. Mi è capitato anche di leggere in giro le centinaia di analisi che proliferano sui siti e nei social e come ogni elezione sembra che abbiano vinto tutti o perso tutti, tanto alla fine ci dicono che è la stessa storia. Se non ricordo male anche qualche Ministro disse, non molto tempo fa, che le proteste dei lavoratori e della FIOM, sono rappresentative semplicemente di interessi “particolari” e non di tutti i cittadini. Sulle vicende di Tor Sapienza qualche solone del Partito Democratico ebbe a dire che si trattava di vicende “periferiche”, disse così, nel senso di periferia rispetto alle questione importanti. Del resto erano casi particolari e minoranza anche gli esodati, non so se ve ne ricordate, quando si disse che semplicemente si erano sbagliati di qualche migliaio. In fondo anche la vicenda di Di Matteo e del processo sulla “trattativa” è qualcosa che interessa solo a quelli del “settore” (che poi mi dico che settore è? Quello della verità e giustizia? E’ quindi un campo solo per hobbisti?) e le misure anticorruzione sono un compitino dato per le vacanze al buon Raffaele Cantone, parafulmine contro le critiche.

E allora è proprio vero che gli interessi dei pochi sono diventati secondari, ha ragione Renzi. E alla fine dei diritti degli altri ci si interessa solo nei ritagli di tempo e con la dovuta sufficienza. E a quelli che cercano la “sinistra” basterebbe guardare in quel sottoscala lì, quello delle cose “da riprendere se c’è tempo” del circo paninaro e democratico di governo.

Ancora ancora ancora mafia dentro EXPO

Lo avevamo riportato qualche tempo fa in questa inchiesta: il rischio che le imprese in odor di mafia escano dalla porta di Expo per rientrarvi dalla finestra è altissimo, probabilmente è già la normalità. Sei mesi dopo la conferma: a margine della seduta del 24 novembre della Commissione Parlamentare Antimafia in trasferta alla prefettura di Milano si apprende che, lo riporta Il Giorno, tre imprese che erano riuscite a vincere i lavori per spazi espositivi esteri sono già state allontanate dai cantieri perché in odore di mafia. E in alcuni casi si tratta di imprese che avevano già tentato l’approccio con Expo: «Cacciate dalla porta, hanno cercato di rientrare dalla finestra» ha detto il presidente della commissione Rosi Bindi. Poteri paranormali? No, anzi, come abbiamo riconosciuto noi una possibilità di «uscire dalla porta e rientrare dalla finestra», così l’hanno riconosciuta pure le imprese.

Gli espositori esteri infatti non erano tenuti alla firma obbligatoria dei protocolli antimafia, così solo in 7 su 53 hanno aderito in questi mesi ai protocolli antimafia. All’epoca del nostro primo pezzo sul tema era addirittura la sola Germania ad aver firmato. Ieri, solo ieri, «Su decisione del prefetto Francesco Paolo Tronca e del commissario unico Giuseppe Sala – spiega la Bindi, ripresa di nuovo da Il Giorno – è stato chiesto ai Paesi ospiti di presentare la lista delle imprese che si sono aggiudicate i lavori per la realizzazione dei loro padiglioni».

spazi-partecipanti-expo2015

Questa volta però nessuna facoltà, ma un obbligo. Lo stesso prefetto di Milano Francesco Paolo Tronca ha informato la commissione antimafia che le interdittive sono ormai più di 60. Sono 63. «Le ultime 7 – ha spiegato la presidente della commissione parlamentare antimafia – sono state firmate l’altroieri e hanno colpito, di nuovo, aziende che si erano aggiudicate appalti per opere connesse o per i lavori di allestimento del sito».

Si è poi parlato di “opera di prevenzione antimafia” per evitare di perdere tempo e sperperare denaro. Inutile dire che a nemmeno sei mesi dall’inaugurazione di Expo se ancora si verificano eventi come questi, per quanto efficaci possano essere le interdittive o meno, sembra essere sempre tardi per accennare alla prevenzione.

(fonte)

Politicificio

Non so voi ma io ho trovato illuminante Loris Caruso su Il Manifesto:

Il nuovo pro­dotto è pronto. La poli­tica in crisi di con­senso deve pro­durre lea­der, ven­derli e pro­durne di nuovi, per ali­men­tare lo spet­ta­colo dello scon­tro bipo­la­ri­sta e il flusso illusione-disillusione su cui si basa. Il nuovo pro­dotto è natu­ral­mente Mat­teo Sal­vini. I nuovi pro­dotti poli­tici ven­gono sem­pre lan­ciati da mas­sicce cam­pa­gne pub­bli­ci­ta­rie, ma forse la cam­pa­gna per la pro­du­zione e per la pro­mo­zione di Sal­vini non ha pre­ce­denti. D’altra parte si par­tiva da con­di­zioni dif­fi­cili: una Lega al 3 per cento. L’avventura era par­ti­co­lar­mente affascinante.

Il segre­ta­rio della Lega è inin­ter­rot­ta­mente in tele­vi­sione, spesso due volte al giorno, dalla cam­pa­gna elet­to­rale per le euro­pee. Non può essere solo per­ché «fa audience» (fa audience?). Dopo, ci si pro­duce in con­ti­nue ana­lisi sul per­ché la Lega cre­sca nei son­daggi, cele­brando le doti del lea­der, le sue abi­lità comu­ni­ca­tive, la sua bra­vura ad inter­cet­tare gli umori popo­lari. La Lega cre­sce per­ché Sal­vini è in tele­vi­sione due volte al giorno. Una parte secon­da­ria del merito va anche alla sua capa­cità di indi­vi­duare poche chiare que­stioni per posi­zio­narsi sul mer­cato (No all’Euro e all’immigrazione). Ma nes­suno se ne accor­ge­rebbe se non ci fosse la prima condizione.

Si può imma­gi­nare quali siano gli effetti spe­rati di que­sta cam­pa­gna di suc­cesso. Par­tiamo dal set­tore di mer­cato che deve con­qui­stare: il suo prin­ci­pale desti­na­ta­rio sono i ceti popo­lari, cioè il prin­ci­pale tar­get di tutte le più recenti cam­pa­gne per il lan­cio dei lea­der, che infatti sono cre­sciuti elet­to­ral­mente innan­zi­tutto in quell’area.

Primo effetto: la Lega, nel suo nuovo vestito lepe­ni­sta, è in grado di spo­stare il discorso sulla crisi dal piano sociale a quello della sicu­rezza. Una fun­zione fon­da­men­tale, men­tre rie­merge in Ita­lia una dia­let­tica sociale che riguarda il lavoro e le con­di­zioni di vita dei set­tori popo­lari. A que­sto si aggiunga la cam­pa­gna, lan­ciata dal Cor­riere e ripresa dai talk show, sulle case occu­pate. Primo risul­tato: la rap­pre­sen­ta­zione è quella di un mondo popo­lare infil­trato dalla cri­mi­na­lità e il cui pro­blema prin­ci­pale sono gli immi­grati. Il suo secondo e terzo pro­blema sono i poli­tici e i sindacati.

Secondo effetto: Renzi è stato in que­sti mesi il mono­po­li­sta del mer­cato poli­tico. Ma la rap­pre­sen­ta­zione spet­ta­co­lare dello sport poli­tico non regge se non c’è un nemico, l’antagonista, lo sfi­dante, il cat­tivo. A che cosa appas­sio­narsi altri­menti? Il mer­cato è com­pe­ti­zione, il pro­dotto vin­cente deve essere sfi­dato dal pro­dotto che lo sosti­tuirà. In più: nella pros­sima cam­pa­gna elet­to­rale l’ex mono­po­li­sta potrà dire che biso­gna votare Pd per evi­tare il pericolo-Lega. Così, men­tre l’elettorato di sini­stra sarà ten­tato di votare un nuovo pos­si­bile sog­getto poli­tico, si potrà ancora ricor­rere alla magia del voto utile.

Il tema cen­trale è dun­que lo spo­sta­mento del con­flitto sociale su altri piani. Il prodotto-Grillo e il prodotto-Renzi l’hanno spo­stato sul piano delle oppo­si­zioni tra vec­chio e nuovo, tra sistema (poli­tico) e anti-sistema, tra Casta e anti-Casta. Adesso biso­gna tro­vare qual­che nuovo ter­reno di gioco, non si può fare sem­pre la stessa gara (il pub­blico si anno­ie­rebbe e guar­de­rebbe altrove). Ed ecco rie­mer­gere la questione-sicurezza, eterna Fenice che risorge nei momenti di pos­si­bile muta­mento poli­tico. Il Cor­riere della Sera a que­sti rea­lity par­te­cipa sem­pre con entu­sia­smo e da pro­ta­go­ni­sta: il brand della Casta, come la cam­pa­gna sulla lega­lità nelle peri­fe­rie, è nato sulle sue colonne.

Con­tem­po­ra­nea­mente, tutti i media cele­brano dalla mat­tina alla sera la messa can­tata delle virtù dell’impresa. Gli impren­di­tori licen­ziano, chiu­dono, delo­ca­liz­zano, non pagano i dipen­denti, li for­zano a dimet­tersi, ren­dono le aziende luo­ghi invi­vi­bili (si trovi qual­cuno che è con­tento del suo lavoro) e privi di libertà, non inve­stono in ricerca, cor­rom­pono i poli­tici, cer­cano uni­ca­mente posi­zioni di mer­cato pro­tette (la meri­to­cra­zia è per qual­cun altro, è com­pe­ti­zione tra i desti­na­tari di que­ste cam­pa­gne pub­bli­ci­ta­rie). Ma la rap­pre­sen­ta­zione una­nime degli impren­di­tori è quella degli eroi (in prima fila, nella messa can­tata, c’è Sal­vini). Nei talk show cir­cola costan­te­mente anche una nuova figura: il gio­vane star­tup­per, magari emi­grato in Ame­rica per aprire un’impresa inno­va­tiva che dà tanti posti di lavoro a gio­vani di talento (agli altri no, se non hai talento puoi stare a casa). Lo stur­tup­per, vestito a metà tra il vir­tuoso dello ska­te­board e il pro­prie­ta­rio di un Fondo inve­sti­menti, occupa più o meno la posi­zione del Mes­sia: lo si mette al cen­tro dello stu­dio, lo si cele­bra, gli si chiede a bocca aperta «Cosa dob­biamo fare?», si punta il dito verso la tele­ca­mera e, soprat­tutto se si è un gior­na­li­sta del Cor­riere della Sera, si dice: gio­vani, avete capito? Dovete fare così.

In que­sti anni si è esa­ge­rato a cele­brare la fine della cen­tra­lità del con­flitto di classe in società che erano e restano capi­ta­li­sti­che. Que­sto con­flitto si pre­senta sem­pre in forme spu­rie, cam­bia nel tempo, a volte è dif­fi­cile da leg­gere, ma incide sem­pre in modo deter­mi­nante sulla poli­tica. Molte cose rile­vanti pos­sono essere lette a par­tire da que­sta chiave, che ovvia­mente non è mai esau­stiva. Per esem­pio, può essere letta così tutta la tra­iet­to­ria che va dal Pci al Pd: il suo spo­sta­mento dalla cen­tra­lità del lavoro alla cen­tra­lità dell’impresa è il nucleo fon­da­men­tale di ogni suo cam­bia­mento. Oppure le vicende poli­ti­che che vanno dal 2006 a oggi: la cam­pa­gna per la lotta alla Casta e per la dif­fu­sione dell’antipolitica, lan­ciata men­tre in Par­la­mento c’erano 150 rap­pre­sen­tanti della sini­stra radi­cale; la crea­zione, nello stesso periodo, del Pd, con la pro­mo­zione del Vel­troni inno­va­tore che cor­reva da solo; la grande coa­li­zione Pd-Forza Ita­lia; Renzi; Sal­vini. Non si pos­sono leg­gere que­sti eventi senza con­si­de­rarli anche un momento del con­flitto di classe dei ric­chi con­tro i poveri (e con­tro i loro rap­pre­sen­tanti), con­tem­po­ra­neo all’esplodere di una crisi finan­zia­ria, eco­no­mica e sociale quasi-permanente.

Un nuovo sog­getto poli­tico della sini­stra può solo ripar­tire da que­sto luogo, da que­sto tema e da que­sti sog­getti. Dagli alleati e dagli avver­sari che può avere in que­sto con­te­sto. Biso­gna farlo in modo inno­va­tivo, certo, ma senza più indu­giare su alibi come «la società è cam­biata», «non ci sono più le grandi fab­bri­che», «ormai gli ope­rai votano a destra»

Astensione: il buon giudizio

Tra le miriadi di analisi forse vale la pena di leggere Fabrizio Barca. Ed eleggerlo, anche:

“Tutto va ben madama la marchesa”… o quasi: questa è la reazione dominante delle classi dirigenti del paese di fronte al crollo del numero di votanti in Calabria e soprattutto in Emilia-Romagna. “In Emilia-Romagna? Beh, ma cosa ti aspettavi dopo gli scandali! In Calabria? Ma, “loro” votano pure in troppi (un po’ di razzismo non fa mai male)! E poi senza opposizione credibile … perché andare a votare? E, per dircela fra di noi, è un bene che a votare siano in meno … come in tutti i ‘paesi civili'”.

Intendiamoci. Prima di tutto un augurio ai neo-Presidenti eletti, e la speranza che in Calabria sia l’inizio del cambiamento: quella terra può farcela. Ma a livello nazionale il tema è un altro. Nessuno deve nascondere la testa sotto la sabbia. Alla marchesa della canzone dobbiamo spiegare perché il marito si è suicidato e perché la casa è andata a fuoco.

Il crollo dei votanti non è, caro Pierluigi (Battista) – che hai il merito di essere allarmato -, la “reazione ritorsiva dei corpi intermedi”, ma la “reazione ritorsiva dei cittadini disintermediati”. E delusi anche dall’ultimo tentativo, quello (per versi generoso, per versi autoritario) di Cinque Stelle, di offrire loro una “relazione diretta con il Palazzo”. I fatti sono chiari. Fra Stato e cittadini, singoli o organizzati, si è aperta da tempo una faglia che ora si allarga. Perché, ovunque, trenta anni di liberismo hanno minato la capacità dello Stato di rispondere in modo discrezionale e partecipato ai bisogni dei cittadini. Perché in Europa ciò è aggravato dall’insostenibilità di un’Unione Monetaria che non si completa in Unione Politica.

Perché in Italia pesa uno Stato normo-centrico che non presidia l’attuazione degli interventi, succube di azzeccagarbugli e progettifici, incapace al suo interno di premiare il merito; uno Stato a cui i cittadini si rivolgono per “aiuto”, non per fare valere diritti, e che dunque essi disprezzano. E perché, unici nel mondo occidentale, abbiamo preso sul serio l’idea che “i partiti sono un residuo del novecento”; abbiamo vissuto la loro identificazione con lo Stato (e la corruzione e decadimento che ne sono discesi) come l’annuncio della loro fine, non come il campanello di allarme per la loro ricostruzione.

La rinunzia al diritto di voto avviene in misura assai più grave che in contesti simili di Germania o Spagna, simile solo a quella statunitense o britannica (guardatevi i numeri, ne vale la pena). Ma soprattutto da noi è ben più pericolosa. Per tre ragioni. Perché, soprattutto nei paesi anglosassoni, ai cittadini viene offerta la possibilità di giudicare i propri eletti sulla base dei risultati del loro operato, e di punirli, disertando i loro servizi: un metodo che produce ineguaglianza, ma che risponde a criteri almeno astratti di giustizia. Perché in altri paesi – si pensi alla Germania – ai cittadini e ai lavoratori sono offerte e riconosciute piattaforme di partecipazione che “li tirano dentro” nei processi decisionali; e che essi hanno imparato a usare. Perché solo da noi incombe l’Anti-Stato, ossia la criminalità organizzata: quando annusa il distacco fra Stato e cittadini, si fa avanti con i propri “servizi”; come avviene in questi giorni.

E allora, si eviti, per carità, di minimizzare questo brutto giorno della democrazia italiana. E se ne eviti anche un uso strumentale, addossando la responsabilità solo alle nuove classi dirigenti che guidano il paese, come se l’ideologia della semplificazione, del partito leggero, del leader che dialoga con i cittadini, della demolizione dei corpi intermedi non costituiscano la farina dell’ultimo ventennio. E si prenda di petto il tema di ricostruirli, questi benedetti partiti. Il PD ha l’occasione di farlo. Porteremo nella Commissione di studio che il Partito ha avviato il contributo dei mille volontari che, consapevoli dei propri limiti, ma anche della propria forza, stanno sperimentando una nuova forma di partito, proprio nel PD. Leggete e fate leggere!

 

A Venezia la Provincia assume il boss

Avrebbe favorito un noto boss della malavita locale facendolo assumere, all’interno di un programma di recupero, come guardiaparchi aggirando la graduatoria predisposta dai servizi sociali: con questa accusa Francesca Zaccariotto – volto noto della Lega nord, presidente della Provincia di Venezia, sindaco per più di dieci anni di San Donà di Piave – è stato richiesto il rinvio a giudizio dai pm veneziani Carlotta Franceschetti e Walter Ignazitto.

La vicenda nasce un anno fa da una inchiesta per un traffico di droga, compiuta dai carabinieri di Venezia che aveva arrestato dieci persone accusate di acquistare sostanze stupefacenti a Milano, da una famiglia di ‘ndrangheta, per poi smerciarle nel nordest. Tra queste anche Luciano Maritan, detto Cianetto, figura storica della malavita del Veneto orientale, nipote di Silvano Maritan, “colonnello” dell’ex boss della Mala del Brenta Felice Maniero.

Nel corso dell’inchiesta il collaboratore di giustizia Luca Fregonese aveva riferito ai magistrati la confidenza che gli avrebbe fatto Maritan e cioè che la Zaccariotto, che conoscerebbe da anni, lo avrebbe aiutato assumendolo come guardia parchi. Nei guai, oltre la Zaccariotto, è finita anche la dirigente della Provincia Eugenia Candosin che sarebbe stata indotta dall’allora sindaco ad affidare quel lavoro di guardiaparchi al boss della malavita locale.

Le imputazioni sono di concorso in abuso d’ufficio per la Zaccariotto, mentre per la dirigente comunale si aggiunge quella di falso ideologico. La difesa ha negato l’accusa, sostenendo che la lista di nomi non fosse una graduatoria ma un semplice elenco di “candidabili” alla posizione. Ad aggravare la posizione della politica leghista ci sarebbe anche una conversazione telefonica intercettata dagli inquirenti, in cui la dirigente comunale si lamenta con un collega di essere stata messa nei guai dal sindaco. Il giudice Massimo Vicinanza ha rinviato al 4 dicembre vista la richiesta per via della richiesta di uno dei difensori di acquisire ulteriore documentazione.

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