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Giulio Cavalli

Non lo uccise la ‘ndrangeta, lo uccidono le banche

Stanno per essere licenziati 40 dipendenti dell’azienda Demasi di Gioia Tauro. Dove non è riuscita la ‘ndrangheta ci stanno pensando le banche e al danno si aggiunge la beffa: sì, perché gli istituti di credito sono stati condannati, in via definitiva, per usura ai danni dell’imprenditore Antonino Demasi che è in attesa di un risarcimento milionario. Soldi che non arrivano fino a quando non si conclude il procedimento civile con il quale l’imprenditore, sotto scorta dopo le minacce declan locali, ha chiesto agli istituti bancari un risarcimento di 215 milioni di euro. Nel frattempo, oltre alle linee di credito, le banche gli hanno chiuso anche i conti correnti e ora Demasi sarà costretto a mandare in liquidazione la sua azienda nonostante le commesse che gli consentirebbero, al contrario, di fare assunzioni. Una storia assurda che vede la Fiom schierata al fianco del “padrone”. “È paradossale quello che sta succedendo a Gioia Tauro“, racconta il segretario provinciale del sindacato Pasquale Marino che chiede l’intervento del governo. “Io ho subito l’usura e la Cassazione ha stabilito che la responsabilità è delle banche. – spiega Demasi – È da 11 anni che sto cercando di farmi restituire quanto mi è stato rubato. Più di quello che ho fatto non posso, adesso ho l’obbligo giuridico di chiudere l’azienda il primo gennaio. Licenzierò tutti ma continuerò a battermi contro il mondo bancario. Ci sono tavoli di crisi aperti al ministero dello Sviluppo economico. È importante avere ben chiaro chi sono i criminali e chi sono le vittime”. Già nell’aprile scorso, della vicenda si era parlato durante il congresso della Fiom. Ma le parole del segretario Maurizio Landini e di don Ciotti sono rimaste inascoltate

(di Lucio Musolino)

Povera Liguria

Cofferati candidato alla presidenza della regione Liguria è il paradigma di una politica che diventa sempre meno giustificabile come scrive giustamente Luca Sofri qui.

Pensare che tra le tante belle scelte coraggiose da fare ci sarebbe Ferruccio Sansa da convincere. E poi vincere.

I numeri sui beni confiscati

Un articolo di Danilo Rota:

Alla direzione dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata si sono finora succeduti quattro prefetti: Alberto Di Pace (da febbraio ad aprile 2010), Mario Morcone (da aprile 2010 a giugno 2011), Giuseppe Caruso (da giugno 2011 a giugno 2014) e Umberto Postiglione (da giugno 2014).
Eppure nessuno di loro ha redatto nei tempi stabiliti il resoconto sull’attività svolta dall’Agenzia.
Infatti, nonostante sia l’art. 3, c. 1 del decreto-legge n. 4/2010 (poi convertito dalla legge n. 50/2010), sia l’art. 112, c. 1 del decreto legislativo n. 159/2011 (Codice antimafia) impongano al Direttore di presentare la relazione ogni 6 mesi, essa ha sempre avuto cadenza annuale.
L’ultima disponibile è stata resa nota all’inizio del 2013 e si riferisce all’anno 2012 (quella per il 2013 avrebbe dovuto essere pubblicata tra il gennaio e il marzo scorsi, ma ad oggi resta un mistero).
Leggendola si scopre che al 31 dicembre 2012 i beni confiscati alle mafie in via definitiva sono 12.946: 11.238 immobili e 1.708 aziende.
Degli 11.238 immobili:
 
– il 52,14% (5.859 immobili) è stato destinato e consegnato a comuni (5.010), forze dell’ordine, vigili del fuoco e capitanerie di porto (646), ministeri (104), province e regioni (89), altri enti (10);
– il 35,55% (3.995 immobili) è in gestione: per 1.668 immobili lo stato di manutenzione è ignoto, per 873 è valutato “soddisfacente”, per 686 “mediocre”, per 664 “buono” e per 104 “inagibile”.
Inoltre:
2.819 sono gravati da una o più criticità (come ipoteche e procedure giudiziarie in corso);
1.556 hanno gravami ipotecari certi. Su 1.065 pesa un’ipoteca volontaria, su 343 un’ipoteca giudiziale, su 76 un pignoramento, su 59 un’ipoteca legale, su 13 altro;
– l’8,07% (907 immobili) è stato destinato, ma non consegnato: 377 immobili sono gravati da ipoteca;
– il 4,24% (477 immobili) è uscito dalla gestione. I motivi principali sono la revoca della confisca e le esecuzioni immobiliari.
Delle 1.708 aziende:
– il 70,90% (1.211 aziende) è in gestione (ma tante aziende non hanno dipendenti e stanno per uscire dalla gestione): per 393 imprese non è ancora stata trovata una destinazione, mentre le destinazioni disposte alle rimanenti 818 sono le seguenti:
342 liquidazione;
237 gestione sospesa;
189 chiesta la cancellazione dal registro delle imprese e/o dall’Anagrafe Tributaria;
44 vendita;
6 affitto;
– il 29,10% (497 aziende) è uscito dalla gestione perchè la confisca è stata revocata (14) e le aziende sono state:
cancellate dal registro delle imprese e dal repertorio delle notizie economiche e amministrative (285);
liquidate (153);
vendute (45).
Ma quanto tempo impiega lo Stato italiano per destinare i beni confiscati ai mafiosi?
Per saperlo, è necessario leggere la relazione annuale 2009 del Commissario straordinario del Governo per la gestione e la destinazione dei beni confiscati ad organizzazioni criminali (Antonio Maruccia), pubblicata nel novembre 2009 (il commissario ha cessato le proprie attività con l’istituzione dell’Agenzia nazionale nel 2010).
Alla data del 30 giugno 2009:
– i tempi impiegati dallo Stato per destinare gli immobili confiscati alle mafie (totale immobili destinati: 5.407) sono i seguenti:
entro 4 mesi dalla confisca definitiva (limite previsto dalla normativa vigente): lo 0,06% degli immobili (3);
dopo 4-12 mesi: il 2,44% degli immobili (132);
dopo 1-2 anni: il 15,44% degli immobili (835);
dopo 2-5 anni: il 37,43% degli immobili (2.024);
dopo 5-10 anni: il 32% degli immobili (1.730);
dopo oltre 10 anni: il 12,63% degli immobili (683).
Tempi medi per la destinazione: 5 anni e mezzo (5,55);
– i tempi da cui è attesa la destinazione degli immobili confiscati alle mafie (totale immobili ancora da destinare: 3.213) sono i seguenti:
0-4 mesi: lo 0,62% degli immobili (20);
4-12 mesi: il 3,52% degli immobili (113);
1-2 anni: il 18,30% degli immobili (588);
2-5 anni: il 24,31% degli immobili (781);
5-10 anni: il 40,68% degli immobili (1.307);
oltre 10 anni: il 12,57% degli immobili (404).
Tempi medi di attesa: poco più di 6 anni (6,22).
– i tempi impiegati dallo Stato per destinare le aziende dopo la confisca definitiva (totale aziende confiscate in via definitiva alle mafie e poi destinate: 642) sono i seguenti:
entro 4 mesi: l’1,75% delle aziende (17);
dopo 4-12 mesi: il 5,57% delle aziende (54);
dopo 1-2 anni: il 15,69% delle aziende (152);
dopo 2-5 anni: il 20,64% delle aziende (200);
dopo 5-10 anni: il 15,38% delle aziende (149);
dopo oltre 10 anni: il 7,22% delle aziende (70).
Tempi medi per giungere alla destinazione delle aziende destinate dopo la confisca definitiva: 4 anni e mezzo (4,58).
– i tempi da cui è attesa la destinazione delle aziende confiscate alle mafie (totale aziende ancora da destinare: 216) sono i seguenti:
0-4 mesi: lo 0,93% delle aziende (2);
da 4-12 mesi: il 10,19% delle aziende (22);
da 1-2 anni: il 31,48% delle aziende (68);
da 2-5 anni: il 33,33% delle aziende (72);
da 5-10 anni: il 13,89% delle aziende (30);
da oltre 10 anni: il 10,19% delle aziende (22).
Tempi medi di attesa: quasi 4 anni (3,78).
Chissà perchè da 5 anni a questa parte i dati statistici sui tempi non sono più rendicontati e resi noti dall’Agenzia nazionale…

Come abbiamo visto, secondo il rapporto dell’Agenzia per l’anno 2012, la stragrande maggioranza degli immobili confiscati, destinati e consegnati passa dalla proprietà statale a quella comunale (l’85,51%).

Ma i comuni come utilizzano questi beni?
Dobbiamo nuovamente ricorrere alle informazioni contenute nella relazione del 2009 presentata dal Commissario straordinario.
Sono stati interpellati tutti i 480 comuni assegnatari dei 3.796 immobili complessivamente consegnati dallo Stato centrale. Il 75,42% dei comuni (ovvero 362) ha risposto, per un corrispettivo di 3.141 immobili. Tutte le amministrazioni comunali interpellate dell’Italia settentrionale e centrale, della Basilicata e della Sardegna hanno fornito una risposta, mentre per il Sud Italia continentale (Campania, Calabria, Puglia e la stessa Basilicata) lo ha fatto il 72,86% dei comuni interpellati (145 su 199). Inquietante il dato siciliano: solo il 42,86% dei comuni interpellati ha voluto rispondere (48 su 112).
Dei 3.141 immobili consegnati ai comuni e di cui sono pervenute informazioni tra l’aprile e il novembre del 2009, soltanto il 47,41% viene utilizzato (1.489 immobili). I comuni del Nord utilizzano il 62,80% di tutti gli immobili a loro consegnati (319 su 508), quelli del Centro il 53,17% (109 immobili su 205), quelli del Sud continentale – ovvero Campania, Calabria, Puglia e Basilicata – il 35,29% (512 immobili su 1.451), infine quelli siciliani il 55,95% (522 immobili su 933). La regione più virtuosa è la Basilicata, dove sono stati utilizzati tutti gli immobili (7 su 7), mentre quella più inefficiente sono le Marche, dove non viene utilizzato neppure l’unico immobile consegnato.
Perchè 1.652 immobili confiscati ai mafiosi sono stati consegnati ai comuni e questi ultimi non li hanno utilizzati (secondo le informazioni pervenute tra l’aprile e il novembre del 2009)?
Il 29,24% degli immobili (483) non viene utilizzato perchè le procedure per l’utilizzo sono state avviate, ma non concluse;
il 18,40% degli immobili (304) perchè mancano le risorse finanziarie;
il 14,83% degli immobili (245) perchè sono in attesa dei finanziamenti;
il 5,99% degli immobili (99) perchè si tratta di beni inagibili;
il 2,78% degli immobili (46) perchè si tratta di beni in quota indivisa;
l’1,94% degli immobili (32) perchè si tratta di beni occupati dal prevenuto e/o dai suoi familiari;
l’1,88% degli immobili (31) perchè si tratta di beni occupati da terzi senza titolo;
l’1,69% degli immobili (28) perchè si tratta di beni occupati da terzi con titolo;
lo 0,73% degli immobili (12) perchè si tratta di beni gravati da procedura giudiziaria in corso;
lo 0,30% degli immobili (5) perchè si tratta di beni gravati da ipoteca;
il 22,22% degli immobili (367) perchè sussistono altri motivi.

In un’intervista del 27 dicembre 2012 rilasciata al giornalista Attilio Bolzoni per “la Repubblica”, don Luigi Ciotti – fondatore e presidente di “Libera. Associazioni, nomi e numeri contro le mafie” – ha affermato:

“Dentro lo Stato ci sono stati anche uomini che si sono spesi e a volte anche strutture che hanno funzionato. Sono mancati gli strumenti giusti, è mancata in generale un’aggressione mirata alla questione dei beni confiscati. E poi ci sono state reti di complicità, ci sono stati ritardi, ci sono stati silenzi. E qualcuno che doveva metterci la testa su queste cose, la testa non ce l’ha messa. Per questo oggi è giusto dire che è una situazione che grida vendetta”.

D’altra parte, come giustamente ha ricordato Saverio Lodato, l’immagine dello Stato italiano contrapposto alle mafie è una “favoletta (…) che per un secolo e mezzo è stata propinata agli italiani come una dolciastra melassa”. In realtà “sono sempre esistiti, in Italia, lo Stato-Mafia e la Mafia-Stato. E mai, come in questo momento, le due entità sono diventate simbiotiche”(editoriale intitolato “40 anni di Stato-Mafia e Mafia-Stato”, pubblicato sul numero 71 – il primo del 2014 – della rivista “ANTIMAFIA Duemila”, uscito nel luglio scorso).

La Lega non è più arrabbiata con Belsito

Vi ricordate la scopa di Maroni quando diceva di fare pulizia dentro il partito? Beh, Salvini l’ha rimessa nel sottoscala:

La Lega ha rinunciato a chiedere i danni all’ex tesoriere Francesco Belsito nei procedimenti penali con al centro il presunto scandalo sui fondi del Carroccio in corso nei Tribunali di Milano e Genova. È quanto è emerso nel corso dell’udienza preliminare a carico dell’imprenditore Stefano Bonet e del commercialista Paolo Scala, rinviati a giudizio oggi per riciclaggio. Il Carroccio, su indicazione del segretario Matteo Salvini che ha incaricato l’avvocato del Carroccio, Domenico Aiello, di ritirate l’atto di costituzione con un’email in cui motiva la propria scelta con «tutta una serie di ragioni ancorché di natura politica», ha revocato la costituzione di parte civile in questo e negli altri procedimenti. Poi ha spiegato: «Non possiamo perdere tempo e neppure soldi, oltretuttoper cercare di recuperare soldi che certa gente non ha».

Le accuse all’ex tesoriere
Belsito è accusato a Genova di appropriazione indebita e di concorso in truffa e tentata truffa aggravata per oltre 40 milioni di euro insieme all’ex segretario della Lega Umberto Bossi e ai revisori Diego Sanavio, Antonio Turci e Stefano Aldovisi. Da un lato si sarebbe appropriato di 7,5 milioni di euro di proprietà del partito, inviandoli con un bonifico dal conto corrente genovese della Lega Nord in Tanzania e a Cipro. Dall’altro, in concorso con gli atri imputati, avrebbe raggirato lo Stato, truccando i bilanci del partito per ottenere rimborsi elettorali indebiti per un totale di 40.086.733 euro: 22.473.213 euro per l’esercizio annuale 2008 e 17.613.520 euro per il 2009. A Milano, invece, è in attesa di citazione diretta a giudizio insieme a Umberto Bossi e ai figli di quest’ultimo, Renzo e Riccardo, per una seconda imputazione di appropriazione indebita per 2 milioni e 400mila euro. Lo scorso 17 ottobre, nella giorno in cui il giudice per l’udienza preliminare di Milano Carlo Ottone De Marchi aveva diviso per competenza territoriale le posizioni dei vari imputati coinvolti nell’inchiesta milanese dei pm Paolo Filippini e Roberto Pellicano, la Lega si era costituita parte civile non contro la famiglia Bossi, ma solo contro Belsito e gli imprenditori Stefano Bonet e Paolo Scala. Il Carroccio oggi ha ritirato la costituzione contro i due imprenditori un attimo prima che venissero rinviati a giudizio da De Marchi. Sono accusati di concorso riciclaggio perché, si legge nel capo di imputazione, «in concorso tra loro realizzavano attività tali da ostacolare l’identificazione del denaro proveniente dal delitto di appropriazione indebita commesso da Belsito», quello da 7,5 milioni di euro «che. aveva la disponibilità del denaro della Lega Nord nella sua veste di tesoriere». L’avvocato Aiello a margine dell’udienza ha spiegato di aver ricevuto l’incarico di ritirare l’atto di costituzione anche nei confronti di Belsito.

La sorpresa di Maroni
«Ho letto questa cosa, voglio sentire Salvini su questo punto». Così il presidente della Regione Lombardia, il leghista Roberto Maroni, a margine di un incontro a palazzo Lombardia, commenta il fatto che la Lega Nord ha ritirato la costituzione di parte civile contro l’ex tesoriere Francesco Belsito.

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L’amico di Marcello e la mafia: Natale Sartori

Associazione a delinquere, false dichiarazioni di redditi per 31 milioni ed emissione di false fatture per 92 milioni. Con queste accuse è finito in carcere a Milano Natale Sartori, messinese, classe ‘58, legato alle figlie di Vittorio Mangano, nonché indagato (e poi prosciolto) per aver favorito la latitanza di Enrico Di Grusa, il genero dell’ex fattore di Arcore. Sartori, ha dimostrato un’indagine della Dia, fino ad almeno gli anni Novanta era in contatto diretto con Marcello Dell’Utri, l’uomo che portò Mangano ad Arcore, oggi condannato definitivo per concorso esterno in associazione mafiosa.

Il campo che unisce Sartori, le figlie dello “stalliere” e Di Grusa è quello delle cooperative di facchinaggio, pulizie, servizi. Nello scorso agosto Cinzia Mangano, una delle tre figlie di Vittorio, è stata condannata in primo grado a Milano a sei anni e quattro mesi per associazione a delinquere. L’inchiesta era partita da una rete di cooperative che, secondo l’accusa, riciclavano denaro sporco anche per aiutare i familiari degli arrestati e i latitanti. Una sorta di succursale della mafia siciliana a Milano, attiva già negli anni ’90. Sartori, inoltre, era stato fotografato nel 2010 dai carabinieri del Ros insieme a Paolo Martino, manager della ‘ndrangheta condannato in secondo grado.

Oltre a Sartori, ora detenuto a San Vittore, altre cinque persone sono finite ai domiciliari nell’indagine, coordinata dal colonnello Gabriele Procucci del nucleo di polizia valutaria della Guardia di finanza e dal pm Carlo Nocerino, che vede 21 indagati. Tra questi un funzionario di Bpm accusato di riciclaggio. L’inchiesta nasce da una segnalazione di Bankitalia su operazioni sospette. Segnalazione a sua volta ricevuta da vari istituti, tra cui Bpm, a proposito del suo dipendente.

Secondo gli investigatori, ci sarebbe stata “un’unica cabina di regia” dietro la frode a gestione ‘familiare’ da 31 milioni di euro che ha portato in carcere Sartori, titolare dell’Alma Group e amministratore di fatto di otto cooperative della “galassia” del gruppo. In cella anche Bruno Righetti, suo uomo di fiducia, mentre sono stati posti ai domiciliari la moglie separata, Provvidenza Giargiana, le loro due figlie Tiziana e Cristina Sartori, e i professionisti Roberto Notargiacomo e Andrea Gorgoglione. Il Consorzio Alma Group, specializzato in pulizie, trasporto merciper conto terzi e movimentazione di magazzino, si è aggiudicato decine di appalti privati, compresi quelli di alcune grandi catene di supermercati come Esselunga, Conad e Il Tirreno. Il gruppo operava ‘a due facce’, scrive il gip Vincenzo Tutinelli: verso i grandi committenti con normali logiche commerciali, ma”‘verso il basso il modus operandi trascende/sconfina nell’illegalità”, con le coop che di fatto diventavano “società a scopo di lucro”.

Secondo l’accusa, ad Alma Group facevano capo otto cooperative fittizie, le quali avrebbero emesso fatture per operazioni inesistenti per 92 milioni, Iva compresa ( e da loro mai versata), a favore di Alma Group consentendo a quest’ultimo di detrarre illegittimamente l’imposta. Si tratta di un sistema fraudolento di cui il “dominus”, si ipotizza, era Sartori.

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Tra i manganelli non vede contraddizioni

Angelino Alfano ha riferito al parlamento di non vedere contraddizioni tra la sua versione (falsa) dei fatti accaduti a Roma e le riprese trasmesse dalla trasmissione Gazebo. Cioè continua a vedere un’attacco premeditato da parte della FIOM contro le forze dell’ordine.

In un Paese normale sarebbe da prendere a calci nel culo. Anzi no: a manganellate.

‘Ndrangheta: il fango a comando

Tavolo dei testimoni. Siede Federico Corniglia, ex riciclatore della ‘ndrangheta, ascoltatissimo dalla Procura di Palermo che fino al 2006, anche grazie alle sue indicazioni, ha dato la caccia a Bernardo Provenzano. Ieri ha parlato in un processo a Milano che vede imputato un poliziotto per favoreggiamento e rivelazione di atti coperti da segreto. Si chiama Carmine Gallo ed è considerato l’investigatore italiano più esperto in fatto di lotta alla ‘ndrangheta. Sempre ieri Gallo ha rinunciato alla prescrizione prevista per il 2016. Corniglia è testimone dell’accusa. Racconta del suo interrogatorio in Svizzera, 8 gennaio 2010. “In una pausa il maresciallo del Ros di Verona Mario Arabia e l’ispettore della polizia elvetica Gianluca Calà mi chiesero di fare dichiarazioni accusatorie contro Carmine Gallo e Alberto Nobili”. Pausa. Alberto Nobili, attuale procuratore aggiunto, è stato uno dei magistrati di punta dell’antimafia milanese e con Carmine Gallo, nel 1993, ha gestito le dichiarazioni del superpentito Saverio Morabito. Verbali che hanno dato fuoco alle polveri del maxi-blitz nord-sud su vent’anni di affari delle cosche al nord. Corniglia prosegue: “Mi dissero” che su Gallo e Nobili “avevano indicazioni di rapporti” dei due “con uomini dei clan a Milano”. Rapporti che, però, non emergono dalle carte dell’inchiesta. “Da quel momento in poi – prosegue Corniglia durante il controesame dell’avvocato Antonella Augimeri – ho fatto dichiarazioni accusatorie contro Gallo. In cambio promisero di spostarmi dal carcere svizzero dove stavo in isolamento all’infermeria del carcere di Padova”. La sua deposizione è considerata uno dei cardini dell’accusa che imputa al poliziotto di aver “spifferato” a Corniglia il nome di un’indagine del Ros di Padova e della procura di Venezia che nel 2008 ha portato in carcere una batteria di spacciatori composta da ex estremisti di destra e da reduci della mala del Brenta. In quell’inchiesta, oltre a Corniglia, viene indagato Gallo per droga. Accusa caduta in Cassazione e posizione stralciata a Milano dove il procuratore aggiunto Ilda Boccassini per lui ottiene il giudizio immediato. Dopo le “ritrattazioni” di ieri, i pm Paolo Storari e Francesca Celle hanno ipotizzato l’accusa di calunnia per Federico Corniglia.

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