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Giulio Cavalli

Brebemi: sempre meglio

Rimettere la concessione pubblica nelle mani dello Stato. È una delle ipotesi che la società Brebemi sta valutando per cercare di uscire indenne dal pasticcio della direttissima Brescia-Bergamo-Milano. Inaugurata il 23 luglio scorso, la prima autostrada italiana costruita (sulla carta) con capitale «privato» si è rivelata un flop e chi l’ha costruita ora corre ai ripari. Sono ore frenetiche e Brebemi, come spiega  a Libero una fonte vicina al dossier, sta valutando diverse possibilità. Il ventaglio è ampio  e una delle carte prevede, come accennato, l’uscita dal casello.

Un’uscita brusca, perché gli effetti sarebbero complessi.  Il progetto è stato finanziato dalle banche e pure con denaro  pubblico, visto che ben 830 milioni di euro sono stati messi sul piatto dalla Cassa depositi e prestiti, il fondo sovrano italiano controllato dal Tesoro. Quando la Cdp si è seduta al tavolo, ha portato in «dote» pure una  garanzia pubblica, dunque più ampia del suo investimento.

Senza dimenticare che attraverso la sua controllata Sace, la stessa Cassa «copre» con un’assicurazione i 700 milioni di finanziamento targato Bei (Banca europea degli investimenti).  Paga pantalone, insomma. Quanto? I conti non sono facili. Sta di fatto che, nell’ipotesi di addio da parte di Brebemi, le banche finanziatrici si rifarebbero sulla galassia pubblica italiana per una cifra di 2 miliardi di euro. Non proprio bruscolini.

La questione scotta e, raccontano i ben informati, non è sfuggita al premier Matteo Renzi. Il quale avrebbe mostrato un certo disappunto: non tanto per i quattrini in ballo (che in questo periodo lo spaventano poco) quanto per ragioni di «immagine» verso l’estero.  Renzi, infatti, teme che il flop dell’operazione Brebemi e Cdp possa rappresentare un deterrente per gli investimenti stranieri sui quali il governo punta per rilanciare l’economia italiana.

(Francesco De Dominicis per “Libero Quotidiano”)

Viva er Colosseo co’ leoni. Viva ‘sta Roma de cojoni.

da Patrimoniosos.it:

Ormai è notizia diffusa, pure da Televideo: il docente di archeologia a Roma Tre, Daniele Manacorda, lo stesso che propose un campo di golf a Caracalla, ha suggerito al ministro dei Beni culturali, Dario Franceschini, di ripristinare e riattare ai combattimenti l’arena nel Colosseo ricostruendolo all’interno secondo i disegni del primo ‘900. Il ministro ne è stato subito entusiasta. E con lui, come si legge su PatrimonioSos, si è schierato, dopo il gatto, la Volpe, o meglio il professor Volpe Giuliano, altro docente di archeologia, esempio preclaro di virtù, presidente del Consiglio Superiore dei Beni Culturali. In effetti il contributo all’occupazione sarebbe enorme per Roma. Centinaia e centinaia di centurioni e di pretoriani, folle di finti schiavi in catene, colonne di cristiani condotti alle belve (addomesticate), i cavalli delle botticelle e gli scarti degli ippodromi in crisi reimpiegati per le corse con le bighe stile Ben Hur, spettacoli continuati giorno e notte, con brevi pause soltanto per rimuovere i rifiuti e le feci dei cavalli, grandi cucine nei sotterranei se non altro per scongelare e vendere caldi i soliti surgelati precotti, bevande di ogni tipo e di ogni gradazione, camion di tredicine e altri in colonna lungo via dei Fori Imperiali pedonalizzata, rivendite di costumi romani classici, tuniche con laticlavio, mantelli, armature, elmi tutt’intorno al Colosseo con attendamenti di guerrieri numidi, ispanici, libici, egizi, siriani, biglietti venduti a caro prezzo on line in tutto il mondo, Roma invasa da decine di milioni di turisti, una succursale subito aperta per spettacoli analoghi nei teatri e nelle arene di Verona, Capua, Pompei…A Roma il senatore Cutrufo ha proposto di ricostruire anche la vecchia Arena d’er Corea. Si preparano piani di analoga “valorizzazione” per l’Appia Antica fra gli applausi entusiasti del sottosegretario ai Beni culturali Barracciu e dell’on. Piera Picierno.

La nuova Roma che avanza contro i feticci archeologici

Franceschini è arcicontento

di quel gran suggerimento:

“Presto, presto, al Colosseo

Gladiatori con trofeo!

Centomila occupazioni

troveranno i centurioni.

Archeologi scontenti?

Garantisco nuovi stenti.

Come a voi intellettuali

lustratori di stivali.

Ai professori che gufano,

ho già detto che stufano.

Manacorda è mio alleato.

Con me Volpe si è schierato.

Che prestigio, che vittoria,

passerò con ciò alla storia!

A Matteo ho assicurato

un successo da primato:  

Civati, Chiti e Tocci?

Segregati lì tra i cocci.

Alla Barracciu e alla Picierno?

Un marmoreo memento eterno.

La folla sottostante grida:

Viva er Colosseo co’ leoni

Viva ‘sta Roma de cojoni”

(Anonimo Plautino)

Per fortuna

Erano lui e lei in stazione. Mattina appena fuori dalla nebbia. Si guardavano come si guardano le persone che in una notte hanno mescolato tutte le priorità della vita e si sono salutati senza parlare promettendosi di salutarsi così almeno un milione di volte ancora.

“Per fortuna”, ha detto un vecchio seduto lì vicino, “per fortuna almeno la gente continua ad amarsi ancora”.

Quel “verminaio” a Barcellona Pozzo di Gotto

Un gran pezzo di Luciano Mirone:

Da circa mezzo secolo Antonio Franco Cassata è consi­derato un potente magistrato amico dei mafiosi che prima di tre anni fa non era mai stato sfiorato da un provvedimento giudiziario. Un intoccabile.

Nel 2011 la Procura di Reggio Calabria lo ha messo sotto inchiesta per concorso esterno in associazione mafiosa, ma a tutt’oggi la notizia è coperta da una coltre di silenzio, cioè non sappiamo se il fasci­colo contro di lui è ancora aperto o se è stato chiuso, ed eventualmente perché.

Quel che è sicuro è che l’inchiesta è scat­tata: se è stata chiusa ce ne rallegria­mo, se è ancora in corso auguriamo all’ interessa­to di dimostrare la sua inno­cenza.

Intanto lo scorso anno Cassata ha ripor­tato una condanna in primo grado per dif­famazione (800 Euro di multa, più il risar­cimento alla famiglia) per essere stato ri­tenuto l’autore di un dossier anonimo pie­no di veleni contro Adolfo Parmaliana, il professore universitario che denunciava il verminaio di Barcellona Pozzo di Gotto e di Terme Vigliatore, suicidatosi per le ves­sazioni subite soprattutto “dal potere giu­diziario barcellonese e messinese che vor­rebbero mettermi alla gogna”, come lo stesso Parmaliana lasciò scritto.

La pensione anticipata
Malgrado questo, l’ex Procuratore ge­nerale della Corte d’Appello di Messina gode della rispettabilità che dalle nostre parti viene riservata solo ai potenti, sia nel capoluogo peloritano, dove ha svolto per tanti anni la sua carriera, sia a Barcellona Pozzo di Gotto (pochi chilometri da Mes­sina), dove risiede da sempre e da sempre esercita la sua influenza.

In realtà Cassata un potente lo è ancor oggi, malgrado la pensione anticipata alla quale – secondo le malelingue – sarebbe ricorso per evitare lo scandalo di un’inchiesta per mafia nell’esercizio delle sue funzioni, con un possibile coinvolgi­mento di un Consiglio superiore della ma­gistratura che – malgrado le interrogazio­ni parlamentari e le denunce giornalisti­che – nel 2008 lo ha promosso addirittura alla carica più alta della Procura messine­se.

Il libro scomodo di Parmaliana
Ma perché Cassata è così potente? Da dove deriva questa potenza? Qual è il suo ruolo in una città come Barcellona Pozzo di Gotto, dove l’alleanza tra mafia, mas­soneria e servizi segreti deviati è fortissi­mo?

Per capire il potere di cui dispone que­sto ex magistrato, basta recarsi alla “Cor­da fratres” – il circolo più in della città, esclusivo e “paramassonico” (secondo una definizione della Guardia di Finanza) che ha sistemato una caterva di rampolli dell’alta società barcellonese – di cui Cas­sata è da sempre animatore e leader, e par­lare di lui con i numerosi soci.

O magari aspettare l’uscita del prossimo libro di Melo Freni – giornalista barcello­nese dalla sfolgorante carriera in Rai, il quale, alla vigilia dell’uscita del volume di Alfio Caruso sulla morte di Adolfo Par­maliana, chiese all’autore di bloccare ad­dirittura la pubblicazione – per vedere “il giudice Cassata” al tavolo dei relatori as­sieme all’avvocato Franco Bertolone, suo intimo amico e noto legale dei boss più pericolosi di Barcellona.

Il viaggio con Bertolone e Chiofalo
Certo, di acqua sotto i ponti ne è passata parecchia da quando (1974) il magistrato fece uno strano viaggio in Mercedes dalla Sicilia a Milano assieme allo stesso Berto­lone e al giovanissimo boss Pino Chiofa­lo, che tempo dopo (all’inizio degli anni Novanta) avrebbe scatenato una cruenta guerra di mafia contro il clan Gullotti, mentre nel ’99, ormai pentitosi, sarebbe stato contattato – secondo la Procura di Palermo – da Marcello Dell’Utri per con­vincerlo a screditare i tre collaboratori di giustizia Francesco Di Carlo, Giuseppe Guglielmini e Francesco Onorato, che ac­cusavano il fondatore di Forza Italia di es­sere vicino a Cosa nostra.

Certo, all’epoca di quel singolare viag­gio a Milano, Chiofalo muoveva i primi passi nell’ambito di Cosa nostra, ma è singolare che un magistrato preposto al persegui­mento dei mafiosi, faccia un tragitto così lungo con un mafioso e col suo avvocato.

Che un episodio del genere non sia frut­to della superficialità del personaggio sarà dimostrato ampiamente negli anni succes­sivi.

Il paradigma Barcellona
Ma per capire meglio la figura di Anto­nio Franco Cassata, bisogna delineare il contesto di Barcellona Pozzo di Gotto. Che non è un posto come tanti. C’è il traf­fico di droga sì, ci sono gli omicidi (qua­rantacinque fra il ‘90 e il ‘92) e le estor­sioni, e c’è la mega discarica di Mazzarà Sant’Andrea, sulla quale stanno lucrando in tanti, ma ciò non basta a spiegare il pa­radigma Barcellona a livello nazionale.

Barcellona è il luogo dove è stato co­struito il telecomando della strage di Ca­paci, recapitato da Gullotti a Giovanni Brusca in quel di San Giuseppe Jato per far saltare in aria Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e gli agenti della scorta.

E’ la città dove hanno tra­scorso parte della loro latitanza due boss come Nitto Santapaola e Bernardo Pro­venzano, pro­tetti per decenni da quello Stato attual­mente sotto accusa a Palermo nel proces­so Trattativa.

È la città che, as­sieme a Catania, Paler­mo e Corleone, è stata l’avamposto avan­zato dell’eversione stragista fra la fine della Prima Repubbli­ca e l’inizio della Se­conda.

Ed è proprio sul “contesto” che Antonio Franco Cassata – ottimo conoscitore di uomini e cose di quel territorio – potrebbe chiarire molte cose. Cosa?

Il boss Gullotti
Primo. Giuseppe Gullotti è il boss indi­scusso che secondo la sentenza della Cas­sazione è il mandante di tanti delitti, com­preso quello del giornalista Beppe Al­fano, ucciso perché “reo” di avere scoper­to il nascondiglio segreto di Barcellona dove Santapaola si nascondeva all’inizio degli anni Novanta (circostanza confer­mata dal­la recente testimonianza del pen­tito Carmelo D’Amico). Perché Gullotti è rimasto iscritto alla “Corda fratres” fino all’anno dell’omicidio Alfano (1993)? Cassata dice che fino a quel momento il boss era un insospettabile incensurato che veniva pure preso in giro all’interno del sodalizio.Ma è vero che negli uffici giu­diziari circolava da tempo un’informativa in cui si diceva che “l’avvocaticchio” (come veniva soprannominato) era diven­tato il referente di Santapaola a Barcello­na? Perché tempo dopo – mentre Gullotti è latitante – Cassata sente l’esigenza di mettersi a confabulare in piazza con la moglie del boss (figlia del vecchio capo­mafia Ciccio Rugolo e sorella del nuovo reggente Salvatore Rugolo), che è seguita dai Carabinieri, i quali stilano un rapporto sull’episodio? Perché Cassata al Csm di­chiara di essersi fermato per accarezzare il bambino nella carrozzella, quando i Cara­binieri, in quel rapporto, scrivono che non c’è alcun bambino né tantomeno una car­rozzella? Perché Cassata fa pressione per evitare che quel rapporto vada avanti? Ci sta che il Procuratore generale della Corte d’Appello si apparti con la moglie del boss, figlia del boss e sorella del boss?

I contratti ai mafiosi
Secondo. Da una interrogazione del se­natore Pd Beppe Lumia risulta come il fi­glio dell’ex procuratore generale, l’avvo­cato Nello Cassata, negli anni in cui è sta­to presidente dell’Ipab (Istituto di pubbli­ca assi­stenza e beneficienza) di Terme Vi­gliatore-Barcellona (1999-2001) abbia prorogato dei contratti di locazione a im­portanti mafiosi e a persone che con San­tapaola e Gullotti ci hanno avuto a che fare. Per esempio Aurelio Salvo, “al tem­po pregiudicato – scrive Lumia nell’inter­rogazione – per favoreggiamento aggrava­to nei confronti di Giuseppe Gullotti e di Nitto Santapaola”.

La “latitanza” di Santapaola
Costui infatti è il proprietario sia dell’appartamento dove ha trovato rifugio Gullotti quando si è dato alla macchia per l’omicidio Alfano, sia della villa di Terme Vigliatore dove ha trascorso un pezzo del­la sua latitanza proprio Santapaola

A un certo punto il Ros dei Carabinieri – grazie alle intercettazioni ambientali – scopre che don Nitto trascorre la sua latitanza nel piccolo centro tirrenico, e individua la vil­la di Aurelio Salvo come luogo “sensibile” per la cattura di uno dei boss più pericolosi del mondo. Basta organiz­zare un blitz per prendere Santapaola. Niente di tutto questo.

Mentre il capoma­fia se ne sta tranquillamente a casa, il ca­pitano “Ultimo” – forse depistato da qual­cuno – inizia un rocambolesco insegui­mento con un fuoristrada a bordo del qua­le non c’è Santapaola. Il boss catanese viene messo sull’avviso e lascia il covo. Ma invece di fuggire lontano, torna tran­quillamente a Barcellona (c’era stato poco prima) dove trascorrerà un altro pezzo della sua latitanza senza essere disturbato.

L’ex procuratore Cassata sapeva dei rap­porti fra Aurelio Salvo, Gullotti e Santa­paola? Sapeva dei rapporti fra suo figlio e Aurelio Salvo?

Lui afferma che Nello ha ereditato que­sta situazione dalla preceden­te gestione Ipab. Ma cosa ha fatto Nello Cassata per porre fine a questi rapporti? Ha mai preso le distanze da determinati personaggi? E lui, Antonio Franco Cassata, che posizio­ne ha assunto nei confronti del figlio? Non avrebbe dovuto chiedere l’immediato trasferimento per incompatibilità ambien­tale? Ma questa è solo la punta dell’ice­berg. Nei due anni di gestione dell’Ipab, Cassata junior ha continuato ad affittare gli immobili dell’Istituto al fior fiore della criminalità barcellonese e ad imprenditori incensurati molto vicini a Cosa nostra.

L’elenco è lungo. Un nome fra tutti: Do­menico Tramontana, boss di primissi­mo piano (secondo i Carabinieri), crivel­lato di colpi sulla sua auto sulla quale i Carabi­nieri hanno trovato una cinquantina di vo­lantini elettorali dell’ex sindaco di Terme Vigliatore, Bartolo Cipriano, per­sonaggio transitato con disinvoltura dal centrode­stra al centrosinistra, “molto vici­no – se­condo Biagio Parmaliana, fratello di Adolfo – allo stesso Nello Cassata, di­ventato consulente legale del Comune di Ter­me Vigliatore”.

Una truffa da 35 milioni
Terzo. Risulta al dott. Antonio Franco Cassata che, mentre occupava la poltrona più prestigiosa della Procura generale, il figlio sia stato uno degli organizzatori di una maxi truffa alle assicurazioni (ingenti i capitali ricavati: solo nel 2009, 35 milio­ni di Euro, al punto da spingere le compa­gnie a “scappare” da Barcellona) in cui, oltre ad essere coinvolti diversi professio­nisti (soprattutto medici e avvocati), c’è implicata la criminalità organizzata?

Niente ricorso contro i boss
Quarto. È vero che l’ex procuratore ge­nerale – come dice l’avvocato Fabio Repi­ci – non ha presentato ricorso in Cassazio­ne contro la sentenza d’Appello del pro­cesso “Mare nostrum droga”, in cui tutti gli imputati barcellonesi, dopo pesanti condanne in primo grado, sono stati assol­ti in secondo?

È vero che non lo ha fatto – per citare sempre Repici – “per una gretta interpre­tazione giuridica delle fonti di prova”?

Fra gli assolti c’era Ugo Manca
Quinto. Fra gli imputati assolti al pro­cesso “Mare nostrum droga” figura tale Ugo Manca, personaggio molto vicino alla mafia di Barcellona e condannato in primo grado a quasi dieci anni per traffico di droga. Ugo Manca è stato coinvolto (la sua posizione è stata archiviata lo scorso anno) nella morte del cugino Attilio Man­ca, urologo allora in servizio all’ospedale di Viterbo.

Secondo diversi indizi – fra cui le re­centi dichiarazioni del pentito di camorra Giuseppe Setola – Attilio Manca sarebbe stato ucciso perché avrebbe sco­perto la vera identità del boss latitante Bernardo Provenzano (allora nascosto sot­to il falso nome di Gaspare Troia), mentre lo avreb­be curato dal tumore alla prostata da cui era affetto.

È vero che esiste una intima amicizia fra l’ex procuratore e Ugo Manca? Fino a che punto?

Cattafi e la “Corda frates”
Sesto. A proposito di amicizie. È vero che il magistrato è intimo anche del boss Rosario Pio Cattafi (oggi al 416 bis per associazione mafiosa), definito “social­mente pericoloso” dal prefetto di Messina, al punto che è stato costretto all’obbligo di dimora per cinque anni a Barcellona?

Vicino ai servizi segreti deviati, ex ordi­novista assieme al boss di Mistretta Pietro Rampulla (artificiere della strage di Capa­ci), residente a Milano per molti anni, l’avvocato Rosario Pio Cattafi è ritenuto il riciclatore del denaro sporco del clan San­tapaola e – secondo recenti inchieste – uno dei mandanti dell’assassinio del giu­dice torinese Bruno Caccia, che negli anni Settanta indagava sui proventi sporchi provenienti dal casinò di St. Vincent.

Il boss restò nella “Corda frates”
Tor­nato a Barcellona dopo il coinvolgi­mento nell’affaire dell’autoparco milanese di via Salomone (in cui era implicato il Psi di Bettino Craxi), Cattafi fu ritenuto – assie­me a Silvio Berlusconi e a Marcello Dell’Utri – uno dei mandanti esterni della strage di Capaci.

La sua posizione, assie­me a quella dell’ex presidente del Consi­glio e del fon­datore di Forza Italia, venne successiva­mente archiviata.

È vero che malgrado un curriculum di queste dimen­sioni, il boss ha continuato a far parte del­la “Corda fratres”, senza che il dott. Cas­sata abbia sentito il dovere di chiederne l’espulsione?

L’“informativa Tsunami”
Settimo. È vero che l’ex procuratore Cassata, all’inizio del Duemila, cercò di bloccare un rapporto esplosivo dei Cara­binieri (“l’Informativa Tsunami”) che si soffermava, tra l’altro, sull’amicizia fra l’ex Pm di Barcellona Olindo Canali (tra­sferito dal Csm al Tribunale di Milano per “incompatibilità ambientale”) e Salvatore Rugolo, all’epoca ritenuto il nuovo reg­gente della cosca barcellonese?

Nel rap­porto si parla di almeno due tal­pe “molto vicine a Canali” che dalla Pro­cura barcel­lonese avrebbe passato le in­formazioni al boss. In quelle duecento pa­gine si parla anche di un intervento del Procuratore Cassata presso il sostituto procuratore An­drea De Feis, titolare dell’indagine su Ter­me Vigliatore, per bloccare il rapporto dell’Arma.

“Il grande protettore di Canali”
Ottavo. È vero – come dicono Sonia Al­fano e l’avvocato Fabio Repici – che “An­tonio Franco Cassata è stato il grande pro­tettore di Olindo Canali”? Se è vero, sa­rebbe interessante sapere se l’ex procura­tore generale ha saputo – magari dallo stesso collega – che il giornalista Beppe Alfano – poco prima di essere ucciso – si sarebbe recato da Canali per confidargli il segreto della latitanza di Santapaola.

Il magistrato monzese gli avrebbe rispo­sto: “Non me ne posso occupare” e alla fine, secondo Sonia Alfano, gli avrebbe detto: “Scrivi tutto quello che sai, chiudi la lette­ra in una busta gialla e spedisci il plico alla Dia di Catania. Avviserò un su­per po­liziotto di prenderlo personalmente”.

“Scrivi tutto quello che sai”
“Mio padre – prosegue l’ex europarla­mentare, che dice di essere stata presente al colloquio – eseguì alle lettera le istru­zioni di Canali, e poco tempo dopo Beppe Alfano fu ucciso”.

(Tratto da: isiciliani.it)

La famiglia che “riconosce” il pentito

Se vera è una gran bella notizia:

“Giuseppe Cimarosa e’ un giovane che cittadini onesti, associazioni e istituzioni non devono lasciare solo in questo percorso di riscatto intrapreso dopo la collaborazione del padre Lorenzo con la giustizia”. Lo ha detto il vescovo di Mazara del Vallo Domenico Mogavero, dopo averlo incontrato ed essersi intrattenuto a parlare con il trentunenne, cugino del boss di Castelvetrano Matteo Messina Denaro. Il padre Lorenzo, 54 anni, e’ stato arrestato nell’operazione “Eden” e oggi e’ un collaboratore di giustizia.
Giuseppe ha detto al vescovo che tutti i componenti del suo nucleo familiare hanno condiviso la scelta della di passare dalla parte dello Stato e di voltare definitivamente le spalle a Cosa nostra.
A determinare la scelta dell’imprenditore in direzione del pentimento e’ stato proprio il figlio dopo avergli parlato la prima volta in carcere. Al vescovo, Giuseppe Cimarosa (che ha preso una dura posizione pubblica contro il superlatitante Matteo Messina Denaro), regista di teatro equestre e fondatore della “Compagnia del centauro”, ha raccontato la sua solitudine, la sua paura e quella che vive la sua famiglia: il fratello Michele, la mamma Rosa Filardo e la nonna Rosa Santangelo (zia del superlatitante Matteo Messina Denaro) che vivono con lui senza tutela.

(link)

“Frantumare le rotule”. ‘Ndrangheta. Lombardia.

Che guaio può passare un benzinaio del Nord se, per caso, incontra e non esaudisce il desiderio di una cliente, particolare, una donna del Sud: la figlia di una famiglia di ’ndrangheta. Basta, è bastato, non aver dato la disponibilità a pagare col bancomat il rifornimento di carburante al di sotto dei 20 euro. Affronto insostenibile, da pagare col sangue del benzinaio, pur settantenne, e con un certo piacere nel riferirne i particolari. «Lo sgabello era di ferro! Tutte le costole cose… gli ha picchiato un pugno..Gli ha spaccato tutto il naso quel sangue ha sporcato pure noi, io avevo le scarpe piene di sangue».  Scarpe bianche appuntite, contro il costato, la milza, la testa del poveretto.

Le anime nere si muovono a Milano, nell’hinterland, in Lombardia come sulla punta dello stretto più a sud, Vibo Valentia. A colpi di piccone, sgabelli di ferro, calibro nove per «frantumare le rotule», proiettili in busta, auto incendiate. Una violenza che non sempre ha moventi solidi, ma che in quest’ultimo capitolo sulle ‘ndrine in Lombardia, scritto a opera del Ros e della Dda di Milano (tredici arresti tra rappresentanti della famiglia Mancuso, i Galati, e gli uomini della “Locale“ di Mariano Comense di Salvatore Muscatello coinvolti anche in subappalti in Expo) è brutale potere.

Così Luigi Malafonte il 21 settembre 2009 finisce sotto i tacchi di Antonio Galati e Michele Mazzeo (morto poi in un incidente d’auto) – «sembrava un cavallo quel giorno» dirà compiaciuto il suo compare di pestaggio – per aver rifiutato, alla Erg di Cantù, il bancomat per una spesa minima alla figlia, incinta, di Galati, la Rosina. Così un commerciante di autovetture di Cosenza, Isidoro De Ferraris, che azzardò forse a non dare il dovuto a Mazzeo della vendita, verrà inseguito fino a Milano, piazzale Loreto, e massacrato a colpi di manico di piccone dentro e fuori la pizzeria Dinky (11 luglio 2007)«Mannaggia l’ostia quante palate a quello! Dopo è scappato fuori, fuori cadde e picchiavamo tutti e tre lì a terra no? Era morto», dirà il solito Galati. E se non muore, il cosentino, è solo perché Mazzeo ha dato l’ordine di no, «non colpire in testa».

Ma questa ’ndrangheta milanese che non si è ripulita a Milano e le cui gesta tornano nelle intercettazioni alcuni anni dopo, non si ferma di fronte a inchieste, arresti, misure di prevenzione. E arriva fino alla direttrice del carcere di Monza, che nella sala colloqui verrà definita «la padrona di qua». Maria Pitaniello, secondo lo schema che la “colpa“ attribuita non è mai verificata prima di passare a decisioni sommarie, è sospettata dal Fortunato del clan Galati di avere ostacolato la domanda di trasferimento di questi il 6 marzo 2013 da Monza a Lauretana di Borrello, Palmi o Vibo Valentia. In realtà la direttrice ha fatto quel che deve, e il 13 aprile inoltrato l’istanza all’amministrazione penitenziaria. Particolare irrilevante per lo ’ndranghetista, che passerà all’intimidazione, facendo spedire alla funzionaria una busta con tre proiettili. E ancor peggio va al vigile urbano di Giussano, Luigi Galanti, che riconosce Fortunato Galati, in semilibertà con un lavoro fittizio in un posto “di famiglia“ come «La bottega del pane», a forzare un posto di blocco. Il vigile e la sua relazione ai carabinieri vengono collegati al ripristino della misura cautelare («Ti sembra che il vigile non gliel’ha detto ai carabinieri?!»). Sentenza emessa, in immediato, il 18 marzo 2013: e l’auto del ghisa finisce in fumo.

(fonte)

Illuminati sulla strada della TAV

attenti al tavAll’integralista piddino Stefano Esposito (quello che ci ha riempito di bufale tecniche e allarmismi sconsiderati sulla protesta dei No Tav) ieri è arrivata un’illuminazione: a queste condizioni, dice, l’opera è antieconomica. Scemi noi allora a non esserci spiegati per benino e per tempo, si vede.