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Giulio Cavalli

Caso Manca: a Viterbo va di scena una farsa

2Fuori dal processo i familiari di Attilio Manca, giovane urologo trovato morto in circostanze misteriose a Viterbo il 12 febbraio 2004. Dietro richiesta del pm Renzo Petroselli, il giudice Terzo ha infatti escluso dalle parti civili la famiglia Manca, rappresentata dai due legali Antonio Ingroia e Fabio Repici. Di fatto i familiari avevano facoltà di essere ammessi come parte civile al dibattimento, secondo il giudice, esclusivamente per il reato di omicidio colposo. Reato che però è ormai caduto in prescrizione, mentre l’unico che verrà contestato in aula sarà quello di cessione della droga che ha ucciso Attilio.
“E’ una vergogna inaudita – ha protestato l’avvocato Fabio Repici – Il degrado della giustizia sta arrivando a livelli cosmici e irredimibili”. Il legale difensore ha dichiarato che “l’atteggiamento tenuto ancora oggi dal pm Petroselli è la conclusione coerente dell’operato con il quale, dal momento del rinvenimento del cadavere di Attilio Manca, il pm ha dedicato tutti gli sforzi a processare moralmente il defunto trascurando di fare quel che doverosamente avrebbe dovuto al fine di ricercare la verità”.

Sul caso Manca sono molti ancora i tasselli mancanti che le precedenti indagini non hanno messo davvero in luce. Come il fatto che Attilio, urologo di innegabile fama, si trovava a Marsiglia proprio nello stesso periodo in cui il boss Bernardo Provenzano, allora latitante, vi andò per un’operazione alla prostata. Ben più di una coincidenza, secondo i familiari, che avrebbe portato il giovane medico alla morte, inizialmente archiviata come suicidio per overdose. Ma tante cose ancora non quadrano: come il fatto che la droga è stata iniettata nel braccio sinistro, mentre Attilio è sempre stato mancino, o che la siringa non riportava alcuna impronta, né di Attilio, né di altri. Indizi e circostanze che potranno essere esaminati in dibattimento anche per eventualmente vagliare la pista mafiosa, mai abbandonata dai familiari. Al processo l’unica imputata è Monica Mileti, accusata di spaccio per aver ceduto la dose di eroina ad Attilio.
I familiari saranno ascoltati dalla Commissione nazionale antimafia il 28 ottobre a Barcellona Pozzo di Gotto, durante una visita di due giorni nel Messinese.

Durissima la reazione di Angelina Manca, madre di Attilio che negli ultimi dieci anni non ha mai smesso di chiedere verità a una procura, quella di Viterbo, “che oggi ha ucciso mio figlio”, e lo ha fatto perché, ha detto in conferenza stampa, “non ha mosso un dito”, riferendosi ai magistrati che si sono occupati delle indagini, il procuratore capo Alberto Pazienti e il sostituto Renzo Petroselli “che hanno prodotto documenti falsi e detto cose false” solo per “mettere il marchio di drogato a un professionista serio come mio figlio”. “Oggi hanno dimostrato che la giustizia in Italia non è uguale per tutti” ha poi concluso con voce tremante e piena d’amarezza. La stessa che è trasparita dall’intervento dell’altro figlio Gianluca, fratello di Attilio, che ha parlato di una vera e propria “estromissione” della famiglia dal processo che si è finalmente aperto. “Oggi il tribunale di Viterbo ha scritto la pagina più buia della giustizia italiana” ma, ha poi sottolineato appellandosi ai presenti “dovete essere voi cittadini di Viterbo, voi cittadini italiani a prendere in mano una situazione così grave, perché evidentemente qualcuno non vuole che la verità venga fuori, allora dovete essere voi a pretenderla”. Certo è che, ha però precisato, “possono togliere la verità giuridica, ma non la dignità, nè ad Attilio, nè alla famiglia Manca”.
“Incomprensibile” e “aberrante” è per l’avvocato Antonio Ingroia l’ordinanza emessa all’udienza di oggi. “Aberrante perché ci sono fiumi di sentenze che dicono che la cessione di sostanza stupefacente è un reato che danneggia la salute di chi la riceve” e nel caso in cui si arriva alla morte “subentra il diritto dei familiari” di prendere parte al dibattimento in quanto “danneggiati indiretti di colui che ha ricevuto la sostanza”. “Io non credo – ha poi precisato – che ci troviamo di fronte a giudici incompetenti” perché oggi nel corso del processo “il giudice ha dimostrato fin dall’inizio di non avere nessun interesse a che si accerti tutta la verità sulla vicenda Manca”. “Sono cose – ha concluso Ingroia – che in 25 anni di carriera da pubblico ministero non ho mai visto”.

(fonte)

Caso Manca: un po’ di luce

C’è voluto un pentito del clan dei Casalesi per dire quello che i familiari di Attilio Manca sostengono da dieci anni: che l’urologo di Barcellona Pozzo di Gotto (Messina) in servizio all’ospedale “Belcolle” di Viterbo non si è suicidato con una overdose di eroina, ma è stato “suicidato” dalla mafia. C’è voluto l’ex killer Giuseppe Setola – un pentito “autorevole” e “di spessore”, come viene definito da Antonio Ingroia, legale della famiglia Manca – per “movimentare” il fascicolo dei magistrati di Viterbo e per portare la Direzione distrettuale antimafia di Roma – coordinata dal procuratore Giuseppe Pignatone – ad aprire un fascicolo di indagini preliminari “modello 45”, inserendo il caso “nel registro degli atti non costituenti notizia di reato”, ovvero nel registro “nel quale raccogliere quegli atti che riposano ancora nel ‘limbo’ della non sicura definibilità, ma che postulano una fase di accertamenti preliminari”.

Detenuto nel carcere di Napoli, nei mesi scorsi Giuseppe Setola ha voluto incontrare i Pm palermitani Nino Di Matteo e Roberto Tartaglia – i magistrati che si occupano della Trattativa, particolare, forse, non secondario – per riferire di avere appreso da un compagno di cella che la morte di Attilio Manca – avvenuta a Viterbo l’11 febbraio 2004 – è da collegare all’operazione di cancro alla prostata alla quale, nell’autunno del 2003, fu sottoposto a Marsiglia il boss Bernardo Provenzano.

Le dichiarazioni di Setola sono state secretate e trasmesse alla Direzione distrettuale antimafia di Roma e alla Procura della Repubblica di Viterbo. Pignatone ora si sta muovendo su due fronti: acquisire informazioni sull’attendibilità del pentito presso la Procura di Napoli, e acquisire gli atti dell’indagine dalla Procura di Viterbo, in modo da avere una visione completa del caso. Dall’ipotesi di decesso per overdose – su cui è stato imbastito il processo che inizia domani a Viterbo – si potrebbe passare all’ipotesi di omicidio di mafia. La competenza, a quel punto, spetterebbe alla Dda di Roma. “Ritengo di fondamentale importanza – afferma l’avv. Ingroia – le dichiarazioni di Setola, visto lo spessore criminale dello stesso. Ho anticipato al procuratore di Roma l’intenzione di depositare una richiesta formale di apertura delle indagini per omicidio di mafia in danno di Attilio Manca, a nome e per conto della famiglia”.

A quel punto andrebbero chiarite diverse posizioni: per esempio quella di alcuni “amici” barcellonesi, strenui difensori della memoria di Attilio quando si parlava di “suicidio”, acerrimi accusatori (con ritrattazioni incredibili che gli inquirenti, evidentemente, non hanno notato) quando si è ventilato un coinvolgimento di Cosa nostra; la posizione del cugino della vittima, tale Ugo Manca, organico alla mafia di Barcellona (diversi precedenti penali e una condanna a quasi dieci anni per traffico di droga, con assoluzione in appello), di cui è stata trovata un’impronta palmare nell’appartamento dell’urologo; la posizione dell’ex capo della Squadra mobile Salvatore Gava, secondo il quale Attilio Manca – nei giorni in cui Provenzano era sotto i ferri a Marsiglia – non si sarebbe mosso dall’ospedale “Belcolle”, circostanza smentita clamorosamente alcuni mesi fa dalla trasmissione “Chi l’ha visto”; la posizione di alcuni poliziotti che – al momento del ritrovamento del cadavere – hanno redatto il verbale di sopralluogo, scrivendo che la vittima non presentava segni di violenza in tutto il corpo (versione contrastante con le foto); la posizione della prof.ssa Danila Ranalletta, medico legale che ha effettuato l’autopsia, la quale nel referto ha ignorato lo stato del volto (ridotto a una maschera di sangue), del setto nasale (deviato), delle labbra (tumefatte), dei testicoli (enormi e contrassegnati da un evidente ematoma).

Da chiarire la posizione dei magistrati che hanno portato avanti l’indagine: dovrebbero spiegare, tra l’altro, perché Attilio – mancino puro – è stato trovato morto con due buchi nel braccio sbagliato, quello sinistro; perché per ben otto anni non hanno ordinato il rilievo delle impronte digitali sulle siringhe (siringhe ritrovate con il tappo salva ago ancora inserito); perché senza uno straccio di prova hanno insistito per dieci anni sull’ “inoculazione volontaria” della vittima; perché non hanno ancora spiegato alcuni presunti retroscena relativi all’esame tricologico (l’esame sul capello della vittima per accertare assunzioni pregresse di stupefacenti): i magistrati sostengono che è stato effettuato e che è risultato positivo; i legali dei Manca affermano che agli atti non esiste c’è alcun esame tricologico (accusando quindi gli inquirenti di dire il falso); perché non hanno richiesto alle compagnie telefoniche i tabulati relativi all’autunno del 2003 per stabilire se davvero – come sostiene la famiglia Manca – il medico era in Francia mentre Provenzano veniva operato; perché non hanno richiesto altri tabulati telefonici ritenuti “interessantissimi” e attualmente depositati presso il Tribunale di Messina.

Secondo Antonio Ingroia “si può immaginare che la decisione di uccidere Attilio sarebbe maturata quando questi, accortosi della vera identità del ‘signor Gaspare Troia’, avrebbe espresso il suo dissenso a determinati personaggi che avrebbero fatto da tramite fra lui e Provenzano”. Tutto da verificare ovviamente. Ma è un tassello che potrebbe incardinarsi fra altri due tasselli: il primo riguarda una frase sibillina pronunciata da Provenzano lo scorso anno, quando l’ex parlamentare europeo Sonia Alfano andò a fargli visita in carcere: “Signor Provenzano, ricorda il giovane urologo Attilio Manca?”. E lui: “Hama mettiri mmenzu autri cristiani?”, dobbiamo mettere in mezzo altra gente? Una risposta criptica che l’on. Alfano traduce così: “Dobbiamo coinvolgere altre persone (oltre a quelle già compromesse) che hanno protetto la latitanza del boss?”. Già, perché “Binnu ‘u tratturi” ha trascorso un pezzo della sua quarantennale clandestinità proprio nella città di Attilio MancaBarcellona Pozzo di Gotto, “zona franca” per boss come lui. Nel libro “Un ‘suicidio’ di mafia” dedicato alla strana morte di Attilio MancaSonia Alfano, supportata da un investigatore a quel tempo impegnato nelle indagini su Provenzano, svela che l’urologo avrebbe utilizzato una struttura privata di quella zona per visitare il signor “Gaspare Troia”. “Zona franca” anche per Nitto Santapaola, il cui covo segreto fu scoperto dal giornalista Beppe Alfano, ucciso per questo l’8 gennaio 1993.

Il secondo tassello riguarda Ciccio Pastoia, ex braccio destro di Provenzano, che nel 2005, intercettato dalle “ambientali”, parlò di “un” dottore che ha “curato” il boss corleonese. Si riferiva ad un medico che lo avrebbe visitato in Italia prima dell’intervento – diagnosticandogli il tumore – e che lo avrebbe seguito, sempre nel nostro paese, nelle cure post operatorie? Non lo sapremo mai, almeno non da Pastoia: don Ciccio è morto “impiccato” nel carcere di Modena poco tempo dopo. La sua tomba è stata incendiata nel cimitero di Belmonte Mezzagno dopo il seppellimento. Oggi forse potremmo saperlo da Setola. Intanto la Commissione parlamentare antimafia il 27 e il 28 ottobre sarà a Barcellona. Primo argomento in agenda: il caso Manca.

(fonte)

Dovete solo dire grazie

Alessandro Gilioli scrive tornando su ciò che scrivevo proprio ieri su pensioni e Governo. Un po’ più incazzato, direi:

Il pensionato che riceve l’assegno più tardi non si deve lamentare, perché c’è chi la pensione non la vedrà mai.
L’operaio a cui aumentano l’orario a parità di salario stia zitto, perché ha uno stipendio fisso a fine mese.
Il cassintegrato si dovrebbe un po’ vergognare, che riceve dei soldi dallo Stato per non lavorare.
Il centralinista al call center l’ora ringrazi la sorte che il suo padrone non ha ancora spostato tutto in Romania.
Il giornalista precario a quattro euro a pezzo non lo sa come vanno le cose nell’editoria, con che faccia chiede di più?
Il cameriere di Eataly a 800 euro al mese tace perché al bar lì vicino pagano di meno e pure in nero.
E la colf romana a cui hanno ridotto la paga da 8 a 7 euro l’ora non sa che una polacca ne chiede solo sei?

o che questo accada per ignoranza e incuria, o per allegro spirito di distruzione, o per meditato proposito

“[…] incapaci di risolvere in sé innalzandola a maggiore e migliore potenza la esistente civiltà, la scalzano, e non solo soverchiano e opprimono gli uomini che la rappresentano, ma si volgono a disfarne le opere, e distruggono monumenti di bellezza, sistemi di pensieri, tutte le testimonianze del nobile passato, chiudendo scuole, disperdendo o bruciando musei e biblioteche e archivi, e facendo alte e simili cose, come si è visto e si vede, o che questo accada per ignoranza e incuria, o per allegro spirito di distruzione, o per meditato proposito. […]”

(Benedetto Croce da Filosofia e storiografia)

La tremarella del Parlamento davanti ad Israele

“Al Parlamento italiano mi sento di rivolgere lo stesso appello che abbiamo lanciato, con esito positivo, alla Camera dei Comuni britannica: riconoscere lo Stato di Palestina. Lo chiedo da cittadina israeliana, che ama il proprio Paese e che ha combattuto per difenderlo. Riconoscere ai palestinesi il loro diritto a vivere in uno Stato indipendente, a fianco d’Israele, non è solo un atto di giustizia ma significa essere davvero amici d’Israele, perché il nostro diritto alla sicurezza non è altra cosa dal loro diritto all’autodeterminazione”.

A parlare è una delle figure più rappresentative del mondo politico e culturale israeliano: Yael Dayan, scrittrice, più volte parlamentare laburista, figlia di uno dei miti dello Stato ebraico: l’eroe della Guerra dei Sei giorni, il generale Moshe Dayan.

Yael Dayan è una delle 363 personalità israeliane che hanno firmato l’appello rivolto al Parlamento britannico per il riconoscimento dello Stato di Palestina. “Riconoscere uno Stato palestinese sulla base dei confini del 1967 – dice Dayan in questa intervista esclusiva all’Huffington Post – è essenziale per l’esistenza d’ Israele. Questa è l’unica politica che lascia nelle mani di Israele il suo destino e la sua sicurezza. Ogni altra politica contraddice gli ideali del sionismo e il futuro del popolo di Israele”.

A Roma la Dia si prende il Caffè Fiume

Caffe-FiumeTra i beni confiscati definitivamente anche il famoso Caffè Fiume a Roma, a fare compagnia agli altri beni mobili e immobili sequestrati a maggio di quest’anno e tutti riconducibili all’imprenditore Saverio R., considerato elemento di vertice della cosca di ‘Ndrangheta Fiarè-Razionale e condannato per mafia.

Gli uomini del Centro Operativo DIA di Roma hanno infatti eseguito questa mattina, presso la capitale e nella provincia calabrese di Vibo Valentia, il decreto di definitiva confisca, emesso dalla Corte d’Appello di Catanzaro, su richiesta della Procura Generale di Vibo.

Il totale del patrimonio confiscato ammonta a sette milioni di euro e comprende, oltre al famosissimo Caffè Fiume di via Salaria, a pochi passi da Via Veneto, e alla società omonima, anche un bar-ricevitoria e un appartamento a Vibo Valentia.

Quest’ultimo era curiosamente intestato alla famiglia dell’attuale Sindaco del Comune, Michele Pannia, che lo aveva venduto alla famiglia dell’imprenditore mafioso negli anni 80 senza mai effettuare il passaggio di proprietà, favorendo quindi l’aggiramento della normativa antimafia.

Quattro le società edili confiscate: le prime tre a Roma, ovvero la Roma Services srl, la Edil Consul Services srl e la Studiogi Edil & Money di Giuseppe Scriva srl, e l’ultima a Vibo Valentia, chiamata Gisa Costruzioni di Francolino Maria Grazia.

La confisca si estende anche ad un concessionario di auto, a due appartamenti, un magazzino e un terreno nella capitale, a dieci appartamenti nella provincia di Vibo Valentia, tre conti correnti bancari e per chiudere in bellezza, cinque auto tra cui una Porsche.

(fonte)