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Giulio Cavalli

Con rispetto per Scampia

Qualche tempo fa, mentre ero ospite di una trasmissione televisiva, ricordo di avere raccolto una bella sporta di insulti da esponenti leghisti e qualche rimbrotto piddino per una mia frase: “Milano in alcune sue zone è come Scampia”. Se non ricordo male il tema della puntata era proprio la rappresentazione televisiva di quel territorio campano diventato metafora di un certo agire criminale. Con il tempo mi sono pentito di quella frase effettivamente non tanto per Milano (che mi disgusta quando si ingegna per apparire compita) quanto per Scampia che non merita di diventare termine assoluto di paragone ad uso di una situazione milanese molto più complessa e per molti versi peggiore. Ieri su Il Fatto Quotidiano Davide Milosa, giornalista puntuale poiché sganciato dall’orrido bon ton lombardo sui temi mafiosi, ha scritto un articolo che riporta con precisione la situazione criminale di alcuni quartieri milanesi in un articolo dal titolo “Milano come Scampia: mafie, racket e droga nelle case popolari” e mi ha riportato all’episodio della mia ospitata televisiva. Forse davvero dovremmo trovare linguaggi nuovi per esprimere l’allarme di un territorio che comunque ospita tra le proprie pieghe episodi che vengono colti con la solita insopportabile insufficienza. Almeno per rispetto per Scampia. Basta leggere il pezzo di Davide per rendersene conto:

Maglietta nera, jeans, capelli rasati sui lati. Guarda. È insistente. Un pit bull gli pascola attorno. Dice: “Cerchi qualcuno?”. Risposta abbozzata: “Sì, anzi no, facevo un giro”. Oltre a lui adesso sono in sei, cinque ragazzi e una ragazza. Tutti italiani. Altri passeggiano sul grande spiazzo di cemento chiuso tra quattro palazzi di sette piani. Questo è territorio off limits. “Tra noi qualcuno è di troppo”, dice lei. Ride ma mica tanto. Meglio andare. Camminata rapida verso il cancello bianco che ti sputa sullo stradone di traffico. Il passo accompagnato dai bassi di un stereo che manda ritmi tecno dalla finestra.

Benvenuti a Milano nel fortino tra viale Sarca e viale Fulvio Testi, periferia nord della città. Case popolari. Gestione Aler in capo alla Regione che fu di Roberto Formigoni e che ora è di Bobo Maroni. Impronta leghista, ma identico risultato. E mentre la politica apparecchia il banchetto dell’Expo, Milano assiste alla frantumazione del suo tessuto sociale. Perché quello degli appartamenti gestiti dall’Azienda lombarda per l’edilizia residenziale è un fronte che monta ogni giorno. Con la cronaca che accatasta violenze, occupazioni abusive, voti comprati.

Dal Giambellino al Gallaratese, Aler si mostra impotente. L’azienda regionale, travolta dagli scandali, da sempre poltronificio per i partiti, in perenne rosso, controlla 72 mila alloggi. A Milano ha edificato 170 quartieri dove vivono 350 mila persone. Dal 1° dicembre, però, 28 mila alloggi torneranno sotto la gestione del Comune. “Ce ne assumiamo la responsabilità”, promette il sindaco Giuliano Pisapia. “Siamo pronti a vincere la sfida”.

Viale Sarca, comandano i clan e il voto costa 50 euro
“Il quartiere Sarca-Testi è il centro di tutto”, racconta un ex funzionario dell’Aler cacciato dall’amministrazione dopo che per qualche anno ha vigilato sui palazzoni, denunciando gli opachi rapporti tra i dirigenti pubblici e alcuni pregiudicati. Anche per questo si è fatto ben volere soprattutto dagli anziani. Non la pensa così l’azienda che gli ha fatto il vuoto attorno. “Qui rom e calabresi controllano tutto, dal racket allo spaccio”. Famiglie ben conosciute e con un pedigree criminale di tutto rispetto. Alcune di loro sono finite sotto la lente dell’antimafia.

“Qui anche i motorini dei postini vengono fatti a pezzi”, dice l’ex funzionario, “non succede la stessa cosa invece per certe fuoriserie”. In Sarca-Testi ci passa di tutto. “Anche gente di camorra legata al clan Gionta”. In questi palazzoni, poi, la politica viene spesso. “Nel 2010”, ricorda l’ex funzionario che chiede l’anonimato per timore di ritorsioni, “qui fece campagna elettorale un noto politico lombardo che entrò nella giunta Formigoni”. Non fa il nome, ma spiega: “Un voto vale 50 euro. Nel periodo pre-elettorale arrivano macchinoni e gente in giacca e cravatta. Gli accordi si prendono con i boss del clan Porcino e del clan Hudorovich. La mazzetta viene lasciata a una sola persona che ha poi l’incarico di distribuire il denaro ai vari inquilini”.

E se da un lato in questa enclave della mala politica incassa preferenze, dall’altro, funzionari Alervengono ricattati. “Qui si spaccia di giorno e di notte, e in certi casi i pusher hanno ripreso con i telefonini funzionari e impiegati dell’azienda mentre acquistano la droga, video che poi hanno utilizzato per ricattarli”. Come? “Per esempio per ottenere un cambio alloggio in tempi rapidissimi”. Il controllo del territorio è totale. “A tal punto”, spiega l’ex funzionario, “che nel 2010 qui trovò riparo un latitante, i carabinieri lo hanno cercato per settimane”. Quartieri sull’orlo di una crisi di nervi, e palazzi abbandonati. Anche questa è Aler.

E così da viale Sarca ci si sposta al civico 60 di via Adriano verso Crescenzago. Qui, qualche giorno fa, un marocchino di 30 anni, con precedenti per droga, è stato ammazzato. Lo hanno trovato su una montagnetta di rifiuti con la testa rotta. Precipitato dopo una rissa.

Guerra al Giambellino rom contro italiani
Abitava al terzo piano di uno stabile abbandonato. E come lui tanti altri disperati, gente che viene dal Nordafrica e dall’est Europa. Stabile Aler che, nei piani, doveva diventare una scuola. A testimoniarlo un cartello affisso al cancello. Si legge che “l’insegnante della prima ora deve fare l’appello e controllare le giustificazioni”. La data: 2008. Poi solo il degrado. Che si calpesta oggi metro dopo metro facendosi largo tra le erbacce e le montagne di immondizia. Ci sono finestre rotte, porte divelte e su per le scale si intravedono ombre. Dopo la morte del ragazzo nessuno parla. Si chiamava Moustafa.

Ma Aler oggi è anche corpo a corpo e lotta per la sopravvivenza. Una guerra tra poveri che infiamma il Giambellino. Succede tutto la notte del 1 ottobre scorso, quando al civico 58 arriva un camioncino. Quattro uomini entrano nel palazzo. Martellano, sfondano, occupano. Ci piazzano una ragazza con tre bimbi. I carabinieri arrivano ma non la cacciano. Il giorno dopo, in pieno pomeriggio, un gruppo di rom si presenta con sedie, tavoli, materassi. È la miccia che scatena la rivolta. “Arrivano gli zingari”, si sente urlare. La gente scende in cortile. Gli italiani fanno muro. Partono gli insulti. Si sfiora la rissa. Arrivano i carabinieri e i rom se ne vanno. “Qui non li vogliamo”.

Che fanno gli zingari? Si spostano di un chilometro verso via Odazio e piazza Tirana. Con donne, bambini e auto di lusso parcheggiate davanti al civico 4 di via Segneri. Sfilano davanti a una signora italiana con cagnolino al guinzaglio. Lei si sposta, loro tirano dritto, entrano nel cancello e scompaiono. “Ormai”, inizia la signora Rosa, “la piazza è roba loro”. Si avvicina un’altra donna. “Mi chiamo Carla e abito qua da 15 anni. Ogni giorno c’è un’aggressione, i furti sono aumentati, e poi ci sono le baby gang: ragazzi tra gli 11 e i 18 anni che fanno rapine ai passanti”.

Al Gallaratese le auto vanno a fuoco
In via Segneri la gente ha paura di protestare. Un dato comune anche in via Bolla 42, quartiere Gallaratese. Qui in una sola settimana la mafia del racket ha dato fuoco a tre macchine. Incendidolosi, non hanno dubbi gli investigatori. Ne sono certi gli inquilini che da anni protestano. Il ragionamento è questo: ora ti brucio la macchina e ti va bene così, la prossima volta, però, tocca alla tua famiglia. Da queste parti governano clan calabresi che non sfondano le porte ma i muri. “È più semplice”, dicono.

Dopodiché chi protesta, prima di essere minacciato, viene pagato. Dai 50 ai 100 euro. Tutto denaro che poi sarà recuperato con gli affitti abusivi. Succede in via Bolla come in via Asturie, non lontano da viale Sarca, dove il listino prezzi arriva fino a 3 mila euro per un appartamento di tre locali. Si occupa ovunque e Aler non pare in grado di bloccare quest’emergenza. Tanto che rispetto a cinque anni fa, gli sgomberi in flagranza sono calati del 60 per cento. In tutto questo succede anche che sulla giostra delle case popolari salgano abusivi e sbirri. Capita nei due palazzoni Aler di via San Dionigi 42 al confine con il quartiere Corvetto. Le occupazioni sono aumentate dopo la chiusura delcampo nomadi dietro via San Dionigi. La presenza di poliziotti, però, non è un deterrente. Gli abusivi non si fermano e occupano non solo gli appartamenti sfitti, ma anche quelli lasciati vuoti magari da un anziano che per qualche giorno si è ricoverato in ospedale. Il Comune di Milano, però, promette: “Sarà guerra agli abusivi e al racket”.

Da Il Fatto Quotidiano dell’8 ottobre 2014

I Casalesi a Trastevere

Non so quanto serva ma insisto:

Appartamenti a Trastevere, un immobile commerciale da 600mila euro a Formia, in provincia di Latina e più di una decina di società, tutte attive nel campo petrolifero e immobiliare. Il tesoro sequestrato dalla Guardia di Finanza di Latina – comandata dal colonnello Giovanni Reccia – all’imprenditore di Villa Literno M. P. S. mostra, ancora una volta, la capacità di espansione imprenditoriale e degli investimenti provenienti dal clan dei casalesi. Se il centro continua a rimanere saldamente radicato nella provincia di Caserta, le ramificazioni verso il Lazio appaiono sempre più salde. Una via utilizzata per ripulire i capitali, secondo gli investigatori, inondando i circuiti economici con milioni di euro.

Nell’ultima operazione della Guardia di finanza – condotta su delega della direzione distrettuale antimafia di Napoli, per un’inchiesta coordinata dall’aggiunto Giuseppe Borrelli e dal pm Giovanni Conzo – appare anche la conferma di una denuncia partita alcuni giorni fa dall’associazione Caponnetto: i clan campani stanno puntando all’acquisizione di aziende e immobili investendo nelle aste giudiziarie, approfittando dei tanti fallimenti nella zona del sud pontino. Tra gli immobili sequestrati a S. – ritenuto un imprenditore vicino al gruppo Bidognetti – c’è anche un immobile di Formia comprato qualche anno fa proprio in un’asta e oggi affittato ad un centro sanitario. L’associazione antimafia a fine settembre aveva segnalato alle forze dell’ordine la presenza di “possibili mani della camorra su alcune aziende dell’agro pontino cadute in gravi difficoltà economiche e perciò costrette a rivolgersi al sistema creditizio di banche o privati”. Operazioni che per la Caponnetto sarebbero condotte da “professionisti insospettabili che opererebbero in rete tra di essi nell’area bancaria e del recupero crediti e che svolgerebbero un’azione che tenderebbe a sottrarre ai proprietari le aziende in crisi”.

Dall’indagine condotta dalla Finanza appare ora un primo riscontro, con il sequestro di un bene in un fallimento: “Da diversi mesi stavamo lavorando sul patrimonio di questo imprenditore – commentano fonti investigative – analizzando con cura l’acquisto dell’immobile di Formia in un’asta giudiziaria”. Il sequestro – firmato dal collegio per l’applicazione delle Misure di prevenzione del Tribunale di Santa Maria Capua Vetere – ha riguardato undici società operanti tra Napoli e Caserta: la Ctp Petroli, la Ctp Immobiliare, l’ Immobiliare San Carlo di Caserta, la V. & G. Energy, la Full Petrol, la Auto Petrol, la Posillipo Petroli, la Marinara, la SA. MI. Trasporti e la Blue Energy. L’attività principale era nel settore del commercio all’ingrosso ed al dettaglio di prodotti petroliferi, la gestione di un deposito di carburanti e di tre impianti di distribuzione stradale. E’ stata infine sequestrata una società con sede a Malta, che si occupava di locazione di immobili. Complessivamente il patrimonio sottratto all’imprenditore campano ammonta a quaranta milioni di euro.

Politici ad avercene

Attenzione: è un post lungo ma ne vale la pena perché quando ho letto l’intervento del senatore (dicono ancora per poco) del Pd Walter Tocci non ho trovato una sola riga di troppo. E allora vale la pena leggerselo per intero:

La richiesta del voto di fiducia sembra una prova di forza ma è un segno di debolezza. Il governo chiede al Parlamento una delega a legiferare mentre impedisce al Parlamento di precisare i contenuti di quella stessa delega. Il potere esecutivo si impadronisce del potere legislativo per disporne a suo piacimento, senza alcun contrappeso istituzionale. Il Senato delega per sentito dire nelle televisioni, senza quei “principi e criteri direttivi” prescritti dalla Costituzione. È l’anticipazione di un metodo che diventerà normale con la revisione costituzionale in atto.

Si forzano le regole per paura di un libero dibattito parlamentare. Il Presidente del Consiglio non è in grado di presentare gli emendamenti che ha proposto come segretario del suo partito. In questo modo, la legge delega sarà priva non soltanto di alcune garanzie ampiamente condivise, ma perfino della famosa questione della cancellazione dell’articolo 18. Se ne parla sui media, ma non risulta nei testi. D’altronde, a quanto pare, non conta più cosa decide il Parlamento – sarà poi il governo tra qualche mese a scrivere i veri decreti – l’importante è ora creare l’apparenza di una grande riforma.

L’argomento è stato scelto ad arte per inscenare una contrapposizione simbolica. Ce la potevamo risparmiare questa guerra di religione sul diritto del lavoro. Non solo perché il Paese avrebbe bisogno di ritrovare coesione sociale intorno a un chiaro progetto di cambiamento. Non solo perché si dovrebbe evitare di lacerare la ferita già dolorosa della disoccupazione che segna la vita di milioni di italiani. Ma soprattutto perché non c’è alcun motivo pratico per ingaggiare l’ennesimo duello giuslavorista. E il primo ad esserne convinto sembrava proprio Matteo Renzi. Solo qualche mese fa riteneva che ridiscutere dell’articolo 18 fosse una fesseria. Si era addirittura impegnato di fronte al popolo delle primarie ad archiviare la questione. Come mai ha cambiato idea? Sarebbe doverosa una spiegazione. Altrimenti potrebbe alimentare il dubbio che la guerra di religione è ingaggiata per distrarre l’opinione pubblica, per coprire le evidenti difficoltà dell’azione di governo, per occultare gli scarsi risultati ottenuti nella trattativa europea.

Temo che si vada consolidando un metodo di governo basato sulla ricerca continua di un nemico. Può servire a creare un consenso effimero, ma non aiuta il paese a trovare una rotta; asseconda il rancore sociale ma non coagula le passioni civili per il cambiamento.
La furia distruttiva stavolta è indirizzata verso un bersaglio inesistente, un altro ceffone alle mosche. L’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori non esiste più nella legislazione italiana, è stato cancellato da Monti due anni fa.

Si racconta ancora la bufala secondo cui nell’Italia di oggi un’impresa non può licenziare per motivi economici e disciplinari. Eppure, lo scorso anno ci sono stati circa 800 mila licenziamenti individuali, il 10% portati in tribunale e solo 0.3% annullati. Infatti,Il governo tecnico ha eliminato tutti i vincoli degli anni settanta, venendo incontro alle pressanti richieste degli imprenditori. Il reintegro è rimasto solo nel caso più estremo, quando cioè il magistrato constata la falsità della “giusta causa”. Se ora si cancella questa ultima garanzia un lavoratore potrà essere licenziato con l’accusa di aver rubato oppure con la giustificazione di una crisi aziendale, perfino se un processo dimostrasse che si tratta di falsità. In altre parole, per licenziare una persona diventa legittimo dichiarare il falso in tribunale. Non è flessibilità economica, ma barbarie giuridica che nega un principio generale del diritto: “Quod nullum est nullum effectum producit”. Una soglia mai varcata dal ministro Fornero – o forse dovrei dire dalla “compagna” Fornero, riconoscendo amaramente che il governo tecnico ha certo sbagliato sugli esodati ma ha difeso i diritti dei lavoratori meglio del governo a guida Pd.

In seguito alle nostre critiche è stato riproposto il reintegro nei casi disciplinari fasulli, ma non per le false cause economiche. Questo diventerà il canale privilegiato per ottenere i licenziamenti ingiustificati. D’altronde, per svuotare un secchio d’acqua basta un solo buco, non ne servono due.
In apparenza Renzi attacca la Camusso, ma nella realtà contesta la Fornero. Ed è curioso che l’ex-presidente del Consiglio, Mario Monti, presente in quest’aula come senatore a vita, non senta il bisogno di difendere la sua legge, che pure presentò in tutti i consessi internazionali come strumento per la crescita del Pil.

Solo in Italia può accadere che dopo due anni si scriva un’altra legge sul lavoro, senza neppure analizzare gli effetti della precedente. È un film già visto, da venti anni la legislazione è in continua mutazione senza risolvere alcun problema, aumentando solo la burocrazia. Si attacca la magistratura per la varietà di giudizi su casi similari, a volte davvero troppo ampia, dimenticando che proprio l’eccesso di legislazione ha impedito il consolidarsi della giurisdizione sui casi esemplari. Ciò che allontana davvero gli investitori stranieri è proprio il susseguirsi frenetico di nuove regole.
Se si riflette onestamente su questa anomalia italiana appare ridicola la retorica dei conservatori che hanno bloccato le riforme degli innovatori. È vero esattamente il contrario: sono state approvate troppe riforme, tutte purtroppo sbagliate. E questa proposta di legge persevera negli errori del passato:

– Si continua a far credere che abbassando l’asticella dei diritti riprenda la crescita. L’esperienza dovrebbe averci convinto che la svalutazione del lavoro ha contribuito pesantemente alla crisi della produttività totale dei fattori perché ha ridotto la capacità di innovazione.

– Si continua a contrapporre i garantiti e i non garantiti mentre è evidente che entrambi hanno perso diritti nel ventennio, come certifica ormai anche l’Ocse attribuendo all’Italia uno dei massimi indici di precarizzazione. La contrapposizione è ancora più falsa in questo disegno di legge poiché mantiene il reintegro per i lavoratori occupati e lo toglie ai giovani neoassunti.

– Si continua nella politica dei due tempi – “ora aumentiamo la precarizzazione, e poi verranno gli ammortizzatori sociali”. Fin dalle leggi Treu la promessa non è mai stata mantenuta e anche stavolta il passo indietro nei diritti è certo e immediato mentre il sussidio di disoccupazione è incerto e insufficiente.

– Si continua a denunciare il freno del sindacato, quando è evidente a tutti che non ha mai contato così poco nelle fabbriche. I politici, anche della vecchia guardia, hanno sempre polemizzato con i leader sindacali ma hanno sempre impedito l’approvazione di una legge di rappresentanza che desse voce ai lavoratori.

– Si continua nell’illusione che basti incentivare il tessuto produttivo attuale per creare lavoro. Ma la ripresa non avverrà facendo le stesse cose di prima. Non suscita alcuna riflessione il fallimento dei bonus fiscali per le assunzioni e della Garanzia giovani, né la scarsa risposta alle offerte dei prestiti della Bce. Che altro deve succedere per capire che ormai le norme e gli incentivi sono strumenti inutili se non si innova la struttura produttiva?

Nel primo annuncio del Jobs Act subito dopo le primarie tutte queste leggende sembravano abbandonate, ma ora sono tornate in auge. La forza del passato ha preso il sopravvento, riducendo l’entusiasmo della novità a stanca retorica. Il Grande Rottamatore porta a compimento i programmi dei rottamati di destra e di sinistra.
Ben due generazioni hanno creduto agli annunci di una flessibilità coniugata ai diritti e sono rimaste ferite. La promessa di uscire dal buco nero della precarietà è troppo seria per essere delusa. Stavolta alle parole devono seguire i fatti. Solo da questa preoccupazione muove la mia critica.

Sento dire che il contratto a tutele crescenti dovrebbe eliminare la sacca della precarietà. Qualcuno mi sa indicare il comma che assicura il risultato? Purtroppo non esiste, poiché il nuovo contratto si aggiunge ai precedenti, adottando quindi la soluzione Ichino contro quella Boeri. Le imprese non ricorrono al tempo indeterminato se possono continuare a gestire rapporti di lavoro meno costosi e senza futuro. Anzi, questi sono stati ulteriormente incentivati con il decreto Poletti di luglio che ha abbassato le garanzie dei contratti a tempo determinato e dell’apprendistato, e in questa delega si amplia l’uso del voucher che nega perfino il rapporto tra lavoratore e impresa.

Si è annunciata l’eliminazione del cocopro, ma è molto difficile che da questa figura parasubodinata si approdi a un vero contratto di lavoro. Più facile invece che si regredisca nel sommerso delle partite Iva. D’altro canto, anche i critici di sinistra peccano di normativismo, illudendosi che basti togliere questa o quella figura contrattuale per migliorare la qualità del lavoro.
C’è un lavoro autonomo di seconda generazione che è legato alla trasformazione tecnologica e produttiva del nostro tempo. È una figura anfibia che non si può ingabbiare negli schemi tradizionali dell’imprenditore e del lavoratore, ma va riconosciuta nella sua peculiarità e sostenuta con strumenti non convenzionali. Dovremmo saperlo soprattutto in Italia, avendo sotto gli occhi quei sei milioni di nuclei produttivi con meno di tre dipendenti che ci ostiniamo a chiamare imprese per ragioni ideologiche, mentre costituiscono una mutazione della figura del lavoratore. L’armatura giuslavoristica di questa legge delega non riesce a contenere il fenomeno e anzi rischia di soffocarlo.

Il carattere anfibio del lavoro terziario richiede l’attivazione di tutele di tipo universalistico – pensionistiche, formative, di welfare territoriale – a prescindere dalle forme contrattuali. Perfino il sostegno al reddito deve essere legato allo status di cittadinanza e non può essere limitato solo al passaggio da un’occupazione all’altra, come invece è necessario e assolutamente prioritario per il lavoro dipendente.
La complessa flessibilità è quella del lavoro autonomo, per quello subordinato sarebbe molto più facile ricondurre l’ordinamento a poche e chiare figure contrattuali che prevedano un periodo di prova e di formazione prima dell’assunzione definitiva e forme di impiego temporaneo più costoso e legato a reali esigenze produttive. Questa semplificazione è credibile solo se si attua la riforma più difficile in Italia, cioè l’obbligo di rispettare la legge.
La gran parte della precarietà nel lavoro subordinato si regge su una pratica di illegalità ed elusione. In questa proposta si delega il governo a fare tutto, tranne che a organizzare un efficiente sistema di controlli sulle condizioni di lavoro. Basterebbe rafforzare il corpo degli ispettori del lavoro e incrociare le banche dati con la lotta all’evasione fiscale e previdenziale, con l’obiettivo di sopprimere il lavoro nero e aumentare la vigilanza sulla sicurezza.

Ma a dare il buon esempio dovrebbe essere prima di tutto lo Stato. Nella stragrande maggioranza i contratti precari della pubblica amministrazione sono illegali, perché utilizzano rapporti temporanei per funzioni continuative e in alcuni casi di delicato interesse pubblico. La recente promessa di assumere 150 mila insegnanti che attualmente hanno cattedre annuali va nella giusta direzione e dovrebbe riguardare le tante figure che si trovano in condizioni simili: ricercatori e archeologi, ingegneri e architetti, informatici e operatori sociali. Non solo per rispettare la dignità di quei lavoratori, ma anche perché la valorizzazione delle loro competenze aumenterebbe la qualità delle politiche pubbliche. Anche le gare di appalto a massimo ribasso oggi contribuiscono a diffondere l’illegalità e il precariato selvaggio, mentre la committenza pubblica dovrebbe prendersi cura del rispetto dei diritti del lavoro. È curioso che questa proposta di legge si occupi del mercato privato e ignori completamente le responsabilità dello Stato come datore di lavoro diretto e indiretto.

Tra le righe si legge una sfiducia nel futuro del paese. Si ritiene che l’Italia non possa essere diversa da come è oggi, non sia in grado di modificare la sua struttura economica tradizionale ormai messa fuori gioco dalla competizione internazionale. Si pretende di risolvere il problema eliminando i diritti e riducendo i salari, già oggi i più bassi in Europa, magari utilizzando gli 80 euro e il Tfr per pareggiare il conto.

Sembra una scelta di buon senso ma è una via senza uscita. I paesi emergenti saranno sempre nelle condizioni migliori di costo per vincere la concorrenza. L’unico modo per mantenere il rango di grande paese consiste invece nel migliorare il livello tecnologico, la specializzazione del tessuto produttivo, l’accesso nell’economia della conoscenza. Ma ci vorrebbe un’agenda di governo tutta diversa; bisognerebbe puntare sulla formazione permanente per migliorare le competenze, mentre qui si promuove per legge il demansionamento dei lavoratori; si dovrebbe puntare sulle politiche industriali della green economy mentre il decreto sblocca-Italia rilancia la rendita immobiliare; si dovrebbe puntare sulla ricerca scientifica e tecnologica, che invece subirà altri tagli con la legge di stabilità; si dovrebbe puntare sull’economia digitale non a parole ma con azioni concrete che ancora non si vedono.

Non si è mai cominciato a cambiare verso. Finora si sono visti i passi indietro. Con le riforme istituzionali gli elettori contano meno di prima. Con il Job Act si intaccano le garanzie per i lavoratori. Queste scelte non erano previste nel programma elettorale del 2013 che abbiamo sottoscritto come parlamentari del Pd. Non siamo stati eletti per indebolire i diritti.

Abbiamo aperto una Piccola Libreria

Praticamente abbiamo seguito il percorso inverso rispetto agli indici del mercato dell’editoria: una libreria a chilometro zero dall’autore al lettore, in tempo di globalizzazione. Nella nostra Piccola Libreria trovate i libri che ho scritto in questi anni e i prossimi che scriverò, per ora, e quando ci capiterà l’occasione metteremo anche qualche piccola sorpresa. Confesso che l’idea ci è venuta grazie al suggerimento di qualcuno che  mi faceva notare come fosse difficile trovare tutte le pubblicazioni e in più ho sempre pensato a questo mio blog come una casa in cui si possa mettere le mani tra le mie cose.

La Piccola Libreria la trovate qui. Aspettiamo come sempre le idee e i suggerimenti, eh. Ah: anche le critiche.

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Sbrocca Italia

Non so se vi è capitato di leggere cosa dice Carlo Petrini, fondatore di Slow Food, sul decreto “Sblocca Italia”:

Ora, lo Sblocca Italia di Matteo Renzi, è «uno shock assoluto, un ritorno al passato che non ci riporta solo a prima  dell’estate 2012: in realtà siamo saliti su una macchina del tempo destinata a farci rivivere tutti i momenti più brutti di una certa storia d’Italia». «Nello Sblocca Italia», spiega Petrini, «non vi è traccia di zero consumo di suolo», né c’è traccia, stranamente, di ciò che ci chiede l’Europa, «degli obiettivi che l’Unione Europea pone agli Stati Membri in termini di gestione del territorio: per Bruxelles si dovrà raggiungere l’occupazione di terreno pari a zero entro il 2050».

«Il Paese che Renzi racconta quando va all’estero a caccia di  investitori, di credibilità», nota infine Petrini, «è il Paese fondato sulla bellezza dei nostri paesaggi, sulla diversità dei territori, sulla ricchezza di un patrimonio culturale, che si fondano in larghissima parte nella storia straordinaria, unica e irripetibile della nostra agricoltura e della nostra alimentazione». E come si combina il paese del Made in Italy con quello dello Sblocca Italia?

«Il condensato di opere proposte in blocco senza appello, di forzature, di deroghe alla normativa ordinaria, mi chiedo dove incroci anche solo una delle vocazioni del nostro Paese. Come può motivare un giovane a intraprendere un qualsiasi mestiere legato all’agricoltura, all’artigianato alimentare, alla piccola pesca, al turismo di qualità, tutti quanti messi definitivamente al bando dalla colata di cemento terminale che nel giro di pochissimi anni sarà scatenata dall’approvazione dello Sblocca Italia?».

Vale la pena leggere il libro ROTTAMA ITALIA che potete scaricare gratuitamente qui.

La mafia con il silicone

Spunti per uno spettacolo:

Una maschera in silicone per garantirsi la fuga. Antonino Messicati Vitale, il presunto boss di Villabate (Palermo), è stato fermato oggi dai carabinieri. Gli investigatori seguivano passo passo i movimenti dell’indagato, che ha sempre amato la bella vita e che i carabinieri bloccarono nel dicembre 2012 a Bali, in Indonesia, dove aveva trovato rifugio poco prima di essere colpito da un’ordinanza di custodia cautelare. Poi erano scaduti i termini e il presunto capomafia era tornato un uomo libero. Messicati Vitale aveva solo l’obbligo di dimora a Palermo, per il quale tra l’altro aveva fatto ricorso chiedendo il trasferimento a Portella di Mare, frazione di Misilmeri. Il provvedimento di fermo, disposto dalla Direzione distrettuale antimafia di Palermo, ipotizza i reati di associazione mafiosa ed estorsione.

Messicati Vitale si era dato alla latitanza qualche mese prima dell’aprile 2012, quando con l’operazione Sisma scattarono una serie di arresti nei confronti di appartenenti al mandamento mafioso di Misilmeri – Belmonte Mezzagno. Fu poi rintracciato il 7 dicembre 2012 in un villaggio turistico di Bali, grazie alla collaborazione dell’Interpol. Un anno dopo estradato in Italia e sottoposto all’obbligo di dimora nel comune di Ficarazzi (Palermo.

Il fermo è motivato dagli inquirenti dalla “sua perdurante appartenenza a Cosa nostra, quale reggente della famiglia mafiosa di Villabate, e al pericolo di fuga”. E per gli investigatori è responsabile di un tentativo di estorsione in danno di un commerciante di carni della zona. Per i pm lo spessore del presunto boss è confermato da alcuni collaboratori di giustizia come Stefano Lo Verso, ex autista di Bernardo Provenzano, e Sergio Flamia. Nel 2011 Lo Verso dichiarava: “Nel 2010 durante la detenzione con Comparetto, dallo stesso ho appreso che ‘a Villabate si muoveva Tonino Messicati che era uscito da poco dal carcere e Tonino è un tipo che per il quale andare ad uccidere una persona è come comprare un pacchetto di sigarette…”.  Successivamente Flamia, pentito del clan di Bagheria (alcun suoi verbali sono confluiti nell’inchiesta sul protocollo Farfalla, ndr), ha definito Messicati Vitale “il vero capo del mandamento di Bagheria, un uomo d’onore della famiglia di Villabate molto influente e potente, addirittura sovraordinato a Zarcone Antonino”. Dichiarazioni che, per gli inquirenti, trovano conferme in quanto dichiarato dall’ultimo pentito del clan di Bagheria, Antonino Zarcone: “È uomo d’onore di Villabate. Dopo l’arresto di Giovanni D’Agati ha preso in mano la direzione della locale famiglia e ha anche favorito la latitanza di Gianni Nicchi”, sostiene il pentito, che aggiunge: “Nel 2011 io sono stato affiliato nella famiglia di Villabate anche se dovevo fare parte della famiglia di Bagheria, alla presenza dei fratelli Messicati Vitale, Tonino e Fabio, e Lauricella. Io, Gino Di Salvo e Tonino Vitale avevamo un ruolo direttivo nel mandamento di Bagheria; Nicola Greco era all’oscuro della nostra affiliazione”.

(fonte)

Al Quirinale due chiacchere con i boss

7 OTT – La Procura di Palermo, in una memoria depositata alla Corte d’Assise, ha dato parere favorevole alla partecipazione dei boss Toto’ Riina e Leoluca Bagarella e dell’ex ministro Nicola mancino alla deposizione, al Quirinale, del Capo dello Stato al processo sulla trattativa Stato-Mafia.
I capimafia, qualora la Corte accogliesse la loro istanza di assistere alla deposizione, parteciperebbero in videoconferenza dal carcere, mentre Mancino potrebbe assistere dal Quirinale. Secondo i pm, infatti, la possibilita’ di partecipare all’udienza, seppure con le forme della videoconferenza, sarebbe prevista dalla norma richiamata dalla Corte d’Assise per lo svolgimento dell’udienza al Quirinale, cioe’ l’articolo che disciplina l’audizione del teste sentito a domicilio. Inoltre – per la Procura – alla luce dei principi generali che consentono all’imputato di partecipare al processo, un’eventuale esclusione, a fronte di una precisa istanza, potrebbe determinare una nullita’ processuale. Da qui il parere favorevole della Procura. (ANSA).

Io pagherei per sapere le domande che potrebbe porre l’avvocato di Riina, ad esempio.

‘Ndrangheta a Imperia: merde in gabbia

“È meglio se da qui non mi fate più uscire, perché se esco vi taglio la gola a tutti”. Vincenzo Marcianò, il figlio intemperante del presunto boss della ‘ndrangheta di Ventimiglia, Peppino Marcianò, non è nuovo a sparate del genere e quando oggi, il tribunale di Imperia lo ha condannato, insieme al padre, rispettivamente a 13 e 16 anni, ha inveito contro la corte: “Ti sei venduto il processo. Sei un coso lordo – ha imprecato contro il presidente del collegio giudicante, Paolo Luppi-. Sei un infame. Ti sei messo d’accordo con il pm. L’homo sapiens! Sa tutto lui!”

La sentenza è storica: per la prima volta un tribunale ligure ha sancito l’esistenza di un’organizzazione mafiosa dislocata sul territorio, dopo anni di inchieste (Roccaforte, Colpo della Strega, Spi.Ga, Maglio e Maglio 3, Crimine, e infine non a caso quella soprannominata La Svolta) che coinvolgevano gli stessi personaggi, senza mai riuscire a portare a casa il risultato in sede giudiziaria.

Associazione mafiosa per dodici degli imputati, fra i quali, Peppino Marcianò, condannato a 16 anni e Antonio Palamara, da alcuni collaboratori di giustizia indicato come il vero capo di Ventimiglia e, per questo, condannato a 14 anni. Tredici anni, per Vincenzo, Marcianò, figlio di Peppino e 7 anni e sei mesi al suo omonimo, nato nel ’48. Sette anni ad Annunziato Roldi ed Ettore Castellana, colpevoli dell’attentato intimidatorio ai danni dell’imprenditore Piergiorgio Parodi. Condanne pesanti anche per i fratelli Pellegrino, già implicati anche in altri processi: 16 anni per Maurizio e 10 anni e sei mesi per Giovanni e Roberto.

Condanne che, se non hanno accolto in pieno le richieste del pm, Giovanni Arena, (che era arrivato a chiedere fino a 22 anni) hanno comunque accolto la sua tesi. Con la sola e importante eccezione degli apporti politici. Assolti, infatti, ai sensi dell’articolo 530 del codice penale, l’ex sindaco di Ventimiglia Gaetano Scullino e il suo city manager, Marco Prestileo. Secondo l’accusa decaduta, i due avrebbero agevolato la cooperativa Marvon, controllata da Marcianò, nell’assegnazione di alcuni appalti attraverso la controllata comunale Civitas. Resta il fatto inquietante che, la notte dopo la deposizione in tribunale di Marco Prestileo, l’auto intestata alla moglie ha preso fuoco, in quella che oramai viene definita la “Riviera dei fuochi”.

Nonostante le condanne pesanti, la situazione in aula si era mantenuta accettabile (solo il grido di dolore della madre dei fratelli Pellegrino) fino alla lettura del dispositivo di risarcimento alle parti civili: 600mila euro al comune di Ventimiglia, e 400mila a quello di Bordighera. La richiesta dei danni, insieme con la con la confisca dei beni alla famiglia Pellegrino, ha dato fuoco alle micce: “Ecco dove volevate arrivare. A prendervi i nostri soldi” – è sbottato il solito Vincenzo. Da lì è stato un crescendo di minacce e tentativi di uscire dalla gabba, fino al rifiuto di essere condotti fuori in manette, perché – ha spiegato uno dei detenuti – noi siamo gente onesta e vogliamo rispetto”.

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