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Giulio Cavalli

Evviva evviva! Non interessa la trattativa!

C’è in giro questa biliosa soddisfazione per il deludente risultato di spettatori del film di Sabina Guzzanti “La trattativa”. Ne scrivono i giornalai di destra ma anche di sinistra tutti tronfi tra le comode scrivanie da saccenti minimizzatori della tranquillizzazione come linea editoriale. Verrebbe da dire che Sabina non si sia impegnata in tutti questi anni per essere simpatica a tutti, sempre infilata tre gli orrori più colpevoli e turpi della nostra classe dirigente che sbava pur di ottenere piuttosto una complice distrazione dalle proprie malefatte ma l’aspetto più preoccupante di questa generalizzata esultanza per il flop è la ripetizione dei soliti meccanismi che mirano (riuscendoci) a confinare i contatti tra Stato e mafia dagli anni ’90 ad oggi tra le visioni apocalittiche di pochi esagitati. Creare o coltivare il disinteresse verso i rapporti non convenzionali tra pezzi di Stato e la criminalità organizzata significa normalizzare la mafia così come progettato da Bernardo Provenzano qualche decennio fa oltre che calpestare la vivacità civile che è la garanzia migliore per la democrazia del nostro Stato. Non so perché anche molti intellettuali e notabili antimafiosi siano ultimamente molto tiepidi sui fatti (perché ci sono già i fatti, eh) che sono agli atti di un processo che al di là della verità giudiziaria possiede già tutti gli elementi per formulare una sentenza etica sulla storia degli ultimi vent’anni di questo Paese e non so davvero se a qualcuno sia bastato l’arresto di Dell’Utri come ceralacca per chiudere definitivamente quell’epoca.

Oggi il Governo sta preparando la riforma della giustizia con alcuni degli interpreti di quegli anni bui, ad esempio, e nonostante i propositi di “rottamazione” molti torbidi personaggi sono ancora saldi al loro posto. Continuando a ripeterlo e continuando a chiedere verità e giustizia qualcuno vorrebbe farci credere che siamo solo coristi di un trita litania ma poi verrà un giorno che gli immobili di oggi si fregeranno del titolo di salvatori della patria. E noi saremo qui a ricordarli tutti, i pavidamente timidi sulle trattativa. Ce li ricorderemo tutti.

Le colpe dell’antimafia

Un articolo condivisibile in toto e coraggioso dei ragazzi del Gruppo Antimafia Pio La Torre. Perché anche le riverenze antimafiose rischiano di essere un brutto ottundimento:

La vicenda legata alle dichiarazioni del sindaco di Brescello, contenute nell’ottima video-inchiesta realizzata da Cortocircuito, si può riassumere tutta qui: una comunità si mobilita a sostegno del sindaco – accusato di aver negato la presenza mafiosa nel territorio – con uno slogan dal sapore assolutorio, “Contro tutte le Mafie”appunto.

Una situazione che ha del paradossale, se si pensa allo stereotipo con cui vicende analoghe in altre parti d’Italia vengono commentate al “Nord”; in parole povere, sempre i “soliti” solidarizzano con il politico X accusato di essere connivente con un’organizzazione criminale, quelli che dipendono dalle sue sorti per favori e prebende clientelari. Quando accade lo stesso in Emilia-Romagna, invece, è la comunità che si mobilita a fianco dell’amato sindaco, infangato nella sua onorabilità per una piccola gaffe.

Se succedono fatti simili – in cui non si vuole mettere in gioco la malafede dei manifestanti, sia chiaro – non è solo colpa, però, degli stereotipi sulla comunità forte e sana, temprata da anni di convivenza pacifica e solidale, la quale si trova sorpresa e sgomenta davanti agli arresti di esponenti della criminalità organizzata. La colpa è anche e soprattutto dell’antimafia da corteo (fatta di taluni – non tutti per fortuna – politici e da sedicenti organizzazioni antimafia più o meno conosciute in ambito nazionale). Quella che si mobilita giustamente con forme di mutualismo nei confronti dei territori più in difficoltà, ma che poi a casa propria non sa trarre le conseguenze necessarie da comportamenti e dichiarazioni deprecabili. Non è la prima volta, peraltro, che incidenti simili accadono in Emilia Romagna; a Rimini, difatti, l’ormai ex-assessore regionale Melucci era inciampato sull’ennesima buccia di banana della presenza mafiosa in Riviera, in particolare della camorra nel settore alberghiero.

Da un lato questo tipo di antimafia sembra rifiutarsi di studiare il territorio, la storia delle infiltrazioni mafiose e il successivo radicamento in zone ben precise dell’Emilia-Romagna (sembra quasi superfluo ricordare che per la provincia di Reggio Emilia, il termine colonizzazione mafiosa è tutt’altro che esagerato e, anzi, riflette abbastanza fedelmente lo sviluppo di alcune ’ndrine nella zona). Dall’altro quel poco di analisi viene fatta spesso approssimativamente e attraverso ritagli di giornale, con articoli scritti da persone tutt’altro che preparate in materia e in cui il sensazionalismo dei titoli (“C’è la camorra”“La Dia certifica: c’è la mafia” ecc …) è inversamente proporzionale alla assennatezza del contenuto.

Non solo EXPO, la ‘ndrangheta a Roma nei cantieri Metro C

Sarà che mi viene benissimo il ruolo dell’uccellaccio del malaugurio ma mi stranisce questo silenzio sulle infiltrazioni mafiose nei cantieri della Metropolitana C a Roma, la più grande opera pubblica italiana. Tra le innumerevoli interdettive antimafia spiccano i nomi de La Palma, che viene indicata dalla DIA come “azienda legata alla mafia tradizionale di Palma di Montechiaro” oppure la Tripodi Trasporti di quel Tripodi Giovanni vicino al clan di Melito Porto Salvo. Stiamo parlando di 5 miliardi di euro di cantieri (un bel pezzo di una manovra finanziaria, per intendersi)  e di un’attenzione che langue.

Poi, mi raccomando, fra qualche anno allarmiamoci tutti.

La verità. Da tutti.

di Carla Tocchetti (La Provincia di Varese) – 6 ottobre 2014

1Straordinaria presenza al convegno “Non c’è libertà senza legalità” tenutosi oggi all’Apollonio: difronte a quattrocento persone c’erano Salvatore Borsellino, fratello del giudice assassinato e Antonino di Matteo, il magistrato inquirente sulla trattativa Stato-Mafia. Abbiamo chiesto a Borsellino il significato del quadro presente nel Rapporto dell’Osservatorio Universitario milanese sulla Criminalità Organizzata che definisce la Provincia di Varese ad alto indice di presenza mafiosa tuttavia non ne evidenzia connessioni a livello politico: “Il prof. Nando Della Chiesa, autore del dossier, potrebbe rispondere meglio di me ma a livello di ipotesi potrebbe essere che non si è scavato abbastanza”. Di Matteo ha sottolineato che “la verità deve essere pretesa da tutti i cittadini, è un sacrosanto diritto conoscere i dettagli delle indagini e delle sentenze. Essere indifferenti significa consegna alle mafie il potere di questo paese.” Per Giulio Cavalli, lo scrittore sotto scorta per le minacce ricevute dalla mafia: “Negli ultimi trent’anni sono purtroppo mancati gli uomini di cultura che chiedessero una decisa linea politica a fronte degli esiti giudiziari e condannassero la prevaricazione come stile di vita per raggiungere il successo”. Anna Parisi di Agende Rosse, tra gli organizzatori del convegno insieme a AntimafiaDuemila e Libera sezione provinciale di Varese, ha sottolineato tra gli applausi che “non devono essere lasciati soli i magistrati che si battono perchè la verità e la giustizia possano realizzarsi secondo il giuramento fatto alla Costituzione, e non si fanno intimidire dalle minacce traendone consapevolezza di percorrere la strada giusta” ricordando anche la figura del maresciallo Saverio Masi, caposcorta di Nino di Matteo, che lavorava all’interno del reparto investigativo fino al blocco voluto dai suoi stessi superiori e oggi rischia la destituzione per aver avuto il coraggio di denunciarli. Una sfilata di bambini delle scuole elementari che indossavano le magliette stampate con il motto del convegno “Non c’è libertà senza legalità” ha proposto al pubblico una serie di riflessioni, esprimendo disgusto e fermezza, facendo proprie le parole del giudice Paolo Borsellino: “Vogliamo vivere senza la paura, perchè ci impedisce di essere liberi”.

Il clan D’Oronzo-De Vitis-Ricciardi pronto a rinascere

La Polizia di Stato di Taranto sta eseguendo una vasta operazione antimafia, coordinata dalla DDA di Lecce, con l’arresto di decine di persone ritenute responsabili, a vario di titolo, dei reati di associazione a delinquere di stampo mafioso, associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti, omicidio, estorsione, rapina e detenzione di armi. Le indagini, condotte dalla Squadra Mobile, hanno accertato che il gruppo criminale operava su Taranto con forti articolazioni a Verona e Sassari.

Gli aggiornamenti – Sono 50 (2 ancora da eseguire) le ordinanze di custodia cautelare in carcere eseguite all’alba dagli agenti della Squadra mobile di Taranto richieste dalla Procura distrettuale antimafia. Vecchi boss condannati per mafia e recentemente scarcerati puntavano nuovamente a mettere le mani sulla città attraverso il racket delle estorsioni e la gestione di attività e cooperative.

Si cercava di ricostituire il clan D’Oronzo-De Vitis-Ricciardi – Secondo gli investigatori si cercava di ricostituire lo storico clan D’Oronzo-De Vitis-Ricciardi che negli anni ’90 imperversò a Taranto, in piena alleanza con il boss Antonio Modeo, detto il “Messicano”, scatenando una sanguinosa guerra di mala da centinaia di morti contro i tre fratelli Gianfranco Riccardo e Claudio Modeo. Facevano leva sulla fama criminale ma volevano aggiornare il loro look ed avere atteggiamenti più civili.

«Erano pronti a scatenare una nuova guerra – commenta il procuratore antimafia Cataldo Motta – e desiderosi di vendicarsi di chi negli anni della reclusione gli ha voltato le spalle e non li ha aiutati sostenendo spese legali ed aiutando i familiari, così come vuole il codice mafioso».

Nel mirino le attività imprenditoriali ed economiche più ricche della città costrette a pagare il pizzo. Nessuna ha denunciato le estorsioni subite.

Fra gli arrestati, anche un imprenditore, Fabrizio Pomes, accusato di concorso esterno in associazione mafiosa ed intestazione fittizia di beni per aver creato una serie di cooperative che si aggiudicarono la gestione di un centro sportivo del Comune. Il clan aveva ripreso vecchi e nuovi collegamenti, aveva teste di ponte a Verona, gestiva il traffico di droga ed aveva ampia disponibilità di armi. Dall’inchiesta emerge che De Vitis è anche mandante dell’omicidio di Antonio Santagato, ex fedelissimo dei Modeo, ucciso a colpi di pistola dai fratelli Pascalicchio nel maggio del 2013 a Taranto.

Il capo della Polizia Alessandro Pansa ha telefonato al Questore di Taranto complimentandosi con le donne e gli uomini della Polizia impegnati nell’attività investigativa che ha portato all’esecuzione di 52 misure cautelari nei confronti di appartenenti al clan D’Oronzo-De Vitis, ringraziando anche personalmente il procuratore della Dda di Lecce Cataldo Motta. Lo fa sapere l’ufficio stampa della Polizia in una nota.

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Gli strani buchi nella sicurezza di Scarpinato

Siamo alle solite: notizie che fanno venire i brividi.

Prima è arrivata una lettera minatoria che conteneva l’invito a “rientrare nei ranghi”, recapitata direttamente sulla sua scrivania al primo piano del Palazzo di Giustizia di Palermo. Poi una scritta tracciata su una porta impolverata, proprio di fronte al suo ufficio: “accura”, scriveva la mano anonima in dialetto siciliano, ovvero “stai attento”. Adesso le misure di sicurezza del procuratore generale Roberto Scarpinato sono state potenziate: lo ha deciso venerdì il Comitato Provinciale per la Sicurezza pubblica di Palermo.

Dagli archivi del palazzo di giustizia siciliano, infatti, sono sparite le registrazioni effettuate dalle telecamere di sorveglianza negli stessi giorni in cui l’ignoto Corvo riusciva a penetrare all’interno dell’ufficio del magistrato per lasciare la missiva intimidatoria per Scarpinato. Le indagini sono affidate, per competenza, alla procura di Caltanissetta guidata da Sergio Lari: gli investigatori hanno acquisito le cassette che corrispondevano a dodici giorni di registrazione, nello stesso periodo in cui la lettera era stata presumibilmente depositata sulla scrivania di Scarpinato (ovvero la notte tra il 2 e il 3 settembre). Visionandole, però, gli inquirenti si sono accorti che le cassette contenevano soltanto cinque giorni di registrazione: e quando sono tornati nuovamente negli uffici palermitani, si sono resi conto del fatto che fosse rimasto materiale con soltanto 24 ore di registrazione. Solo un guasto nel sistema di videosorveglianza? O un furto operato da un infiltrato che ha praticamente colpito al cuore il Tribunale di Palermo? Se lo chiedono gli investigatori, che indagano nelle falle del sistema di sicurezza della procura.

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Anche in Lombardia i candidati mafiosi si fanno in casa

Spesso ci è capitato di discuterne nei nostri incontri: la mafia che, delusa dalla politica, passa alla produzione “in proprio” dei dirigenti e dei candidati è il segno di una crescita sostanziale nella radicazione sul territorio. E infatti ne scrive Cesare Giuzzi:

Il milanese ha sostituito il calabrese. Dialetto lombardo, boss e cumenda. Affiliati ai clan nati e cresciuti al Nord. Senza neppure una goccia di sangue d’Aspromonte. La ‘ndrangheta cambia, e anche a Milano – suo feudo imprenditoriale ed economico – le regole si adattano al limite del mutamento genetico. Per esempio aprendo le porte a nuovi «battezzati» che «non hanno origine calabrese» e vengono «affiliati all’interno dei vari locali della ‘ndrangheta lombarda con cariche e doti secondo gerarchie prestabilite, con cerimonie e rituali tipici». Ma non solo. Sotto la lente della squadra Mobile di Milano e della Dda guidata da Ilda Boccassini, sono finiti anche due medici. Chirurghi noti e stimati nell’ambiente sanitario lombardo oggi sospettati di «essersi messi a disposizione di affiliati e dei loro parenti» per ottenere «scarcerazioni e cure privilegiate».

Gli investigatori li hanno seguiti e fotografati durante incontri e cene con condannati per mafia o familiari di arrestati nelle ultime operazioni antimafia al Nord. Si tratta di due medici di origine calabrese che lavorano al Niguarda di Milano e al Policlinico di Monza. Con loro anche un infermiere di origini calabresi. Una conferma ulteriore dell’interesse mafioso per la sanità lombarda. Come già emerso a proposito dell’ex dirigente sanitario dell’Asl di Pavia, Carlo Chiriaco, condannato in secondo grado a 12 anni. Proprio da quelle indagini è nato il fascicolo che ha permesso, alcuni mesi fa, di scoprire la presunta «cupola» che voleva spartirsi gli affari di Expo.

La capacità di adattamento delle famiglie criminali calabresi e la loro struttura «flessibile» hanno permesso di riempire i vuoti dopo i 300 arresti dell’operazione Infinito-Crimine (luglio 2010) e quelli delle inchieste successive. Tanto che, secondo la polizia, i clan a Milano si sono «immediatamente riorganizzati e hanno di fatto ricostruito e preservato la scala gerarchica che consente alla ‘ndrangheta di rimanere solidamente legata al territorio».

La fotografia scattata dalla relazione inviata alla Direzione nazionale antimafia dalla squadra Mobile di Milano è l’immagine di una mutazione in atto. Dopo aver investito sui politici – spesso con aspettative superiori rispetto ai risultati ottenuti – i clan oggi «si sono posti l’obiettivo di entrare direttamente nei gangli della vita imprenditoriale e politico-istituzionale». Come? Candidando affiliati di assoluta fiducia nelle amministrazioni locali: «Gli appartenenti alla ‘ndrangheta, dimorando al Nord ormai da più generazioni, hanno progressivamente acquisito una piena conoscenza del territorio consolidando rapporti con le comunità locali e privilegiando specifici contatti con rappresentanti della politica e delle istituzioni locali che occupano ruoli chiave nelle amministrazioni». Il tutto, come annotano gli investigatori della squadra Mobile diretti da Alessandro Giuliano, grazie alle nuove generazioni che hanno permesso alla ‘ndrangheta al Nord di «diventare col tempo un’associazione dotata di un certo grado di indipendenza rispetto a quella autoctona calabrese con la quale continua comunque a mantenere rapporti molto stretti».

Il nuovo «governo» delle ‘ndrine «si realizza con un tasso di violenza marginale, privilegiando invece forme di accordo e collaborazione con settori della politica, dell’imprenditorie e della pubblica amministrazione». Ecco la zona grigia. Così, come era emerso nel recente passato, dal traffico di cocaina l’attenzione dei boss milanesi s’è spostata sull’edilizia, sugli appalti pubblici (Expo, ma non solo), usura, frodi immobiliari, giochi, scommesse e l’acquisto di locali in centro. I clan investono all’estero: Romania, Gran Bretagna, Cipro e Svizzera. «L’ingresso di nuovi elementi ha consentito alle più solide consorterie mafiose calabresi di confermare il proprio assetto territoriale e di riaffermare il proprio ruolo di referenti locali rispetto alla casa madre».

Per quanto riguarda i medici indagati, l’inchiesta avrebbe messo in luce rapporti con boss del calibro di Pasquale Barbaro detto ‘U Nigru , originario di Platì (Reggio Calabria) e arrestato nel 2011 nell’inchiesta Minotauro della Dda di Torino, di affiliati (Molluso e Trimboli) della potente cosca Barbaro-Papalia («La sua egemonia a Milano e hinterland è assoluta») e del clan Morabito-Palamara-Bruzzaniti di Africo.

Oltre a EXPO, la ‘ndrangheta che diversifica

Ma quale Expo, quando mai, la ‘ndrangheta non ci pensa. Troppo “scrusciu” attorno, troppa attenzione. Ora poi che il governo ci ha piazzato sopra addirittura l’ex magistrato anti-casalesi Raffaele Cantone, i boss girano al largo. Il ragionamento, in fondo, è semplice semplice. “Io non è che miro là, io miro che i grossi vanno là e il resto qua resta scoperto”. Con buona pace degli allarmi lanciati dalla politica. E’ il 14 aprile 2011, quando la frase viene catturata dalle microspie della squadra Mobile di Milano. E così se il capo della procura di Milano Edmondo Bruti Liberati lancia l’idea dell’area omogenea per seguire meglio le inchieste sull’Esposizione universale, la mafia calabrese, con capi e comprimari, tira dritto ragionando giorno dopo giorno, lavorando sul territorio lombardo, sulle sue istituzioni locali, pilotando elezioni comunali, tenendo a busta paga funzionari degli uffici tecnici, consiglieri, assessori. E lo fa oggi, dopo arresti e condanne, dopo i maxi-blitz del 2010, dopo una stagione (dal 2008 al 2012) in cui l’antimafia milanese, diretta dal procuratore aggiunto Ilda Boccassini, ha svelato intrecci mafiosi e complicità politiche.

“Io non è che miro là”, dice Pietro Corapi, imprenditore del mattone calabro-lombardo, originario di Davoli in provincia di Catanzaro. Nel 2012 viene coinvolto nell’indagine Golden Snow. Si tratta di affari locali nel comune di Desio: roba di piccola corruzione per gli appalti della neve. Corapi finisce in carcere assieme a imprenditori dal cognome lombardissimo e ad alcuni funzionari pubblici. L’arresto, però, non ferma la polizia di Milano. Il nome di Corapi così rientra nelle carte dell’operazione Tibet che il 4 marzo 2014 porta in galera 40 persone. In carcere finisce Giuseppe Pensabene, uomo di ‘ndrangheta, che pur con un curriculum criminale di basso livello, si è infilato nel vuoto di potere creato dal blitz del 5 luglio 2010. Pensabene comanda in Brianza, tra Desio e Seveso, mettendo in piedi una banca clandestina per riciclare il denaro dell’usura e il nero degli imprenditori. Nulla di nuovo sotto il sole. Eppure quell’indagine nasce proprio attorno alla figura di Corapi che, indagato e intercettato, non finirà coinvolto negli ordini di cattura firmati dal gip di Milano Simone Luerti.

Lo spunto risale al novembre del 2010 quando il tribunale di Catanzaro ordina il sequestro di beni a Francesco Corapi, padre di Pietro. Sigilli vengono messi a terreni e ville, anche in Lombardia e in particolare nella zona di Bollate, area di influenza della famiglia. Ecco allora quanto scrive la squadra Mobile di Milano: “Pietro Corapi, insieme” a familiari e prestanome “sembra abbia costituito in questo territorio una organizzazione criminale calabrese collegata alla cosca Gallace di Guardavalle (CZ), che pone in essere su questo territorio una serie di attività illecite”. S’indaga, s’intercetta e si scopre che Pietro Corapi, classe ’73, è uomo d’impresa e di conoscenze. Suo cognato, Nicola Grillo, è vicino alla famiglia Mandalari, i boss di Bollate che dopo decenni di affari neri, sono finiti in carcere solo nel 2010. Al contrario di Corapi, Grillo è uomo di cantiere ed è a lui che i tanti padroncini calabresi si rivolgono per poter lavorare.

Ci sono affari di terra e, ipotizza la polizia, di ‘ndrangheta. Ci sono, soprattutto, conoscenze da coltivare nei vari comuni che da Bollate vanno verso Lecco e Como. Ed ecco che le intercettazioni fissano il punto, mentre chiudono il cerchio foto e riprese. Di mezzo c’è sempre Pietro Corapi pizzicato più volte al telefono con Giovanni De Michele (non indagato), ex ingegnere del comune di Solaro in provincia di Milano. Annota la polizia: “Le conversazioni tra i due lasciano presupporre l’esistenza di irregolarità nell’assegnazione dei lavori comunali che vengono assegnati o con bandi di cui Corapi riesce a conoscere le altre offerte in modo tale da presentarne una più bassa, oppure con procedure d’urgenza per scavalcare quelle ordinarie”. Corapi lavora in diversi cantieri pubblici: da Desio a Merate, da Solaro a Nova Milanese potendo contare su contatti all’interno dell’amministrazione.

Non è Expo, naturalmente. Ma è la ‘ndrangheta, ragionano gli investigatori della squadra Mobile, che striscia lenta dentro alle istituzioni locali. E così pochi giorni prima della Pasqua 2011, Corapi è al telefono con il geometra dell’ufficio tecnico del comune di Merate. Dice il funzionario pubblico: “Adesso non ho in giro altra roba, c’è quella gara lì e ti faccio sapere”. Stesso discorso per il comune di Varedo dove Corapi contatto il solito architetto con il quale l’imprenditore si mette d’accordo per un lavoro che ufficialmente costa 20mila euro ma che sarà pagato 56mila.

Rapporti e contatti creano una rete che da Bollate si estende da nord a sud. Si parte dalla famiglia Corapi e si arriva a Santo Maviglia, nato ad Africo ma residente a Monza. Classe ’73, nel 2011 la Dia di Reggio Calabria lo denuncia per associazione mafiosa. I collegamenti con i Corapi, annota la polizia, sono legati ai lavori di movimento terra. Stesso campo di gioco che lega i porta bandiera delle cosche di Guardavalle ai potenti clan di Platì storicamente residenti nei comuni di Corsico e Buccinasco. In particolare i contatti sono con i fratelli Portolesi titolari della Helving srl. Una nota del nucleo provinciale dei Carabinieri comunica che “tale società è totalmente riconducibile a Pietro Paolo Portolesi, la cui coniuge, Maria Calabria, è amministratore unico. La cugina, Elisabetta Calabria, è coniugata con Rosario Musitano, anch’egli riconducibile alle famiglie operanti all’interno delle principali cosche platiote”. Di più: “Secondo un appunto del N.o.r.m di Pavia emerge che Portolesi è stato l’autista e uomo di fiducia di Pasquale Marando (latitante) elemento di prim’ordine e anello di congiunzione della ‘Ndrangheta Calabrese per la gestione degli stupefacenti tra la Colombia e l’talia”.

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