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Giulio Cavalli

Bre.Be.Mi al di là dell’annuncite

Finalmente un articolo chiaro su Bre.Be.Mi al di là degli annunci:

[di Dario Ballotta | Legambiente Lombardia | su Il granello di sabbia]

Un’opera che doveva costare inizialmente 800 miloni per i 62 Km che corrono tra Brescia e Milano, allafine ha triplicato i suoi costi complessivi, passando a 2,4 miliardi comprensivi degli interessi. Il suo finanziamento, e quindi i rischi, sono stati ripartiti su un pool di banche, tra cui la capofila Banca Intesa con 390 milioni di euro, Unicredit e B.Mps con 290 milioni, Ubi Banca e Banca Popolare con 200 milioni ciascuna.

Ma la parte del leone è stata fatta dalla Cassa Depositi e Prestiti (l’istituto pubblico che raccoglie i risparmi postali) che ha partecipato con 765 milioni di euro. Con questo finanziamento è stata costituita una forte garanzia pubblica dell’opera. Il costo di un km di autostrada della Brebemi è passato da 12 milioni di euro, di qualche anno fa, a 36 milioni a km. Per avere una idea del prezzo “salato” di questa autostrada basti pensare che Benetton aveva comprato 9 anni fa la A4, l’autostrada parallela Milano-Venezia, a 2,2 milioni a Km, cioè a 33,8 milioni a km in meno dei costi attuali di Brebemi (se saranno mantenute le attuali previsioni).

Il Governatore della Banca d’Italia, nella sua ultima relazione, ha detto che tra gli altri, uno dei gap italiani consiste nel costo triplo rispetto ai paesi europei delle opere pubbliche (TAV, strade ed autostrade). Ha aggiunto che con questi costi non possiamo nè risanare la finanza pubblica né tantomeno, far crescere l’economia del Paese. Al netto degli aspetti ambientali relativi al consumo di suolo agricolo e di quelli trasportistici, serve davvero questa autostrada? Un dibattito andrebbe aperto sul tema dei costi, dei tempi di realizzazione e dei meccanismi di finanziamento. Il meccanismo nostrano di project financing adottato, ha fatto si che il closing finanziario avvenisse solo praticamente ad opera quasi conclusa. I dubbi e le perplessità sull’effettivo rientro dei capitali investiti attraverso il pedaggio nei tempi di durata della concessione, 20 anni, sono emersi sempre di più cammin facendo.

Sono marginalmente azionisti e sostenitori del progetto gli Enti locali delle 4 provincie interessate dal tracciato Milano, Bergamo, Cremona e Brescia, e le rispettive Camere di Commercio, ma maggiormente Banca Intesa, e altri gestori autostradali come la Centropadane, la Serenissima, la Serravalle e Gavio. L’assetto societario si è nel tempo modificato ed ora il controllo è di fatto passato in mano a Banca Intesa e Gavio (gestore autostradale e costruttore). Tra la crisi di liquidità di questi anni, lo spead e le indagini della magistratura, che ha bloccato tre cantieri per alcuni mesi dopo aver ritrovato rifiuti tossici seppelliti sotto l’asfalto, l’opera sta per essere conclusa. Nel frattempo le banche, “costrette” dalla politica ad affermare che l’investimento si sarebbe rivelato redditizio e ad intervenire, si sono fatte carico dei prestiti, garantendosi dal rischio prendendo inpegno tutte le azioni di Brebemi. Strada facendo, Brebemi ha rilevato anche la Tem (Tangenziale Est Milanese). Operazione avvenuta dopo il ritiro della Serravalle (pubblica) dall’azionariato di controllo di Tem, ma successiva al finanziamento a fondo perduto di 360 milioni da parte dello Stato che è andato “direttamente “ in soccorso alla TEM. A questo punto ne hanno beneficiato i soci privati di Tem (ancora Intesa e Gavio), controllati da Brebemi. La TEM è strategica perchè dovrebbe assicurare l’accesso della Brebemi alla tangenziale di Milano, attraverso la riqualificazione della Cassanese e della Rivoltana.

Va ricordato che a metterci una pezza per lo start-up di Brebemi, ci sono volute le FS (soldi pubblici) che hanno anticipato il versamento di 175 milioni visto che il progetto Tav, Treviglio-Brescia corre per un tratto parallelo alla Brebemi. Sul successso dell’opera nessuno scommette a partire dal mercato. Nessun petroliere si è presentato alla gara per l’assegnazione delle stazioni di rifornimento di carburante nelle due aree di servizio di Chiari e di Caravaggio. I dubbi sul successo dei volumi di traffico veicolare della Brebemi partono da qui.

E’ cosa vecchia andare d’accordo con la mafia

GENCO-RUSSO-2Giusto qualche settimana fa, ripensando ai vari Dell’Utri, Cosentino e gli altri compari belli candidati impunemente in politica nonostante una compromessa storia personale, ripensavo al silenzio intorno al boss Giuseppe Genco Russo e giusto oggi incappo in un articolo interessante e ben fatto di Rey Brambilla:

Era terribilmente a disagio durante la tribuna politica del 1960, quando un giornalista gli chiese i motivi per cui il suo partito avesse candidato un boss mafioso nelle liste siciliane.
Non si sta parlando di Silvio Berlusconi e “Forza Italia”, ma di Aldo Moro e la “Democrazia Cristiana”: il partito dello scudo crociato aveva candidato Giuseppe Genco Russo, riconosciuto super boss mafioso, nel seggio di Mussomeli (Caltanisetta), promuovendolo a consigliere.
L’opinione pubblica italiana si stupisce per la presenza in parlamento di Luigi Cesaro (politico dai risaputi legami con la camorra) e di altri politici indagati per mafia: episodi inquietanti ma riguardanti uomini collusi con la mafia e non dei boss come Giuseppe Genco Russo.
Altrettanto umiliante è individuare la figura del boss e riflettere come un personaggio simile possa aver rappresentato le istituzioni: un uomo rude, grasso, volgare e fiero di esibire le più bieche abitudini contadine (sputare per terra, esibire scarpe sporche, essere sgrammaticati) ma nello stesso tempo egocentrico (al punto di essere ribattezzato “la Lollobrigida” dagli stessi criminali, per un’attitudine a farsi fotografare).

Perché la Democrazia Cristiana incappò in uno scandalo di tale portata?

Il resto è qui.

A Chiaiano camorra, massoneria e Stato si fanno discarica

Camorra, massoneria, pezzi deviati dello Stato e della cosiddetta buona società. C’è tutto questo dietro la realizzazione della discarica che, stando agli annunci dell’allora presidente del consiglio Silvio Berlusconi e dell’ex capo della protezione civile Guido Bertolaso, sarebbe stata una delle principali mosse per uscire definitivamente dall’emergenza rifiuti in Campania.

Parliamo della discarica di Chiaiano, a nord di Napoli, uno sversatoio la cui apertura ha mobilitato migliaia di persone, attivisti, associazioni, famiglie. Dalle indagini condotte dai carabinieri del Noe di Napoli coordinati dai pm della dda Antonello Ardituro e Marco del Gaudio, emerge uno scenario che appare trasversale e che mette in fila clan, pubblica amministrazione, professionisti insospettabili e anche la massoneria. Dagli atti dell’indagine emergono filmati che mostriamo nella videoinchiesta, e che documentano come gli argini della discarica venissero realizzati utilizzando terreno e rifiuti e fossero quindi assolutamente inadatti a contenere il percolato. Camion prelevavano scarti e immondizia da cantieri stradali, li stoccavano in un area per poi trasferirli a Chiaiano. Volendo semplificare i rifiuti avrebbero dovuto contenere e arginare altri rifiuti.

L’assenza di argilla

«La nostra indagine – spiega il comandante del Noe Paolo di Napoli – ha messo in risalto il mancato utilizzo dell’argilla nella costruzione degli argini della discarica. L’argilla avrebbe garantito l’impermeabilizzazione della discarica. Miscelare il tutto con terreno e rifiuti significava minare la tenuta del percolato. L’attività degli indagati consentiva perciò un doppio guadagno: da un lato i rifiuti provenienti dai cantieri stradali non venivano sottoposti a trattamento e poi i rifiuti stessi venivano venduti alla pubblica amministrazione come terreno vegetale o materiale argilloso per fare gli argini della discarica. Da un lato abbiamo una truffa ai danni della pubblica amministrazione, dall’altra abbiamo delle false certificazioni fatte dagli stessi funzionari pubblici che avevano attestato la corretta esecuzione dei lavori».

I casalesi e gli insospettabili

Nell’inchiesta spuntano figure assolutamente insospettabili come un ufficiale di polizia giudiziaria della DIA, nominato anche consulente della commissione parlamentare sui rifiuti e un professionista consulente di molti magistrati della dda e paradossalmente, uno dei consulenti nell’indagine sulla discarica romana di Malagrotta insieme con il perito che si è occupato (questa volta da solo) di redigere una consulenza tecnica approfondita, scrupolosa e importante per le indagini proprio sulla discarica di Chiaiano. Al centro dell’inchiesta un imprenditore, Giuseppe Carandente Tartaglia e la sua società, la Edilcar. Secondo le indagini CarandenteTartaglia, originariamente legato a personaggi di vertice dei clan Nuvoletta, Mallardo e successivamente anche del Polverino, era riuscito ad intrecciare rapporti anche con la cosca casalese capeggiata da Michele e Pasquale Zagaria. Per quest’ultimo clan in particolare, Carandente Tartaglia prestava un rilevante contributo organizzativo come imprenditore operante nello strategico settore della gestione del ciclo legale ed illegale dei rifiuti, controllato dal clan dei casalesi e dalla famiglia Zagaria. In questo modo i casalesi potevano partecipare alle attività imprenditoriali del settore attraverso le sue aziende. E così proponeva ed acquisiva commesse ed appalti rivelandosi capace, anche attraverso i necessari contatti istituzionali, di affrontare e risolvere i momenti di emergenza succedutisi nel tempo in Campania.

«Complessa vicenda imprenditoriale e criminale»

Scrivono i pm Ardituro e Del Gaudio nella richiesta di misura cautelare: «Giuseppe Carandente Tartaglia, o se si vuole la sua azienda, la Edilcar hanno saputo governare la complessa vicenda imprenditoriale e criminale della quale è parte anche la realizzazione e la gestione della discarica di Chiaiano coordinando gli interventi pubblici e dell’imprenditoria privata per l’utile proprio e della criminalità organizzata». Per i magistrati gli imprenditori facenti capo alla famiglia Carandente Tartaglia ebbero di fatto un ruolo centrale nella costruzione della discarica di Chiaiano, individuata nel 2008 come sito necessario per tamponare la persistente emergenza rifiuti verificatasi nei mesi precedenti.

«La questione rifiuti: il tesoretto di parte della politica»

Eppure già nel 2008 un funzionario della prefettura Salvatore Carli, più volte negli anni intimidito per le sue battaglie anticamorra, aveva inviato una relazione sulle cointeressenze della criminalità organizzata nella Edilcar all’allora prefetto di Napoli Alessandro Pansa, anche se poi nel 2009, nel corso di una riunione del GIA (gruppo interforze antimafia del quale Carli faceva parte ma che in quella occasione non era presente) fu rilasciata una informativa antimafia liberatoria proprio a favore dell’impresa di Carandente Tartaglia. Per gli inquirenti, gli imprenditori Carandente Tartaglia sono stati nel tempo protagonisti di un rilevante intreccio di interessi che ha visto convergere le aspettative della criminalità organizzata e l’appetito di numerosi soggetti, anche istituzionali. La questione rifiuti in Campania – scrivono ancora i pm – è una vicenda «che si fa fatica a definire realmente dettata dall’emergenza a meno di non snaturare la nozione medesima del termine, poiché è evidente che non può essere qualificata tale una vicenda che ha impegnato gli ultimi vent’anni della vita istituzionale, non solo locale, e degli interessi dei cittadini. Resta il fatto che la questione rifiuti ha rappresentato il tesoretto, anche elettorale, di una parte della classe politica regionale, la cassaforte della camorra ed in particolare dei capi del clan dei casalesi, oltre che la fortuna di alcuni selezionati (dalla politica e dalla camorra) imprenditori del settore».

Le intercettazioni

Sconcertano alcune intercettazioni che sembrano evidenziare che i titolari della Edilcar sapessero con anticipo che avrebbero ottenuto l’appalto. Infatti, un componente della famiglia di imprenditori dei rifiuti, Mario Carandente Tartaglia viene intercettato mentre insiste con gli altri interessati affinché accettino l’esproprio dei terreni nella zona: «Vi sarà un guadagno economico per tutti e principalmente per la nostra ditta che prenderà l’appalto che le consentirà di lavorare per molti anni». Concetto che questa stessa persona ribadisce anche alla sorella Elena, detta Pupetta: «Pupè, bello chiaro chiaro… quello lo ha preso l’impresa nostra».

La massoneria

L’indagine parte dall’aspetto relativo ai collegamenti con la criminalità organizzata ma da qui si è aperto uno scenario ulteriore e inaspettato: collegamenti con soggetti appartenenti alla massoneria utilizzata sia per superare fasi di stallo dei pagamenti per lo stato di avanzamento dei lavori della discarica sia per poter ottenere altre commesse. Un pentito, Roberto Perrone, riferisce ai magistrati di essere in possesso di informazioni su Carandente Tartaglia e sui suoi rapporti con i Polverino, anticipando anche i rapporti istituzionali e di natura massonica. Si tratta di componenti della loggia della Losanna, una delle più antiche fra le 20 logge del Grande Oriente d’Italia. La affiliazione a questa loggia secondo gli inquirenti, giustifica una fittissima rete di conoscenze distribuite a diversi livelli nei settori e apparati della vita pubblica, fra soggetti legati strettamente al dovere di obbedienza ed al vincolo della fratellanza. Uno dei personaggi frequentati da Carandente Tartaglia, ricopriva nella Losanna, la carica di secondo sorvegliante, figura che insieme con il primo sorvegliante e il “maestro venerabile” compone il “consiglio delle tre luci”, una sorta di organo direttivo della Loggia. Non è la prima volta che la massoneria entra in una indagine su camorra e rifiuti: infatti in passato erano emersi rapporti tra Gaetano Cerci e Cipriano Chianese, imprenditori ritenuti fedelissimi del boss casalese Francesco Bidognetti e Licio Gelli. Il contatto serviva a garantire il trasporto e l’interramento di rifiuti tossici provenienti dalle industrie del centro-nord Italia in provincia di Caserta, attraverso l’impresa Ecologia 89.

L’amarezza degli attivisti

Questi intrecci di malaffare e queste storie di ormai abituale scempio ambientale lasciano una ferita aperta tra gli attivisti napoletani: «Noi eravamo visti come i criminali – spiega Palma Fioretti, attivista della Rete Commons – come le donne della camorra che venivano schierate dagli uomini a protezione loro. Bertolaso disse che la discarica di Chiaiano sarebbe stata un esempio virtuoso per tutta l’Europa, uno degli impianti più efficienti. Molti di noi sono stati indagati per le nostra attività contro la discarica. Eravamo visti come i trogloditi che non capivano che questa era una risoluzione definitiva al problema dei rifiuti in Campania».

(corriere.it, 26 agosto 2014)

A proposito di mafia e slot

Un articolo da leggere de Il Fatto Quotidiano:

Lo Stato gli chiede 820 milioni di euro per danno erariale, loro rispondono facendo causa ad Alfano e pretendendo dal Ministero degli Interni un risarcimento colossale: 530 milioni di euro. Già che ci sono, fanno pubblicare un’ordinanza vecchia di tre anni che è l’ultimo azzardo in casa Corallo, i re delle slot machine: il tentativo di influenzare per via mediatica i giudici che a giorni scriveranno il destino della loro Bplus, la più grande concessionaria di giochi in Italia, ormai arrivata alla bocca dell’imbuto giudiziario-amministrativo in cui è finita da tre anni collezionando un’interdittiva antimafia, l’obbligo di cessione delle azioni e il successivo commissariamento per mancato adeguamento a quell’obbligo. E’ l’ultimo colpo di scena in una battaglia legale senza esclusione di colpi, che contrappone lo Stato concedente alla società concessionaria e ora viaggia spedita verso un’epilogo quanto mai incerto. In ballo, centinaia di milioni di euro che potrebbero dare un po’ di sollievo al governo Renzi.

Fatto sta che su Repubblica tre giorni fa è apparso, con grande evidenza, un estratto che ha fatto alzare il sopracciglio ai lettori più attenti. Riporta parte di un’ordinanza con la quale il Tribunale di Roma ordina al Ministero degli Interni di rimuovere dal suo sito un passaggio di una relazione nella quale la Dia ipotizza una contiguità sospetta tra i fratelli Carmelo eFrancesco Corallo – figli di Gaetano, personaggio noto alle cronache giudiziarie, tra l’altro, per i suoi affari con il boss Nitto Santapaola – e la mafia. Privo di una data, l’avviso induce a pensare a una decisione a favore dei Corallo recentissima, anzi “urgente”, come si legge nel testo. Ma non è affatto così. Quell’estratto risale a settembre del 2011 e nessun giudice, a tre anni di distanza, ne ha disposto la ri-pubblicazione. Due le ipotesi: o è quella vecchia, già pubblicata, oppure (ed è pure peggio) è stata tenuta in un cassetto per poterla utilizzare al momento più opportuno, due giorni prima dell’udienza per il commissariamento di Bplus.

La brutta aria di ‘ndrangheta e politica dalle parti di Lecco

Finalmente a processo:

La Procura di Milano ha chiesto il processo con rito immediato per 10 persone, tra cui il presunto boss Mario Trovato, fratello dello storico ‘patriarca’ della ‘ndrangheta lombarda Franco Coco Trovato, l’ex consigliere comunale di Lecco, Ernesto Palermo, e l’ex sindaco di Valmadrera (Lecco), Marco Rusconi. Tutte persone arrestate lo scorso aprile in un’inchiesta che ha fatto emergere presunti contatti tra la mafia calabrese e rappresentanti delle istituzioni nella zona del Lago di Como.

Nell’ambito delle indagini, coordinate dai pm Claudio Gittardi e Bruna Albertini e condotte dal Nucleo di polizia tributaria e dal Gico della Gdf, lo scorso 2 aprile erano finiti in carcere, tra gli altri, l’allora consigliere comunale e l’allora sindaco. Il primo, Ernesto Palermo, eletto con il Pd e poi dal 2011 passato al gruppo misto, è accusato non solo di corruzione e turbativa d’asta, ma anche di estorsione e associazione mafiosa. Palermo, infatti, secondo l’accusa, faceva parte della cosca dei Trovato ed era uno degli “uomini nuovi” del clan e ne curava gli “interessi” nell’ambito dei suoi rapporti con altri “esponenti politici” e della pubblica amministrazione. E si sarebbe adoperato direttamente per far ottenere al clan la concessione dell’area comunale ‘Lido di Paré’ sul lago di Como, già oggetto in passato di una serie di attentati incendiari.

Per l’acquisizione della concessione, che doveva essere effettuata da una società dei Trovato in cui aveva investito anche Palermo, secondo l’inchiesta, sarebbe arrivata una mazzetta da 5 mila euro all’allora sindaco di Valmadrera, Rusconi (eletto con una lista civica appoggiata dal Pd), arrestato per corruzione e turbativa d’asta e molto attivo, prima di finire in carcere, in iniziative antimafia sul territorio. Ora la parola passa al gip di Milano Alfonsa Maria Ferraro che dovrà decidere se accogliere o meno l’istanza della Procura.

(Ansa)

L’uomo ha bisogno di simboli. I tanti perché di una piazza dedicata ad Enzo Baldoni

Da Articolo 21:

“Mi riempe di gioia la petizione lanciata da Articolo21 affinché il Comune di Milano intitoli una piazza a Enzo Baldoni”, dice oggi Giusi Bonsignore, vedova del giornalista ucciso nel 2004 in Iraq. “Ringrazio i promotori dell’iniziativa e quanti parteciperanno apponendovi la loro firma”, continua, sperando di “avere presto un riscontro da parte delle istituzioni”. Una piazza, una via, oppure semplicemente un giardino, che ha iter amministrativi meno complessi, in nome di Enzo. Un modo per riannodare fatti e verità.

Così come è accaduto per il giardino pubblico dedicato a Lea Garofalo dalla città di Milano, in via Montello. Ci costringe a sbattere continuamente contro il ricordo di Lea, uccisa per avere avuto il coraggio di testimoniare – al Nord, per la prima volta – contro la ‘ndrangheta. Assume un enorme significato per la città, quello spicchio di verde intitolato a lei, a pochi metri da dove la testimone di giustizia fu prelevata, torturata e poi strangolata dall’ex compagno, boss del clan Cosco, infine fatta a pezzi per poter bruciare meglio i suoi resti.
Sarebbe doveroso per questa città – che ha ripreso la tradizione civile di dare memoria – ricordare allo stesso modo Enzo Baldoni, a dieci anni dalla sua morte, in un momento geopolitico così complesso, in cui trovare verità, mai come ora, richiede presenza, occhi puliti, scevri da condizionamenti ideologici.Esattamente i motivi per cui Baldoni è stato ammazzato. Enzo ha dato la vita per raccontare, per testimoniare la realtà fuori da ogni ideologia, lontano da estremismi di sorta e contro ogni oscurantismo. Morto dopo aver portato acqua e cibo nella città assediata di Najaf.
Firmare la petizione lanciata da Articolo21 sulla piattaforma di Change.org significa, per tutti, non perdere ciò che ha rappresentato quest’uomo curioso, fuori dalle corporazioni, dalle logiche di parte; un uomo libero che voleva andare oltre l’informazione di regime, credeva che si dovesse prima vedere per poi poter capire e raccontare. Un uomo non amato da chi riteneva che quella guerra fosse necessaria, così come dai Signori del terrore che lo hanno ammazzato.
Evitare il silenzio, cercare i fatti che in questi anni sono stati avvolti dall’ambiguità. In un’intervista a Repubblica la vedova di Baldoni ha raccontato risvolti finora sconosciuti; di come, dopo lo scoppio della mina sotto l’auto di Enzo, nessun convoglio della Croce Rossa si fermò a raccogliere lui e il suo interprete iracheno Ghareeb. “Furono abbandonati”, dice a distanza di un decennio. Per la vedova Baldoni, Maurizio Scelli, allora commissario straordinario per la Croce Rossa, “diffuse notizie false, dicendo che Enzo andava in giro alla ricerca di interviste impossibili. Tacere a noi dell’esplosione della mina fu un’omissione molto grave”. Gianni Barbacetto su Il Fatto Quotidiano in questi giorni ha ricostruito gli eventi, riportando le parole che lo stesso Scelli affidò all’Ansa dal Meeting di Rimini, tre giorni dopo il rapimento, quando già il corpo di Ghareeb era stato ritrovato: “Il fatto che non ci fosse il corpo di Baldoni, induce a pensare che Baldoni sia da un’altra parte. Auguriamoci che sia in giro a fare quegli scoop che tanto ama” (Ansa, 23 agosto, ore 17,37).
Oggi l’ex commissario della Protezione Civile minaccia querela per l’affermazione di Giusi Bonsignore, che, sempre nell’intervista a Repubblica, rimarca come Enzo non ricevette il sostegno che, invece, in Francia, fu dato a Chesnot e Malbrunot, giornalisti sequestrati in contemporanea e poi rilasciati. Afferma che a “contribuire ad armare la mano dei suoi assassini è stata la denigrazione e lo scherno di giornali come Libero. Impossibile dimenticare, durante la prigionia di Enzo – continua – la ferocia di due articoli di Vittorio Feltri e Renato Farina, intitolati ‘Vacanze intelligenti’ e ‘Il pacifista col kalashnikov’”.
“Più che memoria, la piazza dedicata a Enzo mi sembrerebbe un ripristino”, dice Giulio Cavalli, scrittore, attore, ex consigliere comunale in Lombardia, diversi anni passati sotto scorta per il suo impegno contro le mafie, e che da tempo tempo lavora con il figlio di Enzo, Guido Baldoni. “Condivido l’iniziativa – dice – perché non credo che questo paese possa permettersi di svendere una delle menti più raffinate del mondo pubblicitario italiano e del giornalismo del Terzo Settore come un ‘turista per caso’; quindi, una via, oppure una piazza, sarebbe un bel segno col pennarello rosso sulle bugie che mi sembra non si sia ancora smesso di costruire su di lui”.
Oggi è un dovere civile cercare di riempiere i vuoti lasciati. Così come accade nel giardino di Lea: lì, è come se Milano risorgesse, in un luogo che è stato di mafia e di morte e che oggi invece è diventato simbolo di legalità. Quel frammento di verde, strappato alla speculazione e all’ennesimo progetto di parcheggio in città voluto dalla giunta Albertini, anche grazie a Libera di don Ciotti, è diventato bene comune. Qui gli abitanti del quartiere – designer, architetti, insegnanti, cuochi – progettano le semine per l’orto, curano gli alberi, aprono e chiudono il cancello, organizzano eventi. “Lea, qui, vive”, ci raccontano sotto il cartello con la foto di lei e le parole “Vedo, sento, parlo”.
“L’homme y passe à travers des forêts de symboles”, scriveva Baudelaire. E continuiamo ad aver bisogno di simboli, di luoghi della memoria. Abbiamo bisogno di dare un senso ai vuoti. Abbiamo bisogno, ogni giorno, di sbattere contro quel che è stato – e deve continuare a essere – Enzo Baldoni: il coraggio di testimoniare, al di là degli steccati, delle parti politiche, delle lobby di potere, sempre.

31 agosto 2014