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Giulio Cavalli

Un Paese senza opinione pubblica

Lo scrive Mantellini e c’è da esserci d’accordo:

Come è evidente a chiunque si allontani un istante dal proprio oggetto d’amore (l’Italia sole-amore-fratellanza, il paese piu’ bello del mondo, la culla di mille civiltà e blablabla) l’opinione pubblica, quella specie di contrappeso democratico che garantisce gli equilibri fra le varie parti della società, in Italia non esiste. Non dico che non conti, non esiste proprio, se non nel fantoccio comunicativo utile alle forze in campo per legittimare sé stesse.

Una vergogna trasformata in fierezza nazionale

Ripensando, ieri, alle immagini ed al fragore intorno alla Costa Concordia ho pensato di essere un barboso pessimista poiché trovavo stonato questo clamore per un relitto che si porta dietro così tanti morti e feriti. Oggi va meglio, non sono pazzo, perché anche Francesco Merlo (su Repubblica, eh!) mette per iscritto un giudizio simile:

Non si era mai vista una vergogna trasformata in fierezza nazionale. La carcassa del Comando Marinaro Italiano è stata esibita come una bandiera. E il colore della ruggine e i residui d’olio esausto erano spacciati per polvere di stelle. Nel bel mezzogiorno genovese di ieri l’Italia si è inchinata — il contrappasso dell’inchino! — dinanzi alla rovina della sua secolare Storia Navale.

Lo smantellamento della carcassa, che da sempre è la forma di sopravvivenza degli accattoni di tutto il mondo, frutterà infatti al consorzio Saipem e San Giorgio del Porto 100 milioni di euro, 2 mila lavoratori per 22 mesi di divoramento: soldi, soldi, soldi, i maledetti soldi della disgrazia; le estreme, illusorie fortune della sventura.

Ecco perché non sembrava, quella del presidente del consiglio Matteo Renzi sul molo di Genova, la visita allo scheletro di una nazione, ma aveva invece il tono della passeggiata allegra, dell’autopromozione: l’industria, la scuola, l’ingegneria italiana… E sempre dicendo di non voler fare passerella, Renzi finiva col farla.

E va bene che queste sono le comprensibili leggi della politica-spettacolo, ma qui la rottamazione non è più metafora. Sempre premettendo che «non è un giorno lieto e nessuno mette le bandiere per festeggiare», l’evidente gioia di Renzi era fuori luogo, e le pacche sulle spalle, gli abbracci, i sorrisoni e gli scherzi, «ragazzi, siete peggio che in Parlamento», erano quelli delle Grandi Opere, ma da costruire e non da demolire; delle Industrie che nascono e non di quelle che muoiono, dell’inizio e non della fine (anche) di una retorica.

Dunque un niente.

Nel cuore del mattino Ciro Pellegrino mi permette di scoprire una lettera di Franco Fortini che è il testamento di un’epoca, forse molto più ripetibile di ciò che si potesse temere.

Cari amici, non sempre chiari compagni; cari avversari, non invisibili agenti e spie; non chiari ma visibili nemici. Sapete chi sono. Non sono mai stato né volteriano né liberista di fresca convinzione. Spero di non dover mai stringere la mano né a Sgarbi né a Ferrara né ai loro equivalenti oggi esistenti anche nelle file dei “progressisti”. Non l’ ho fatto per mezzo secolo. Perché dovrei farlo ora? Nessuna “unità” anni Trenta. Meglio la destra della Pivetti.
Ognuno preghi i propri santi e dibatta con gli altrui. Tommaso d’ Aquino, Marx, Pareto, Weber, Croce e Gramsci mi hanno insegnato che la libertà di espressione del pensiero, sempre politica, è sempre stata all’interno della cultura dominante anche quando la combatteva. Tutt’intorno ai suoi confini, però, c’erano, lungo i secoli, miliardi di analfabeti, inquisizioni mistiche o, a scelta, grassi doberman accademici, reparti speciali di provocatori incaricati di picchiare i tipografi e distruggere i manoscritti.
Ci sono manuali per l’uso della calunnia nel management della comunicazione, lupare bianche, colpi alla nuca; o, nel più soave e incruento dei casi, la damnatio memoriae, il nome omesso o deformato, la associazione indiretta con qualche notorio cialtrone.
Ma ci sono momenti in cui il solo modo serio di dire “noi” è dire “io”. La prima persona, quel qualcosa che viene dopo la firma. Questo è uno di quei momenti.
Bisogna spingere la coscienza agli estremi. Dove, se c’è, c’è ancora per poco. Quando non si spinge la coscienza agli estremi, gli estremismi inutili si mangiano lucidità e coscienza.
Chi finge di non vedere il ben coltivato degrado di qualità informativa, di grammatica e persino di tecnica giornalistica nella stampa e sui video, è complice di quelli che lo sanno, gemono e vi si lasciano dirigere. Come lo fu nel 1922 e nel 1925.
Non fascismo. Ma oscura voglia, e disperata, di dimissione e servitù; che è cosa diversa. Sono vecchio abbastanza per ricordare come tanti padri scendevano a patti, allora, in attesa che fossero tutti i padri a ingannare tutti i figli. Cerchiamo almeno di diminuire la quota degli ingannati. Ripuliamo la sintassi e le meningi. Non scriviamo un articolo al giorno ma impariamo a ripeterci, contro la audience e i contratti pubblicitari. Diamo esempi di “cattiveria” anche a quei lavoratori che dai loro capi vengono illusi di battersi attraverso le strade con antichi striscioni e poi, nel buio della Tv, ridono alle battute dei pagliaccetti di Berlusconi.
Lungo canali di storica vigliaccheria mascherata di bello spirito i colleghi della comunicazione stanno giorno dopo giorno cambiando o lasciando cambiare i connotati dei quotidiani; in attesa che se ne vadano quei pochissimi direttori che non hanno già concordato o “conciliato”.
Quanto a me, solo l’ età mi scampa dal dovermi dimettere. Mai come oggi, credo, il massimo della flessibilità tattica del politico vero dovrebbe andar d’accordo con la rigidità delle scelte di fondo. Un modesto zapping basta a capire che è inutile declamare estremisticamente, come ora sto purtroppo facendo.
Bisogna dire di no; ma c’è qualcosa di più difficile e sto cercando di farlo: dire di sì in modo da non nascondere il “no” di fondo; se si crede di averlo e saperlo.
Pagare di persona, secondo le regole del finto mercato che fingiamo di accettare: ossia dimettersi o costringere altrui alle dimissioni, ritirare o apporre le firme e le qualifiche e il proprio passato, affrontare sulla soglia di casa o di redazione le bastonature fisiche o morali già in scadenza.
Anni fa scrissi, enfaticamente, che il luogo del prossimo scontro sarebbero state le redazioni. Quel momento è venuto, il luogo è questo.
Chi tiene famiglia, esca. Chi ha figli sappia che un giorno essi guarderanno con rispetto o con odio alle sue scelte di oggi.
Scade il primo semestre di chi ha preso il potere, come tanti altri, legalmente, coi voti di un terzo degli elettori, ossia giocando con la manovra della informazione e la debilità culturale ed economica di tanti nostri connazionali e, perché no, con la nostra medesima.
Cari amici, non sempre chiari compagni; cari avversari, non sempre invisibili agenti e spie; non chiari ma visibilissimi nemici, vi saluta un intellettuale, un letterato, dunque un niente. Dimenticatelo se potete.
Franco Fortini
Milano, 5 novembre 1994

Quotidiani intelligenti

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Che razza di pubblicitario è, quello che rivendica un’anima civile? Che creatura assurda, ridicola è mai? Può forse esisterne uno che si appassioni al giusto e all’ingiusto, che si immerga nei conflitti, che dissentendo dai correnti modelli di comunicazione cerchi di coltivarne altri?

Un’ostilità proveniente dalle fondamenta, che oggi fa guardare a quegli articoli come all’autentico epicentro del ventennio berlusconiano, la più plastica espressione di una cultura. In fondo, furono il b side degli attacchi a Biagi e agli altri dissenzienti mediatici nel 2002. Quello era stato fattuale, perché ognuno si adeguasse. Questo era culturale, a presidio del proprio nucleo fondante: la comunicazione come contrasto al vero.

In questa loro dimensione senza uscita, vivere nel libero mercato vuol dire sposarne ogni perversità, rinunciare a ogni pretesa di giustizia, al senso stesso del riformismo. All’opposto, Enzo Baldoni, con modi forse impraticabili per la maggioranza di noi, incarnava una figura di creativo “industriale”, novecentesco, fatta di pura attitudine. Ricercatore empirico di nessi, divertito e coinvolto, venne attaccato da quelle parole mentre dava al suo mestiere il connotato più bello, che è la curiosità del mondo.

A proposito di muscolo della curiosità e del muscolosissimo Enzo Baldoni.
(L’articolo intero è qui.)

Addirittura il New York Times

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Il dibattito sulle droghe leggere in Italia si accende ad intervalli regolari per portare sistematicamente al nulla di fatto. Il gioco è sempre lo stesso: creare allarme sociale per spostare la discussione sul piano della sicurezza personale e quindi andare diritti alle pance senza dibattito scientifico e politico. Ora che il NY Times prende posizione (in un gradevolissimo modo senza sconti e senza tentennamenti) almeno sarà più difficile fare finta di niente:

Gli Stati Uniti ci misero tredici anni per riacquistare il senno e abolire il proibizionismo, 13 anni in cui la gente continuò a bere, e in cui viceversa cittadini rispettosi della legge divennero dei fuorilegge e organizzazioni criminali nacquero e prosperarono. Sono passati più di quarant’anni da quando il Congresso ha vietato la marijuana, infliggendo un danno alla società per aver proibito una sostanza molto meno dannosa dell’alcool. Il governo federale deve abrogare il divieto di vendere e consumare marijuana.
(…)
C’è un onesto dibattito nel mondo scientifico riguardo gli effetti sulla salute della marijuana, ma noi crediamo che ci sia una grandissima quantità di prove che dimostrano che la dipendenza da essa sia un problema minore, rispetto soprattutto a quella che causano alcool e tabacco. Un utilizzo moderato della marijuana non costituisce un rischio per una persona adulta sana. Le affermazioni secondo le quali la marijuana sarebbe una droga di passaggio verso l’assunzione di sostanze più pericolose è tanto fantasiosa quanto le immagini di omicidio, stupro e suicidio contenute nel film Reefer Madness [una specie di film di propaganda del 1936 contro il consumo di marijuana].
(…)
Creare sistemi per regolare la produzione, la vendita e la promozione del prodotto sarà complesso. Ma si tratta di problemi risolvibili, e sarebbero già stati trattati da tempo se come nazione non avessimo deciso di arroccarci sulla criminalizzazione della produzione e del consumo della marijuana.

La schiena diritta

Devo ammettere di avere sempre stimato Felice Casson come magistrato e devo ammettere che la criminalizzazione dell’opposizione alle riforme così come la vedo in questo momento mi appare come un punto bassissimo di cultura della politica e della democrazia. Per questo vale la pena non farsi sfuggire l’intervista di oggi dello stesso Casson sulle riforme:

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La scuola e i modelli educativi

Allo stato attuale, il sistema educativo è lontano dal raggiungimento dei suoi obiettivi fondamentali. È sul piano della mobilità sociale che i risultati sono più desolanti: come già notato dai sociologi degli anni Settanta (Boudon analizza ampiamente la questione) e come confermato da uno studio della London School of Economics nel 2005[6], e poi naturalmente dal lavoro ormai celebre di Thomas Piketty sul Capitale al XXI secolo, le società occidentali hanno smesso di fare progressi in questo senso malgrado l’aumento complessivo della media degli anni studio[7]. Certo, le statistiche mostrano ovunque che la media del reddito individuale aumenta con il numero di anni di studio[8], anche se talvolta seguendo una curva a U[9] che penalizza i risultati intermedi. Generalmente, nella maggior parte dei paesi occidentali studiare resta vantaggioso per chi può permetterselo. Tuttavia il dato in sé segnala semplicemente che il mercato del lavoro usa l’educazione come criterio di selezione (o di «signalling») entro una determinata popolazione, e non che i diplomi producono nuovi posti di lavoro o che incidono positivamente sulla distribuzione ineguale della ricchezza. Il meccanismo di selezione è un gioco a somma a zero e la competizione formativa è una specie di costosissima «conta» per allocare il capitale umano.

Ribadiamo il concetto, semplicissimo eppure evidentemente difficile da assimilare se non si dispone di un minimo di senso logico: il fatto che esista una correlazione tra livello di educazione e reddito individuale non implica in nessun modo che debba esserci, globalmente, un’influenza dell’educazione sulla crescita economica. Illustriamo questo paradosso con un esempio: se un’ipotetica società ripartisce la ricchezza in funzione dei risultati a una corsa, il più veloce avrà un guadagno superiore a quello del più lento. Ma questo non implica che correndo si sia creata della ricchezza, né che correndo tutti più veloce si possa influire sulla ricchezza complessiva. Senza dubbio bisogna tenere in considerazione anche gli effetti dell’educazione sulla produttività e gli effetti della produttività sulla crescita, ma questi effetti possono essere sia positivi che negativi. In effetti l’investimento eccessivo o male allocato produce cali di produttività o addirittura fenomeni di «controproduttività» (il concetto è di Illich), come mostra anche il fatto che il mercato del lavoro sanziona la forza-lavoro sovraistruita — una popolazione caratterizzata da elevati tassi d’insoddisfazione, assenteismo, sabotaggio industriale e uso di droghe![10] Anche in questo caso, il problema sta tutto in quella curva a U che sanziona chi fallisce in maniera più severa di chi non partecipa.

Un articolo importante sulla scuola. Da leggere tutto qui.

Buon lavoro

Buon lavoro a Luciano Argano (presidente), Oliviero Ponte di Pino, Roberta Ferraresi, Ilaria Fabbri, Massimo Cecconi: sono i membri della commissione consultiva per il teatro che affiancheranno il lavoro del ministro alla Cultura nella decisione dei finanziamenti in un momento molto importante per il teatro, quello del traghettamento dal vecchio al nuovo sistema decretato dalla riforma che entrerà in vigore a gennaio 2015.