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Giulio Cavalli

“Kamala nemica della fede”: Trump accende la miccia del fanatismo religioso

Donald Trump, in piedi al National Faith Summit, si lascia andare a promesse di fede e salvezza, come un pastore infervorato. Vuole un “ufficio della fede” dentro la Casa Bianca, un cuore spirituale pulsante accanto alla scrivania più potente d’America. Trump parla di un’America sotto attacco, di cattolici perseguitati, e Kamala Harris diventa, nelle sue parole, una nemica della religione, una figura da cui guardarsi. Da lì a chiamarla “fascista” è un passo breve. 

Trump e la fede come arma politica

Ma la campagna non si gioca solo sul palcoscenico elettorale. In un silenzio che sa di resa, lo storico Washington Post annuncia che non sosterrà alcun candidato. Più di duecentomila abbonati se ne vanno, e la testata si trova a riflettere sul prezzo della neutralità. Per qualcuno è una fuga, un atto di codardia, un tradimento dell’ultimo baluardo democratico. E così, in una manciata di giorni, un quotidiano secolare si trova a brancolare nel buio, come chi perde la strada proprio alla vigilia della tempesta.

Trump, intanto, continua a marciare a colpi di retorica aspra. Evoca complotti, diffonde paure, dipinge un Paese invaso e conquistato da nemici senza volto, uomini “assetati di sangue” da cui promette di salvare le donne d’America. E mentre Harris si rivolge ai giovani del Michigan, cercando di invocarne l’energia e la voglia di cambiare, lui si pone come unico scudo contro i pericoli che minacciano una patria “da salvare”: un messaggio ardito che si traduce in promesse di legge marziale, frontiere di ferro e muri più alti. Il suo sguardo si fa cupo quando parla dell’immigrazione, della pena di morte per chi viola il suolo americano e tra il pubblico qualcuno applaude come si applaudirebbe una lotta tra gladiatori. 

Il braccio di ferro mediatico e le accuse incrociate

Kamala Harris è altrove, in tutt’altro campo di battaglia. Si rivolge ai giovani, agli elettori latini, ai musulmani di Detroit e del Michigan, a chi non si riconosce nell’idea di un’America chiusa, irta di palizzate e diffidenze. Ma sa bene che il terreno è scivoloso, che basta una provocazione per accendere la piazza. E così, mentre lei ascolta i canti di protesta pro-palestinesi e cerca di placare la tempesta, Maggie Rogers canta per la folla, e un’altra voce urla che Trump è paura, è la notte che avanza, un timore che va arginato con la luce, dicono i sostenitori dem. 

Ma il braccio di ferro non si esaurisce qui. Trump lancia accuse perfino a Michelle Obama, insinuando che sia lei a incarnare la vera cattiveria dell’America “che odia.” Michelle, che da anni è il volto di una cultura votata al rispetto, diventa bersaglio di un rancore mai sopito, un pretesto per distogliere l’attenzione dai propri lati oscuri. Intanto, i sostenitori più devoti al presidente – capitanati da Marjorie Taylor Greene – insorgono, rigettano etichette come “fascista” e “nazista” e minacciano class action contro i media. In questo rimpallo di accuse, Greene, la deputata cospirazionista, si sente forte. È l’avvocata di Trump contro un nemico invisibile, uno spettro che abita la stampa, le università, i tribunali. 

Sul lato opposto, Doug Emhoff, il second gentleman marito di Harris, pronuncia parole cariche d’angoscia mentre celebra il ricordo della strage alla Tree of Life Synagogue, invocando un’America che sappia spegnere il fuoco dell’odio. È uno scontro senza resa, quello tra chi dipinge Trump come un “agente del caos” e chi lo vede come l’ultimo baluardo. E, tra una promessa e una minaccia, entrambi i candidati sembrano scolpire, ognuno per sé, un’immagine distorta dell’avversario, un riflesso caricaturale che accende gli animi. 

I giorni passano ma restano le cicatrici: incendi dolosi distruggono schede elettorali in Oregon, richieste d’intervento raggiungono la Corte Suprema per fermare i voti provvisori in Pennsylvania, e mentre Trump allude a un “piano segreto” nella Camera dei Rappresentanti, l’America si guarda allo specchio, smarrita, divisa, in bilico su un voto che ha le sembianze di un abisso. 

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Greenwashing a processo, riflettori puntati sull’Australia: colosso petrolifero alla sbarra

La storia del primo processo al greenwashing del mondo inizia in un’aula di tribunale australiana, dove le parole “zero netto” rimbalzano tra le pareti di marmo e le coscienze dei presenti. È iniziato così, in una mattina d’ottobre che sa di storia, il processo che vede protagonista il colosso petrolifero Santos, chiamato a rispondere delle sue promesse verdi davanti alla giustizia federale.

Il caso Santos: l’accusa di greenwashing

Non è un processo qualunque: è il primo vagito di una nuova era in cui le parole potrebbero finalmente avere un peso specifico misurabile, dove le promesse ambientali non possono più essere lanciate come coriandoli. L’Australasian Centre for Corporate Responsibility (ACCR), azionista della stessa Santos, ha deciso di chiamare in giudizio il gigante dei combustibili fossili per quelle che definisce “speculazioni incastonate insieme nel giro di poche settimane”, spacciandole per un piano climatico credibile.

Il cuore della questione sono le promesse di Santos: ridurre le emissioni del 26-30% entro il 2030 e raggiungere lo zero netto entro il 2040. Promesse che, secondo l’ACCR, sono poco più che un castello di carte costruito sul terreno instabile delle buone intenzioni. Ma in un’epoca in cui il termometro del pianeta non perdona le buone intenzioni non bastano più.

L’avvocato Noel Hutley SC, voce dell’Accr nell’aula di tribunale, ha dipinto un quadro impietoso della strategia di Santos: non un piano concreto, ma una collezione di “speculazioni” assemblate frettolosamente. Santos, secondo l’accusa, avrebbe fatto promesse grandiose senza avere gli strumenti per mantenerle.

La questione si fa ancora più intricata quando si parla di idrogeno blu, presentato da Santos come “pulito” e a “zero emissioni”. Una definizione che, secondo l’accusa, nasconde una verità scomoda: i documenti interni dell’azienda mostravano che la produzione del presunto salvatore verde avrebbe in realtà aumentato le emissioni dirette. Un dettaglio non proprio marginale, omesso nelle comunicazioni pubbliche e nella tanto sbandierata tabella di marcia verso lo zero netto.

La difesa di Santos, affidata a Neil Young KC, suona come una variazione sul tema del “ci avete frainteso”: gli investitori, sostiene, avrebbero dovuto capire che non tutto ciò che era incluso nella tabella di marcia era un progetto consolidato. Come dire: le promesse erano più aspirazioni che impegni concreti, più poesia che prosa aziendale.

Ma in un mondo che brucia, dove ogni decimo di grado conta e ogni tonnellata di CO2 pesa sul futuro del pianeta, le sfumature semantiche rischiano di diventare lussi che non possiamo permetterci. Il processo potrebbe segnare un punto di svolta: il momento in cui il greenwashing da pratica diffusa diventa responsabilità legale, in cui le promesse verdi devono essere sostenute da piani concreti e non da vaghe speranze.

Un nuovo standard di responsabilità

Se l’ACCR dovesse vincere questa battaglia legale le onde d’urto si propagherebbero ben oltre le coste australiane. Potrebbe essere l’inizio di una nuova era di responsabilità ambientale in cui le aziende dovranno pensare due volte prima di dipingersi di verde senza avere i colori giusti nella tavolozza.

Il processo, che si concluderà il 15 novembre, non è solo questione di semantica legale o di interpretazione di documenti aziendali. È un processo al futuro stesso: alla nostra capacità di distinguere tra azioni concrete e promesse vuote, tra impegno reale e marketing ambientale. È un processo che ci ricorda che, nell’era della crisi climatica, le parole devono pesare quanto le azioni che promettono di descrivere.

Quanto tempo ancora potremo permetterci il lusso di promesse verdi che si sciolgono come neve al sole della realtà? La risposta, forse, la troveremo nelle pagine di questa sentenza storica, che potrebbe diventare il primo mattone di un nuovo edificio di giustizia climatica.

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Vai al sindacato? Giù botte Altro scandalo ignorato

Si chiama Tahla, ha 22 anni, e la sua colpa è stata quella di bussare alla porta di un sindacato. Nel 2024, nel cuore della Toscana felix, nell’Italia che si vanta di essere una Repubblica democratica fondata sul lavoro, un ragazzo viene pestato a bastonate per aver osato alzare la testa. Non fa rumore, non diventa una storia nazionale, non merita i titoloni dei giornali perché siamo assuefatti alla barbarie. Quarrata, provincia di Prato. Turni di 12-14 ore, lavoro nero, caporalato: fotografia di una modernità che si misura in fatturato ma non in diritti. Tahla viene convocato dopo aver parlato con il sindacato Sudd Cobas: “Sappiamo che sei stato al sindacato”, gli dicono. Poi partono i bastoni.

È la stessa zona dove appena due settimane fa altri quattro lavoratori sono stati vittime di una spedizione punitiva durante un picchetto. Non sono coincidenze: è un sistema che si nutre di paura e omertà, che prospera nell’indifferenza generale e nella retorica del “piccolo è bello” che spesso nasconde il marcio. La prognosi dice sette giorni, ma la ferita è molto più profonda: è uno sfregio alla Costituzione, è il fallimento di uno Stato che non riesce a proteggere chi lavora, è la vergogna di un Paese che si scopre ancora medievale nei rapporti di lavoro mentre si vanta di correre verso il futuro. Tahla è pakistano, e anche questo non è un dettaglio: lo sfruttamento sa bene dove colpire, sceglie le sue vittime tra chi ha meno voce, tra chi può essere più facilmente zittito. Noi intanto scivoliamo via, distratti, assuefatti, complici. In un Paese normale questa storia sarebbe uno scandalo nazionale. In Italia è solo cronaca locale. E questo, forse, è il vero scandalo.

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Pd e il paradosso Schlein: colpevole di non aver sedotto la destra

Prevedibili come l’alba ieri in casa Pd sono arrivate le accuse alla segretaria Elly Schlein dopo la sconfitta del candidato del centrosinistra Andrea Orlando alle elezioni regionali liguri. All’osservatore disattento potrebbero risuonare poco comprensibili. Il Partito democratico ha collezionato dieci punti percentuali in più rispetto alle elezioni precedenti, senza contare la considerevole mole di voti della lista civica del suo candidato presidente. 

La componente interna dei cosiddetti “riformisti”, che dopo Renzi si è aggrappata a Bonaccini e ora sembra fedele solo alla sua natura, ieri ha strepitato – con la solita, falsa eleganza – contro Schlein, accusandola di aver scelto un’alleanza con il Movimento 5 Stelle, ignorando Renzi. In realtà, le divergenze erano tra Conte e il senatore fiorentino, come al solito.

«Ai veti è seguito un errore politico, pensare che si dovesse scegliere tra il 6% di Conte e il 2% di Renzi rilevati nei sondaggi», dice Alessandro Alfieri, ultimo portavoce della fronda dem, rompendo la pax interna inaugurata solo pochi mesi fa.

Se Alfieri stamattina scorrerà le pagine del Corriere oltre l’articolo che lo riguarda, scoprirà che oltre metà degli elettori di Italia Viva ha votato a destra, per quel Bucci di cui Renzi era compiaciuto alleato al Comune di Genova.

In sostanza, la critica alla segretaria consiste nel non aver inseguito i voti di chi ha un’attrazione fatale per la destra. Non male, no?

Buon mercoledì.

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Regionali in Liguria, dietro la sconfitta del Centrosinistra c’è lo scontro Conte-Grillo

Poteva andare peggio per il Movimento 5 Stelle? Difficile immaginare come. La disfatta nelle regionali liguri ha messo il sigillo a una crisi che si trascina da mesi, evidenziando una realtà amara: il 4,6% è un misero bottino, pari alla metà dei già scarsi risultati delle europee di giugno, e relega i 5 Stelle ai margini dello schieramento progressista. Intanto il Pd si afferma come prima alternativa concreta al centrodestra mentre il M5S, ormai superato da Alleanza Verdi Sinistra, fatica a trovare un’identità che lo renda incisivo. Per Giuseppe Conte si tratta di un colpo durissimo, mentre a Roma, serafico, presenziava alla presentazione di un libro di Piero Bevilacqua sul caos.

Così è inevitabile che oggi gli occhi siano puntati sull’accordo con Italia Viva e +Europa che secondo alcuni avrebbe potuto ribaltare i numeri. Conte ha imposto a Elly Schlein la chiusura a ogni intesa con i renziani nonostante l’apertura di Andrea Orlando per un’intesa più ampia. Ora quel distacco di appena 1,4% tra Marco Bucci, nuovo presidente della Liguria, e lo sconfitto Orlando diventa una montagna di speculazioni.

La disfatta ligure e l’isolamento di Conte

Nella crisi si staglia la figura di Beppe Grillo, fondatore e garante che per la terza volta consecutiva diserta le urne, lasciando che il Movimento si consumi sotto il peso delle sue liti interne e degli errori strategici. La sua assenza non passa inosservata ma il silenzio viene squarciato da una storia su WhatsApp in cui pubblica una frase lapidaria: “Si muore più traditi dalle pecore che sbranati dal lupo”. Parole che suonano come un chiaro attacco a Conte, un messaggio che trasuda la sua sfiducia verso un progetto che lui stesso ha creato e che ora vede sull’orlo del collasso.

Quella tra Conte e Grillo è ormai una guerra aperta, che ha avuto un punto di non ritorno quando l’ex premier ha deciso di non rinnovare il contratto di consulenza da 300mila euro che legava Grillo al Movimento per la comunicazione. Grillo vede il Movimento come un sogno infranto, lontano dagli ideali originari, e non risparmia parole di disprezzo per un progetto che considera ormai compromesso. Conte replica al veleno, sfidando Renzi e i suoi seguaci, sostenendo che aprire al leader di Italia Viva avrebbe solo eroso ulteriormente il consenso del M5S, una frecciata che esclude ogni possibilità di futuro accordo.

Dietro la disfatta ligure si cela un problema che va oltre il risultato di una singola elezione: il radicamento territoriale. Conte, con tono auto-giustificativo, parla di un “fallimento nella costruzione di un’identità locale solida”, un errore che il congresso rifondativo di novembre tenta ora di sanare. Ma per molti, tra cui Stefano Patuanelli e Riccardo Ricciardi, la situazione è più grave di quanto Conte voglia ammettere. La struttura del M5S è fragile, con i rappresentanti locali in costante diminuzione e la presenza politica sempre più esile. La lista presentata in Liguria era l’ombra di quella che nel 2015 aveva sfiorato il 22,3%, una percentuale ormai impensabile per un Movimento che non riempie più le piazze e non scalda più i social.

La frattura Grillo-Conte e il problema dei territori

E, sul piano politico, il vuoto creato dal M5S è tanto più evidente quanto più ci si avvicina alla fase costituente, che dovrebbe definire il futuro del Movimento. L’esito delle regionali è un presagio funesto per chi spera di vedere i 5 Stelle riprendersi e fungere da colonna portante di una nuova coalizione progressista. Con un fondatore assenteista e un leader che oggettivamente stenta a creare consenso, il futuro appare compromesso. La scelta di voler rifondare il partito, come spiega Conte, non sembra convincere una base elettorale delusa, né i quadri locali, ormai scettici su un progetto che sembra avere più legami con la memoria che con la prospettiva.

Nel frattempo, i renziani, in una dichiarazione al vetriolo di Maria Elena Boschi, non perdono l’occasione per attaccare Conte, sostenendo che un’alleanza con Italia Viva avrebbe garantito la vittoria del centrosinistra. L’ex premier risponde ancora una volta di petto, respingendo i calcoli matematici e difendendo la “credibilità” di un progetto che non vuole piegarsi ai giochi di potere. Ma la realtà, nuda e cruda, è che Conte appare isolato, senza sostegno, in un campo progressista che rischia di restare minoranza se le spaccature interne non verranno sanate.

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Resuscita il Reddito di cittadinanza, in Sicilia spunta quello di povertà

Bentornato maledetto reddito di cittadinanza. Durante la kermesse di Forza Italia a Santa Flavia, il presidente della Regione Sicilia, Renato Schifani, ha fatto un annuncio che ha il sapore amaro di un’ammissione tardiva: l’istituzione di un reddito di povertà per le famiglie con un Isee inferiore a 5.000 euro. Una proposta che, nel contesto della politica siciliana e nazionale, suona quasi paradossale data la lunga battaglia della coalizione di centrodestra di cui fa parte il suo partito contro il reddito di cittadinanza, considerato una forma di assistenzialismo da stigmatizzare.

“Non è reddito di cittadinanza, ma reddito di povertà”, ha voluto chiarire Schifani, cercando di prendere le distanze da una misura che per anni è stata al centro delle polemiche e degli attacchi da parte della destra. Eppure le parole del governatore sembrano rivelare un’inquietante realtà: la povertà è palpabile e non può più essere ignorata, nonostante i continui proclami della presidente del Consiglio Giorgia Meloni che dipinge un Paese in crescita sfrenata. L’intervento del governo siciliano, con un fondo di 30 milioni di euro stanziato per aiutare le famiglie più in difficoltà, segna un cambio di rotta rispetto alla narrazione di governo che ha spesso dipinto un’Italia prospera e immune dalle emergenze sociali.

L’ammissione di Schifani: un cambio di rotta necessario

Siamo di fronte a un’evidenza che non può più essere taciuta: “Abbiamo voluto fortemente questa misura. È una risposta a quella povertà che caratterizza una fascia della nostra popolazione”, ha affermato Schifani. Con questo ammiccare a una realtà scomoda, il presidente sembra rendersi conto che la miseria è un problema tangibile, non un retaggio del passato da relegare tra le pagine della propaganda politica. Resta da capire se quella di Schifani sia davvero una scelta coraggiosa o piuttosto un tentativo di salvare la faccia in un momento critico. 

In Sicilia i dati parlano chiaro: l’incidenza della povertà assoluta ha raggiunto livelli preoccupanti. Con oltre il 9,7% della popolazione in difficoltà, la decisione di Schifani non è solo un passo politico ma una presa di coscienza che arriva tardi. Dopo anni in cui il suo partito ha contribuito alla demolizione delle reti di sicurezza sociale ora si propone di rimediare con una misura che, per quanto ben intenzionata, rischia di risultare insufficiente.

Il fatto che il reddito di povertà venga presentato come “un primo passo” non può che suscitare scetticismo. Quali sono le vere intenzioni dietro a questa proposta È solo una mossa elettorale per guadagnare consensi o c’è un reale impegno a lungo termine per affrontare la crisi sociale che attanaglia l’isola 

Le parole di Schifani appaiono un tentativo di reinterpretare il passato: “Non siamo qui per sostituire lo Stato”, ha affermato, come se potesse cancellare la storia recente del suo partito. Ma la verità è che, mentre il governo nazionale smantella i sussidi, la Sicilia si trova a dover rispondere a una realtà complessa, in cui la lotta contro la povertà richiede soluzioni più incisive e durature.

Sicilia in crisi: povertà e politiche inefficaci

In questo contesto, il reddito di povertà, per quanto necessario, deve essere solo un tassello di un piano più ampio che riconosca la dignità di chi vive nell’indigenza. A luglio di quest’anno la deputata di Forza Italia Luisa Lantieri aveva presentato un disegno di legge all’Ars per istituire in Sicilia il “reddito regionale di cittadinanza” spiegando “che, in una delle fasi più difficili della storia recente, ha garantito la dignità delle fasce sociali maggiormente vulnerabili del Paese”. 

A luglio la deputata regionale – ispettore del lavoro di professione e attuale vicepresidente dell’Assemblea regionale siciliana – sembrava una voce singola fuori dal coro, unica firmataria del testo. Ora ci ha ripensato anche Schifani. 

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Votare o patteggiare? In Liguria la risposta è l’astensione

Una regione decapitata da intrallazzi e corruzione, che legano gli interessi del suo presidente regionale a quelli degli affaristi, non spinge alle urne nemmeno la metà degli elettori. Il primo, insindacabile dato delle elezioni regionali in Liguria è questo: nemmeno gli scandali riescono a far recuperare la tessera elettorale dal cassetto.

Quando la politica diventa un esercizio per politici, affezionati, iscritti e fedelissimi, il ripetersi delle stesse logiche diventa altamente probabile. Ma l’astensionismo non è solo un indicatore dello stato di salute della democrazia: è anche un suo esercizio. Insistere sul ritornello «se non votate vi meritate i politici che avete» è un gioco sciocco, un po’ classista.

Le elezioni in Liguria ci dicono, ad esempio, che un patteggiamento per corruzione può essere visto come un peccato veniale. Qualche giorno fa, ospite di una trasmissione televisiva, il giornalista de Il Fatto Quotidiano Gianni Barbacetto – uno che di corruzione se ne occupa da decenni – ha abbandonato lo studio perché trovava inaccettabile «essere costretto a sentire» l’ex presidente ligure Giovanni Toti, che «gli faceva la morale dopo aver patteggiato una pena a due anni e un mese per corruzione». Barbacetto ha spiegato che, nel patteggiamento, «il giudice ha l’obbligo di verificare se sussiste il proscioglimento, cioè se ritiene innocente la persona coinvolta, dopodiché accetta il patteggiamento».

Di fronte a quel gesto di ecologia civile di Barbacetto, molti hanno commentato che un giornalista avrebbe il dovere di rispettare le sentenze. Ma il punto è proprio questo: restituire la gravità di certe condotte. E su questo, il campo largo non esiste.

Buon martedì.

Nella foto: frame del video della conferenza stampa di Marco Bucci, 28 ottobre 2024

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Sulla CO2 tante promesse fatte ma quasi mai mantenute

Ripercorrete per un istante le promesse ascoltate negli ultimi anni sull’abbattimento della CO2. È il nuovo comandamento laico, declamato in ogni campagna elettorale, ripetuto da ogni governo, a ogni tavolo internazionale. Ci hanno garantito che avrebbero ridotto la CO2 e, naturalmente, che lo avrebbero fatto in fretta. Tutti, persino coloro che negano il cambiamento climatico, sussurrano ora che, in fondo, un’aria più pulita non potrebbe far poi così male.

Ieri, però, l’Organizzazione meteorologica mondiale delle Nazioni Unite ha consegnato una realtà ben diversa: nel 2023 la concentrazione di CO2 ha raggiunto il record di 420 parti per milione, il 151% dei livelli pre-industriali. L’ultima volta che la Terra ha registrato simili concentrazioni, parliamo di 3-5 milioni di anni fa, la temperatura globale era di 2-3°C più alta e i mari si innalzavano di 10-20 metri.

Possiamo affermare con certezza che, mentre i governi insistono sul loro impegno a ridurre i gas serra – come la CO2, principale responsabile del riscaldamento globale – i fatti ci raccontano una direzione opposta. Non si tratta di qualche ritardo nei risultati o di una situazione peggiore del previsto: siamo sull’esatto percorso inverso rispetto alle promesse fatte.

Ora, impiegate questi ultimi secondi per valutare la credibilità di quelle promesse e, soprattutto, di chi continua a farle, senza mai cambiar strada.

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In Georgia vincono i filorussi… e Orbán esulta

È una storia georgiana, quella che Viktor Orbán ha deciso di riscrivere con l’inchiostro degli autocrati. L’Unione Europea, intanto, osserva con sconcerto e un’ombra di preoccupazione che s’allunga oltre i confini di Bruxelles: come se lo spettacolo di Orbán a Tbilisi fosse soltanto l’ultimo atto di una tragedia già scritta. La Georgia ha votato, sì, ma nel rumore delle minacce, nella coreografia sinistra delle intimidazioni. E, come da copione, il proscenio è tutto per Georgian Dream, il partito filorusso, che alla fine ha portato a casa il trofeo della “vittoria”, sebbene una folla di testimoni — tra cui delegati europei — denunci un risultato segnato dai veleni della frode.

L’abbraccio di Orbán alla Georgia di Putin

Orbán, fedele al suo ruolo di disturbatore in capo, ha prontamente applaudito questa “schiacciante vittoria” ancor prima che le urne tacessero. È volato a Tbilisi come si viaggia verso il cuore di una festa clandestina: portando la sua benedizione a un’elezione avvelenata, celebrando la stabilità, quel dono avvelenato che lui stesso continua a offrire al suo popolo e ora anche ai georgiani. E così, mentre la presidente georgiana Salome Zourabichvili invoca il popolo a scendere nelle strade contro quella che chiama “una speciale operazione russa” travestita da voto democratico, l’Ungheria di Orbán si presenta come la strana amica, capace di spazzare via ogni dubbio con la semplicità della sua diplomazia strabica.

L’Unione Europea e la resa dei conti a Budapest

Per l’Europa, l’incontro di Orbán con il governo georgiano rappresenta un drammatico tradimento, un gioco pericoloso di alleanze che prende forma in un angolo lontano ma pesantemente ombroso. C’è chi, a Bruxelles, mormora che Orbán voglia fregiarsi del cappello europeo in questa scorribanda solitaria. Qualcuno si spinge a dire che questa sia solo l’ennesima mossa di una marionetta di Mosca tra i banchi della democrazia europea, una mossa per gettare sabbia negli ingranaggi già arrugginiti del Parlamento. E forse non è solo un sospetto: Orbán lo sa e in questo ruolo si sente a suo agio, all’ombra di un Putin che gli ha riservato uno scranno d’onore tra gli “amici d’Europa”.

La Georgia, nel frattempo, paga il prezzo di un amore dichiarato — quello verso l’Unione — ma mai consumato. Era candidata ideale per entrare nell’orbita europea, ma la luna di miele è finita in fretta: la candidatura è sospesa, congelata dalla stessa Bruxelles che non tollera derive autarchiche travestite da patriottismo. Il Georgian Dream, con le sue leggi sul modello russo, etichetta ONG e media come “agenti stranieri”, inchioda la libertà di stampa e minaccia la comunità LGBTQ+ con restrizioni che puzzano di repressione. Intanto le strade di Tbilisi tornano a riempirsi di proteste, come un fiume carsico che riaffiora, carico di un’energia che il potere non riesce a reprimere.

In tutto questo, Orbán danza tra i tavoli della diplomazia come un giocatore che ha fatto all-in su Putin. La sua campagna di sabotaggio prosegue, ora con la presidenza di turno dell’Ue in mano, giocando al doppio volto: da un lato, il leader ungherese si ritrae come la vittima della rigidità di Bruxelles; dall’altro, spinge i confini dell’Unione verso un’implosione silenziosa, inesorabile. Tra le sue mani, il destino europeo di Georgia e Ucraina è un pedone su una scacchiera ben più vasta, dove il confine tra alleanza e tradimento è diventato una linea sfocata.

Resta da vedere quanto ancora l’Europa riuscirà a chiudere un occhio su questo spettacolo. La Georgia, ora, è una spina nel fianco e uno specchio per un’Europa che vacilla. La prossima riunione a Budapest sarà una scena di confronto, una resa dei conti attesa. Ma nel frattempo, Orbán sorride.

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Non è in vendita la coscienza dei giornalisti (nemmeno su Amazon)

C’è qualcosa di tremendamente affascinante nella dignità di chi sa ancora alzarsi dalla sedia, di chi sa ancora dire “no, grazie” anche quando quel “grazie” vale milioni di dollari. È successo al Washington Post, dove l’ombra lunga di Jeff Bezos ha tentato di soffocare una tradizione quasi cinquantennale di endorsement democratici, scatenando un terremoto che ha fatto tremare le fondamenta del giornalismo americano.

I giornalisti del Post non hanno esitato: hanno sbattuto la porta. Robert Kagan, penna storica del quotidiano, ha definito “facile” la scelta di dimettersi. Facile come sono facili le scelte quando si ha ancora una spina dorsale che funziona, quando si comprende che il giornalismo non è un esercizio di equilibrismo ma una questione di responsabilità.

Mentre in Italia ci culliamo ancora nell’illusione dell’oggettività giornalistica – questa chimera che ci raccontiamo per non affrontare la verità delle nostre scelte – i colleghi americani ci mostrano cosa significa essere intellettualmente onesti: scegliere da che parte stare e dirlo apertamente. Non c’è niente di più trasparente del dichiarare le proprie posizioni, niente di più rispettoso verso i lettori del mostrare le proprie carte.

L’oggettività è un feticcio che abbiamo inventato per nascondere le nostre paure, un velo sottile dietro il quale mascherare le nostre convinzioni. Ma la verità è che ogni parola che scriviamo è già una scelta, ogni virgola è già una presa di posizione. E allora tanto vale avere il coraggio di ammetterlo.

Bezos, con la sua decisione di bloccare l’endorsement a Kamala Harris non ha solo tradito una tradizione: ha mostrato quanto il potere economico possa piegarsi al ricatto del potere politico. Ma ha anche, involontariamente, permesso ai suoi giornalisti di darci una lezione di dignità professionale che dovremmo appendere in ogni redazione italiana.

Forse il vero giornalismo non è quello che si nasconde dietro una presunta neutralità: è quello che ha il coraggio di dire “io sto qui” e di pagarne il prezzo.

 

Foto di Michael Fleischhacker – Opera propria, Pubblico dominio, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=11161982

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