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Giulio Cavalli

Le corruzioni e il tifo

Si parla di DASPO ai politici, di alto tradimento, di regole (e sulle regole basterebbe riuscire a smetterla con questi lavori “in urgenza” e questa passione innata per le deroghe al fine di snellire a tutti i costi) ma la solita cronica debolezza della politica sta nell’immaturità con cui si affronta il problema. Se un sindaco ruba vorremmo che tutti i partiti proponessero delle soluzioni e non assistere alle contumelie di alcuni e allo scaricabarile degli altri: non ci interessa se Orsoni sia o no iscritto al PD (che poi Orsoni è stato portato sul palmo della mano da Bersani fino a Travaglio, per dire) ma vogliamo sapere come ogni partito voglia modificare il meccanismo perché ci sia la giusta punizione per i colpevoli (se colpevoli) e la ricetta del vaccino per il futuro. E invece no: tutti a dire “è suo”, “non è mio” e queste altre nefandezze in una sequela di inetti e di inettitudine.

«Votatelo, pesatelo, se sbaglia impiccatelo»

Tra tutti vale la pena leggere Gian Antonio Stella (Corriere della sera, 5 giugno 2014) sulle tangenti legate al MOSE:

«Votatelo, pesatelo, se sbaglia impiccatelo», diceva un antico adagio veneziano. Certo, se anche le accuse contro Giorgio Orsoni, Giancarlo Galan e gli altri politici e affaristi coinvolti nell’inchiesta trovassero conferma nei processi e nelle sentenze, nessuno pretende corda e sapone. Il quadro di corruzione disegnato dai giudici, però, è così vasto da imporre finalmente una guerra vera, non a chiacchiere, contro la mazzetta

L’«affare» del Mose è esemplare. Perché c’è dentro tutto. C’è dentro lo spaccio dell’«emergenza», dei lavori da fare a tutti i costi in tempi così drammaticamente rapidi da non consentire percorsi lineari nei progetti, nella scelta degli esecutori, nelle gare d’appalto, nelle commesse. Risultato: di fretta in fretta sono passati 31 anni, nove volte di più di quelli bastati alla Cina per fare il ponte di Donghai, che coi suoi 32 chilometri a 8 corsie sul mare collega Shanghai alle isole Yangshan. 

C’è dentro l’idea della scorciatoia per aggirare (non cambiare: aggirare) le regole troppo complicate con la creazione d’un concessionario unico, il Consorzio Venezia Nuova che, dopo tre decenni passati senza lo straccio di una concorrenza e dopo essere stato così pesantemente coinvolto negli scandali coi suoi massimi dirigenti, giura oggi d’essere estraneo alle brutte cose e pretende di presentarsi come una verginella al primo appuntamento. 

C’è dentro quel rapporto insano tra la cattiva politica e il cattivo business così stretto da chiudere ogni spazio ai controlli veri sui costi, sui materiali, sugli uomini, sui tempi. Basti ricordare l’impegno preso dall’allora vicepresidente del consiglio Gianni De Michelis il 4 novembre 1988, quando dopo anni di tormentoni fu presentato il prototipo del Mose: «La scadenza? Resta quella del 1995. Certo, potrebbe esserci un piccolo slittamento…». Sono passati quasi vent’anni, da quella scadenza: ci saranno anche stati degli intoppi, ma cosa succederebbe, in Germania o in Olanda, se lo Stato si sentisse preso per i fondelli sui tempi in modo così sfacciato? E cosa direbbero i leghisti da tre lustri al governo del Veneto se un cantiere interminabile come quello del Mose fosse ancora aperto dopo tanti anni a Reggio Calabria o a Napoli? 

C’è dentro il disprezzo per i pareri discordanti e più ancora, alla faccia del chiacchiericcio federalista, per le opinioni del Comune, tagliato fuori da decisioni prese altrove: «Sinistra e destra, sul Mose, erano d’accordo, e io sono rimasto inascoltato», ha accusato più volte, negli anni, Massimo Cacciari. Ieri l’ha ripetuto: «Le procedure erano tali che da sindaco io non potevo toccare palla». Una linea verticistica che la Serenissima non avrebbe accettato mai. Al punto di pretendere, se c’erano di mezzo opere idrauliche, che oltre a quello degli ingegneri si sentisse il parere di «otto pescadori» e cioè «due da S. Nicolò, uno da Sant’Agnese, uno da Muran, due da Buran e due da Chiozza». 

E poi c’è dentro, in questa brutta storia, il continuo rincaro delle spese, la peste bubbonica delle nostre opere pubbliche: doveva costare un miliardo e trecento milioni di euro attuali, il Mose. E di anno in anno, di perizia in perizia, di furbizia in furbizia, ha sfondato i cinque miliardi e non è detto che ne basteranno sei. 

C’è dentro la blandizia verso i possibili «amici» e insieme l’insofferenza arrogante verso ogni critica, come nel caso della stupefacente querela per «accanimento mediatico» (avevano dato battaglia sui giornali) contro Vincenzo Di Tella, Paolo Vielmo e Giovanni Sebastiani, tre ingegneri rei di avere criticato il costosissimo progetto delle paratie mobili, la gallina dalle uova d’oro del consorzio. 

C’è dentro la ripartizione di incredibili privilegi, come ad esempio, per citare le Fiamme Gialle, «il compenso di un milione di euro riconosciuto nel 2009» all’allora presidente Giovanni Mazzacurati «a titolo di “una tantum”, nonché i periodici rimborsi spese privi di giustificazione contabile», per non dire delle case affittate in California, delle consulenze distribuite ad amici e parenti o della liquidazione finale di 7 milioni di euro incassata dopo l’arresto: l’equivalente di trentuno anni di stipendio del presidente della Repubblica. Una buonuscita stratosferica, per un uomo finito in manette. 

E tutti soldi pubblici. Sia chiaro. Tutti soldi privatamente gestiti come in una combriccola di società private ma tirati fuori dalle tasche degli italiani. Per amore di Venezia. Per salvare Venezia dall’acqua alta dovuta non solo ai capricci della Natura e del Fato ma anche a interventi come la cosiddetta «sussidenza», cioè lo sprofondamento del suolo dovuta al pompaggio dell’acqua dolce nel sottosuolo o la creazione del canale dei petroli, un canyon lungo 14 chilometri, largo 200 metri e profondo fino a 17, scavato nel ventre di una laguna delicata la cui profondità media era di 110 centimetri. 

E torniamo al rispetto per l’acqua, la terra, le barene della Serenissima Repubblica. «Tre condition de homeni ruinano la Laguna: li Signori, li Inzegneri e li Particulari», cioè i proprietari, scriveva nel ‘500 il Magistrato alle acque Cristoforo Sabbadino. Scordava gli affaristi dell’appalto facile. Quelli della spartizione fra sodali. Che non guardano alla destra o alla sinistra ma al business. O, per dirla alla veneta, ai «schei». Montagne di «schei». 

Certo è che quest’ultima ondata di arresti colpisce i cittadini italiani, proprio mentre mostravano di voler credere in un riscatto e in una nuova speranza, come una frustata in faccia. E dimostra che, nella scia dei moniti di papa Francesco che batte e ribatte contro il «pane sporco» del «dio tangente», è indispensabile una svolta vera. Nei fatti. 

L’Expo 2015, i restauri a Pompei, il G8 alla Maddalena e poi all’Aquila, i primi interventi e poi la ricostruzione in Abruzzo, i Mondiali di nuoto, il Mose… Non c’è Grande Evento, da anni, che non sia infettato dalla corruzione. E dopo ogni arresto, lagne su lagne. E tutti a chiedersi come sia possibile, come mai non cambi mai niente, perché proprio qui e bla bla bla… Poi, passata la tempesta di sabbia, appena si posa la polvere, le leggi che parevano ur-gen-tis-si-me vengono rinviate dal lunedì al martedì, poi alla settimana dopo, poi al mese seguente, poi all’autunno e da lì all’estate successiva… 

Eppure è tutto chiaro: per vent’anni, come denunciano don Luigi Ciotti, Piercamillo Davigo e tanti altri, ogni sforzo della cattiva politica (troppo comodo dare tutta la colpa ai berlusconiani) è stato dedicato a smontare le leggi che c’erano e a buttare bastoni tra le ruote dei giudici. Pochi numeri: nel decennio dopo la stagione di Mani Pulite, 1996-2006, secondo l’Alto Commissariato, le condanne per corruzione precipitarono dell’83,9%, quelle per concussione del 90,4%, quelle per abuso d’ufficio del 96,5%. Come mai? Perché l’Italia è più pulita? Magari! 

L’abbiamo scritto ma vale la pena di ripeterlo: dice il rapporto 2013 dell’Institut de criminologie et de droit pénal curato dall’Universita di Losanna, che nelle nostre carceri solo 156 detenuti, lo 0,4% del totale, sono lì per reati economici e fiscali, tra cui la corruzione e la concussione. Una percentuale ridicola. Dieci volte più bassa rispetto alla media europea del 4,1%. È una coincidenza se la Germania, il Paese di traino del Continente, ha le galere più affollate di «colletti bianchi»? Ed è solo una coincidenza se noi, che arranchiamo faticosamente in coda, ne abbiamo 55 volte di meno?

“Reset”: a Bagheria maxi operazione contro Cosa Nostra

Alba calda a Bagheria. E questa volta non è un film.

Ne scrive Felice Cavallaro:

Un assedio per disarticolare con i 500 carabinieri schierati la nuova mafia della città natale di Guttuso e Tornatore, Ignazio Buttitta e Dacia Maraini, purtroppo famosa per essere diventata in passato rifugio di Bernardo Provenzano. Città ricca di arte e contraddizioni, adesso consegnata alla cronaca come roccaforte di un “direttorio”, un vertice strategico, “un organo decisionale provinciale” come lo definisce il comandante provinciale dei carabinieri di Palermo, colonnello Pierangelo Iannotti, insistendo sull’immagine popolare e letteraria della “testa dell’acqua” cui doveva “obbedienza anche il reggente operativo del mandamento”.
Identificati gli esecutori materiali di alcuni omicidi come quello di Antonino Canu, ucciso nella vicina Caccamo il 27 gennaio 2006 e di un tentato omicidio consumato l’anno precedente nello stesso paese contro Nicasio Salerno. Ecco alcuni degli episodi addebitati dai magistrati della Direzione distrettuale antimafia a capi e gregari del mandamento mafioso di Bagheria ritenuti responsabili, a vario titolo, di associazione per delinquere di tipo mafioso, omicidio, sequestro di persona, estorsione, rapina, detenzione illecita di armi da fuoco e danneggiamento a seguito di incendio.
I risultati di approfondite indagini hanno consentito di documentare anche 44 estorsioni, quattro danneggiamenti a seguito di incendio, una rapina e una tentata rapina. Sventati inoltre quattro progetti di rapina grazie all’intervento “preventivo” dei carabinieri che illustrano i dettagli dell’operazione con una conferenza stampa al palazzo di giustizia di Palermo.Un assedio per disarticolare con i 500 carabinieri schierati la nuova mafia della città natale di Guttuso e Tornatore, Ignazio Buttitta e Dacia Maraini, purtroppo famosa per essere diventata in passato rifugio di Bernardo Provenzano. Città ricca di arte e contraddizioni, adesso consegnata alla cronaca come roccaforte di un “direttorio”, un vertice strategico, “un organo decisionale provinciale” come lo definisce il comandante provinciale dei carabinieri di Palermo, colonnello Pierangelo Iannotti, insistendo sull’immagine popolare e letteraria della “testa dell’acqua” cui doveva “obbedienza anche il reggente operativo del mandamento”.

A finire in manette sono in 31. fra questi c’è Carlo Guttadauro – fratello di Filippo e Giuseppe – di Aspra. Fermato anche Giuseppe Comparetto, ritenuto “uomo d’onore” di Villabate, ed Emanuele Modica, di Casteldaccia, considerato affiliato alla mafia canadese, che nel 2004 scampò alla morte in un agguato a Montreal.

Fra i capi dell’organizzazione c’era Giuseppe Di Fiore , ritento in gergo “la testa dell’acqua”, al quale doveva obbedienza anche il reggente operativo del mandamento.

In manette nell’operazione denominata “Reset”, anche Antonino Messicati Vitale, rientrato in Italia da pochi mesi (dopo una breve latitanza a Bali, dove era stato individuato e arrestato) e scarcerato per un cavillo.

Tra i fermati ci sono Giuseppe Di Fiore, Giovanni Pietro Flamia, Salvatore Lo Piparo, Giovanni Di Salvo, Michele Modica ed Emanuele Cecala,

Produciamoci: mi scrive Carla

La campagna di “produzione sociale” per “L’amico degli eroi” (un libro e lo spettacolo) è partita. Qui trovate tutte le informazioni. Domani vedrò di scrivere nel dettaglio (intanto abbiamo bisogno che cominciate a fare girare la notizia e, se potete, contribuite) ma prima che si faccia sera voglio pubblicare altre parole bellissime che mi ha scritto Carla Verdecchia  perché anche loro colgono il senso di quello che vorremmo fare e della forza che dobbiamo onorare:

LIBERTÀ È PARTECIPAZIONE.

Fine anno scolastico. Classe quinta in pochi. Occhi e parole che chiedono apparentemente voti, in realtà senso e misura. Snocciolo numeri. Lampeggiano delusione speranza rimpianto. Allora racconto una storia che finisce così: quello che stiamo vivendo è il momento migliore e ciò che abbiamo è il “meglio”. Valutare il meraviglioso che avevamo o il meraviglioso che avremo è perdere tempo. Intanto non c’è né quello, né quello. Abbiamo questo e pertanto è la cosa migliore che abbiamo. Usiamolo. Non usarlo vuol dire perderlo. Non c’è guadagno, non c’è accrescimento, non c’è convenienza a restare nel ricordo di ciò che era e nella speranza di ciò che sarà.

Ľart. 9 della nostra Costituzione promuove la cultura. Non per il diletto di pochi illuminati volenterosi. Ma per alimentare la virtù civile, fare palestra di vita pubblica, costruire uguaglianza e democrazia sostanziali. Solo la Repubblica può farlo. Ma intanto l’impegno di ognuno di noi è prezioso e mai come ora occorre un’assunzione di responsabilità in prima persona. Sia per riprenderci la res publica, sia per finanziare ciò che il neoliberismo ritardatario di Renzi non finanzia.
Io partecipo. Spero anche voi.

 

Parte la “produzione sociale” e mi scrive Paola

La campagna di “produzione sociale” per “L’amico degli eroi” (un libro e lo spettacolo) è partita. Qui trovate tutte le informazioni. Domani vedrò di scrivere nel dettaglio (intanto abbiamo bisogno che cominciate a fare girare la notizia e, se potete, contribuite) ma prima che si faccia sera voglio pubblicare le parole bellissime che mi ha scritto Paola Periti perché colgono il senso di quello che vorremmo fare e della forza che dobbiamo onorare:

Con questa mia mail volevo esprimere la mia soddisfazione per la tua scelta. Stampa, televisione non so il teatro oggi non sono indipendenti, non in Italia. E ti fa onore, sapendo che certamente non ti mancano le occasioni per pubblicare libri o testi o realizzare spettacoli, scegliere di non legarti ad alcuno.
Credo sia oggi più che mai arrivato il momento dell’intransigenza, nessun compromesso. Non sono mai stata rigida nei miei comportamenti ma lo sono diventata osservando questo paese che piano piano, con la connivenza di tutti noi cittadini, ha lasciato che il fango ci sommergesse tutti.
Ho due figlie adolescenti. Lascio loro un paese allo sfascio e nessun futuro degno di persone civili.
Cerco di rimediare, almeno con il mio comportamento privato.
Grazie per il tuo impegno.

 

Cosca Crea: 16 arresti

Sono 16 le persone arrestate dalla polizia di Stato di Reggio Calabria, accusate, a vario titolo, di associazione mafiosa, estorsione e intestazione fittizia di beni. L’operazione degli uomini della squadra mobile e del commissariato di Gioia Tauro, coordinati dal servizio centrale operativo, ha consentito di svelare le molteplici attività criminali della potente cosca Crea, egemone nel comprensorio di Rizziconi (Rc), con particolare riferimento all’ingerenza nelle attività pubbliche della località reggina.

Fondamentale per le indagini è stato anche il contributo dell’ex sindaco di Rizziconi, eletto nel marzo 2010 alla guida di una lista civica, il quale, sin dal momento della sua elezione, ha avviato una collaborazione con la polizia di Stato e la magistratura, denunciando irregolarità, anche di natura penale, nella gestione dell’amministrazione comunale e finalizzata a favorire gli interessi illeciti della cosca Crea. Numerose minacce e intimidazioni di sodali della cosca nei confronti del sindaco causarono, quindi, nell’aprile 2011, le dimissioni di tutti i consiglieri comunali ed il successivo scioglimento degli organi di governo di Rizziconi, per l’evidente ingerenza criminale posta in essere.

Nel corso dell’operazione sono stati sequestrati anche beni, riconducibili alla famiglia Crea, tra cui ville e terreni, oltre che conti correnti bancari, per un valore complessivo quantificabile in oltre 5 milioni di euro.

L’antimafia faccia autocritica

Pubblichiamo la prefazione di Domenico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta, al libro “Dalla parte sbagliata”, di Rosalba Di Gregorio e Dina Lauricella, edito da Castelvecchi.

Normalmente chi scrive la prefazione ha piena conoscenza del libro. Io ammetto di non averla, e per questo la mia è una «prefazione anomala». Ma conosco le autrici. E di loro parlerò. Conosco la vicenda, di cui non parlo, ma penso di avere il dovere, dopo le prime sentenze vicine al giudicato, di stimolare una riflessione che sino ad oggi è, incredibilmente, mancata.

E allora, parlando in primis delle autrici, dico che Dina Lauricella mi è sembrata una giornalista indipendente e autonoma. Non fa parte di cordate, e pensa con la sua testa. Qualità rare e importanti. Quanto all’avvocato Di Gregorio, «l’avvocato del Diavolo», cosa dire? Rosalba è una persona che ha una faccia sola. Ha sempre detto, ostinatamente, le stesse cose sul processo di via D’Amelio. Ha sempre detto le stesse cose sui collaboratori. A viso aperto, sopportando, secondo me, conseguenze che l’hanno fatta diventare «un avvocato di mafia», del Diavolo, appunto.

Rosalba non è un avvocato di mafia. È un avvocato. E la parola «avvocato» non dovrebbe sopportare ulteriori specifiche. A meno che non si voglia indicare, con quel termine, che si occupa soprattutto di processi di mafia. Il che farebbe anche di principi del Foro antimafia «avvocati di mafia». E a Milano, chi difende i corruttori, come dovremmo chiamarli? «Avvocati della corruzione»? La verità è che la «colpa» di Rosalba è di difendere, e bene, i mafiosi. Ma è una colpa questa? E può essere all’origine di una «messa all’indice» professionale?

La verità è che dovremmo limitarci ad ammettere i nostri errori. Dopo le sentenze già intervenute sulBorsellino quater, e senza discutere di prove, dobbiamo o no discutere di questa giustizia, di questa stampa, di questa società, che secondo me, negli anni Novanta, hanno, almeno in parte, fallito? Dobbiamo discutere di chi ha consegnato per 17 anni le chiavi della vita di sette persone innocenti per il reato di strage ad un falso pentito, Scarantino?

Dobbiamo avere il coraggio di discutere di una regola, quella della «frazionabilità» delle dichiarazioni dei collaboranti, che forse andrebbe ripensata, perché consente a «collaboranti» scarsamente credibili in via generale di essere utilizzati «per ciò che serve», aprendo il fianco a possibili strumentalizzazioni probatorie? Dobbiamo discutere del fatto che, pur con tutte le considerazioni contenute nelle passate tre sentenze sulla poca credibilità di Scarantino – il processo basato sulle sue dichiarazioni è arrivato sino all’ultimo grado, ed è stato approvato anche in Cassazione?

Cosa non ha funzionato? Abbiamo il dovere di chiedercelo. Perché io penso che in questa triste storia nessuno dei relè dello Stato democratico ha funzionato a dovere. Non ha funzionato la Polizia. Non ha funzionato la Magistratura. Non hanno funzionato i controlli, sia disciplinari sia penali. Non ha funzionato ilCsm. Non ha funzionato la cosiddetta Dottrina. Ma, soprattutto, non ha funzionato la «libera stampa», che dovrebbe essere, e non lo è stata, il vero cane da guardia di una democrazia.

Solo un «avvocato di mafia» ha gridato le sue urla nel vuoto. Sin quando, fortunatamente, grazie a nuove prove, la stessa Giustizia ha avuto il coraggio di autoriformarsi. Ma alti sono i prezzi pagati per questo, soprattutto all’interno delle forze dell’ordine. È accettabile tutto questo? Sono accettabili questi 17 anni? E, soprattutto, dobbiamo chiederci con trepidazione: potrebbe nuovamente accadere, magari sta già riaccadendo, quanto è avvenuto in quella occasione?

E allora, per evitarlo, devono assisterci i principi generali delle democrazie cosiddette «occidentali». Il diritto di difesa non è un optional. È un principio cardine delle democrazie, per l’appunto, «di diritto». Il difensore di un mafioso non può divenire, per il solo fatto di difendere un mafioso, inattendibile e pericoloso. La verità la può dire un famoso procuratore antimafia, come anche un «avvocato di mafia». Come tutti e due possono andare dietro ad abbagli.

Tutto questo, lo capisco, ci costringe a una fatica immane: non ragionare per schemi (buono-cattivo; mafioso-antimafioso) ma ragionare con la nostra testa. Criticando. Leggendo. Facendoci le nostre personali idee. Ma in questo deve aiutarci una stampa autenticamente indipendente. Una stampa che non si schieri né a favore «a priori», né contro «a priori». E necessitiamo di una magistratura aperta ad essere criticata (se le critiche non sono preconcette), e rispettosa dei diritti della difesa. Perché il processo, ricordiamocelo, è, come dicevano i romani, actus trium personarum, è un rito che richiede il necessario intervento di tre persone: il Giudice, il Pubblico Ministero, e la Difesa. Solo così, tenendo in debito conto tutti questi attori, si può arrivare ad accertare una «verità processuale» che assomigli il più possibile alla Verità.

In ultimo, qualche breve considerazione, permettetemi, sul cosiddetto fronte antimafia: il movimento antimafia, che è di importanza basilare in uno Stato democratico, deve però essere anch’esso democratico, e rispettoso delle opinioni di tutti. «Non condivido la tua idea, ma darei la vita perché tu la possa esprimere», diceva qualcuno più saggio di me. Isoliamo gli intolleranti per mestiere. Perché dobbiamo viverci tutti insieme, in questo nostro Stato. E dobbiamo edificarlo tutti insieme, su solide basi di verità, anche a costo di ammettere verità scomode. È un debito, questo della verità, che tutti dobbiamo pagare a chi, in quegli anni, perse la vita per una idea di Giustizia e di antimafia.

 di Nico Gozzo, procuratore aggiunto di Caltanissetta

Sulla questione vitalizi/mafia/Cuffaro mi scrive Francesco Forgione

Sulla questione siciliana Francesco Forgione chiarisce:

Caro Giulio, come sai sono agli atti del parlamento siciliano le due mozioni di sfiducia a Cuffaro quando era padrone della Sicilia e non ora che è un carcere. Tutte e due hanno come primo firmatario, Francesco Forgione, la mia firma. Non posso quindi essere accusato di accondiscendenza al cuffarusmo. Ma quello che scrivi è una bufala e se fossi stato ancora all’Ars, comparirei nella lista nera grillina. Forse questi deputati non hanno letto statuto autonomista e costituzione repubblicana che assegnano al parlamento italiano e non alle regioni potere esclusivo in materia di giustizia e pene. Qui di anche le pene a censorie come l’interdizione dai pubblici uffici che determina la decadenza o meno del vitalizio a Cuffaro. Tra l’altro la legge Severino prevede la decadenza del vitalizio per i testi di corruzione e non di mafia ma solo per le regioni e non per il parlamento. Così succederà che Cuffaro non avrà più il vitalizio siciliano per le condanne contro la PA, ma prenderà quello del senato, e così anche dell’Utri. In questo caso l’Ars non poteva votare e decidere niente! Come vedi nella lotta alla mafia bisogna essere seri e rigorosi, sottrarrai alla propaganda e se si legge bene anche la costituzione fa bene alla politica e alla credibilità di chi sta nelle istituzioni non per fare spot ma per dare risposte serie e credibili alle domande sociali e alla ricostruzione dell’etica pubblica. 

A Francesco ricordo che addirittura Formigoni congelò il vitalizio ad un suo compagno di partito (con un escamotage, ovvio) e che la mozione venne modificata in modo unanime e votata per diventare proposta di legge in Parlamento.