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Giulio Cavalli

Impresa mafiosa tra apocalittici e infiltrazioni

Un articolo semplice e per niente banale per dirimere una questione su cui si filosofeggia molto ma che è molto lineare.

La presenza criminale nell’economia viene definita – in termini giornalistici – come un’infiltrazione. Una parola che rimanda a un elemento esterno alla società, in una versione appunto minimalista o apocalittica (la mafia controlla tutto). Nessuno però si chiede perché le grandi aziende lavorano con le imprese mafiose. Tre le ipotesi. Non se ne sono accorti. Hanno subito un’imposizione. Hanno giudicato conveniente la partnership.

La filiera agricola, l’edilizia e le opere pubbliche, il ciclo dei rifiuti, la grande distribuzione alimentare. Sono i settori dove l’impresa mafiosa è sempre più invadente. In termini giornalistici, questa presenza viene generalmente definita un’infiltrazione. Un termine non neutrale che rimanda a un problema esterno e che può essere raccontato in una versione minimalista (le infiltrazioni mafiose) e una apocalittica (la mafia controlla tutto). Ma sempre esterno rimane. La cultura wasp, negli Usa, rappresentava la criminalità organizzata come alien conspirancy per dire che è arrivata con gli immigrati: italiani, irlandesi, ebrei. C’è una parte di verità. Ma un qualunque film di Scorsese fa capire che non è così semplice. La società americana non era innocente ma era pronta ad accogliere al suo interno un organismo brutale ma a suo modo efficiente.

Va ricordato che un’impresa si definisce mafiosa in base a due criteri: uno soggettivo e l’altro oggettivo. Nel primo caso l’azienda è riconducibile a un soggetto criminale. Nel secondo, usa il metodo mafioso, in particolare l’uso strumentale della violenza, effettiva o minacciata.

Un esempio concreto: perché un grande gruppo tedesco come DeSpar, almeno per un determinato periodo e secondo gli atti dei magistrati, ha affidato a una impresa mafiosa del trapanese i suoi punti vendita? Le risposte possibili sono tre. Non se ne sono accorti. Sono stati costretti. Oppure, in alternativa, il mafioso non si è presentato come tale ma da imprenditore fortemente concorrenziale. Un partner appetibile e credibile. Perché offre prezzi competitivi, non ha problemi sindacali e spesso vanta una liquidità che altri possono solo sognare. Non è un caso che nella logistica le grandi aziende tra Milano e Piacenza hanno sempre minacciato di andare via al primo sciopero ma non hanno mai detto nulla sulla presenza straripante di camorra e ‘ndrangheta nelle cooperative in subappalto. Sempre a Milano, vera capitale immorale, il padrone di uno tra i maggiori call center italiani ha chiamato i Bellocco per risolvere un problema interno, fino a ritrovarsi estromesso dall’azienda. Niente di nuovo.

La mafia on demand ha distrutto Bardonecchia già negli anni ’70. Nel primo comune del Nord sciolto per mafia, le imprese edili locali chiamavano mediatori mafiosi come caporali degli operai edili, per avere costi bassi e non vedere scioperi. Col risultato di consegnare il territorio ai clan. L’impresa mafiosa è una forma estrema di azienda, ma non è estranea a questo sistema. Spesso è persino richiesta. Altrimenti sarebbe già sparita. Perché le denunce del pizzo partono da piccole aziende e mai da grandi imprese, che sarebbero infinitamente più tutelate? Il caso dei cantieri della Salerno – Reggio Calabria è esemplare. L’imprenditore catanese della piccola ditta che lavora a Scilla annota il numero di targa dell’uomo che è venuto a riscuotere, lo comunica ai carabinieri, scopre stupito che è intestato al boss, osserva gli arresti dell’intero clan che terrorizza il paese. Il vertice della grande azienda romana, al contrario, finisce sul banco degli imputati perché il suo comportamento sfiora il favoreggiamento. Anche se non è stato dimostrato in Tribunale, viene da pensare a una cogestione, un modo di ‘portare avanti’ senza problemi i cantieri in zone difficili. Una modalità di gestione aziendale, non il frutto di una imposizione.

(Antonello Mangano, “Apocalittici o infiltrati. Ma cos`è l’impresa mafiosa?“, terrelibere.org, 05 dicembre 2013)

L’umido e il secco

“Vogliamo lavorare alla costruzione  di un nuovo centrosinistra, per questo alle primarie dell’8 dicembre chiediamo ai nostri iscritti di votare Renzi”

Antonio Di Pietro

Quarto Oggiaro e i Tatone: un arresto

Il solito, puntuale, Davide Milosa:

benfante-640“Lui voleva prendersi il giro”. L’intercettazione è breve ma decisiva per comprendere il movente di tre omicidi che tra il 27 e il 31 ottobre 2013 hanno riportato il quartiere milanese di Quarto Oggiaro agli anni Ottanta, quando le cosche regolavano i propri conti per strada. E così, poco dopo le due del pomeriggio di oggi, gli uomini della squadra Mobile coordinati da Alessandro Giuliano hanno arrestato l’autore materiale di tutte e tre le esecuzioni, incastrato dalle testimonianze e dal suo cellulare. Nell’ambiente criminale lo chiamano Nino Palermo, per l’anagrafe è Antonino Benfante nato nel capoluogo siciliano nel 1963Lui ha sparato agli orti di via Vialaba uccidendo primaPaolo Simone e poi Emanuele Tatone. Ed è sempre Benfante che tre giorni dopo gira in scooter le strade del quartiere alla caccia di Pasquale TatoneLo troverà poco dopo le dieci e trenta di un mercoledì di campionato fermo con la sua auto all’angolo tra via Trilussa e via Pascarella. Tre colpi di fucile e il secondo dei quattro fratelli Tatone muore sul colpo.

L’INTERCETTAZIONE DECISIVA DALLA FAMIGLIA TATONE
Quaranta giorni dopo, l’arresto. Gli agenti oggi hanno bussato al suo appartamento in via Lessona 1. In casa c’era solo lui. Nino Palermo non ha opposto resistenza. Si è fatto una doccia. Solo si è limitato a dire: “Quando uscirò di galera, qualcuno la pagherà”. Quindi si è chiuso in un ostinato mutismo. Lo stesso tenuto davanti al dottor Giuliano, il giorno dopo l’omicidio di Pasquale Tatone, quando viene accompagnato in questura e sentito a sommarie informazioni. In quel frangente dice di non conoscere i Tatone. Il nome di Benfante inizia a circolare già domenica 27 ottobre. Da poche ore una pistola a tamburo calibro 38 ha già ucciso nella boscaglia degli orti. Il primo a essere colpito è Paolo Simone, un piccolo pregiudicato della Comasina, quindi tocca a Emanuele Tatone, freddato con un colpo alla testa dentro ai rovi del boschetto. Solo il tempo di rimettere assieme i pezzi dell’esecuzione, e mercoledì 31 ottobre muore Pasquale Tatone. S’inizia a parlare di faida. Ma il termine, si è capitato oggi, risulta improprio. L’obiettivo di Benfante era uno solo: prendersi la piazza di spaccio.

LA SFIDA ALLA POLIZIA E IL CONTROLLO DELLO SPACCIO
All’alba di giovedì primo novembre (a poche ore dal terzo omicidio) Nino Palermo viene portato prima in Questura e poi in Procura. Sarà interrogato per dodici ore e sottoposto al guanto di paraffina per individuare tracce di polvere da sparo. Tutto inutile. In serata Benfante rientra nella sua casa di Quarto Oggiaro e qui resta fino a oggi pomeriggio. Cosa fa? Conduce la vita di sempre. Gira per il quartiere in scooter e quando va a piedi si accompagna sempre con il figlioletto di tre anni. Sa di essere intercettato e pedinato. Si diverte anche. Ferma le volanti e dice: “Se volete interrogarmi io sono sempre qua”. E ancora: “E’ inutile che seguite la mia macchina, l’ho venduta quattro giorni fa”. Fa di più: torna in piazza e inizia ad arruolare i cavalli dei Tatone. “Da oggi – dice – tu stai sotto di me”.

I LEGAMI CON LA ‘NDRANGHETA DEL CLAN FLACHI
Nel frattempo, le indagini corrono veloci. Il timore, infatti, è di ritrovarsi con un quarto morto per strada. Tanto più che Palermo ha uno spessore criminale di tutto rispetto: nel 1994 viene arrestato per traffico di droga nell’inchiesta dell’antimafia milanese. L’indagine Terra bruciata fotografa gli interessi del superboss Biagio Crisafulli, alias dentino, proprio a Quarto Oggiaro. Benfante è un suo luogotenente. In via Pascarella gestisce i soldi dell’eroina. In quegli anni, poi, viene accusato di tentato omicidio. Proverà a uccidere proprio Pasquale Tatone, che, pur ferito, si salverà. Nel 2012, poi, finisce indagato per una tentata estorsione a un imprenditore di Novate Milanese. Benfante fa batteria con gli uomini dei Flachi, potente cosca della ‘ndrangheta.

CIMICI IN CARCERE: IL COLLOQUIO TRA I DUE FRATELLI
Le ambientali messe in casa di Benfante però non danno risultati. Si registrano commenti neutri del tipo “ti ha chiamato la polizia”. Qualcosa si intuisce ma è ancora troppo poco. Si ottiene di più ascoltando i familiari dei Tatone. E’ da loro che arriva l’indicazione diretta su Benfante e sul motivo degli omicidi. Le cimici vengono messe anche in carcere dove Nicola Tatone deve scontare molti anni per droga. Subito dopo il duplice omicidio, Pasquale lo va a trovare. I due, però, bisbigliano. Non si capisce granché.

IL RACCONTO DELLA COMPAGNA TRASFERITA IN LOCALITA’ PROTETTA
L’accelerazione che ha prodotto l’ordinanza d’arresto firmata dal giudice Andrea Salemme, arriva solo dieci giorni fa, quando la squadra Mobile aiutata dagli uomini del commissariato di Quarto Oggiaro, mettono in fila dichiarazioni e confidenze del quartiere. Tra queste quella ritenuta decisiva viene messa a verbale dalla sua compagna subito trasferita in una località protetta assieme al figlio. Radio quartiere racconta altro: poche ore dopo il duplice omicidio, Benfante incontra Pasquale Tatone che in quel momento ancora non sa della morte del fratello. Nino Palermo gli racconta che Emanuele è venuto da lui per chiedergli una pistola, ma che lui ha negato. Quindi aggiunge: “Emanuele aveva un occhio nero”. In questo modo Benfante fa filtrare l’idea che l’omicidio sia legato a una banale lite. Non sarà così, perché i familiari all’obitorio si accorgono che di quell’occhio pesto non c’è traccia. Cosa ha raccontato allora Benfante?

IL CELLULARE DEL KILLER SUL LUOGO DEL DUPLICE OMICIDIO
Parole e racconti che la polizia raccoglie con estrema difficoltà. Chi sa non vuole comparire. Alla fine, però, gli investigatori ricostruiscono le ore precedenti il duplice omicidio che avviene verso le 11 e 30 di mattina. Un’ora prima Benfante si trova in un bar di via Lopez assieme a Emanuele Tatone e Paolo Simone. I tre, poi, escono. Palermo in scooter e gli altri in auto. Le telecamere li riprendono mentre vanno verso gli orti. Durante il primo interrogatorio, il presunto killer sosterrà di essere tornato a casa verso le 10 e 45. In realtà il suo cellulare a quell’ora aggancia la cella degli orti di via Vialba tra Quarto Oggiaro e Novate milanese. E poi c’è il racconto della madre dei Tatone che conferma il rapporto quotidiano tra Benfante e Tatone. Del resto già nel settembre 2013, il killer viene controllato in auto con Pasquale Tatone. Il fermo gli vale un mese di galera. Il 23 ottobre la scarcerazione, quattro giorni dopo i primi due morti. L’analisi delle telecamere risulta decisiva sul terzo omicidio. A fornire indizi importanti è quella del comune posta all’angolo tra via De Roberto e via Pascarella. I fotogrammi riprendono uno scooter che fa inversione di marcia e punta verso l’auto parcheggiata di Pasquale Tatone.

LE INDAGINI: ALTRE DUE PERSONE NEL MIRINO
Tutto finito, dunque? Non ancora. Le indagini, infatti, proseguono. Nel mirino degli investigatori ci sono altre due persone che in qualche modo avrebbero dato appoggio a Benfante. In serata, poi, gli agenti del commissariato di Quarto Oggiaro con l’aiuto dei pompieri hanno scavato per ore attorno agli orti di via Vilaba alla ricerca delle armi usate da Nino Palermo.

Perché ha parlato Totò Riina

Un’opinione e un suggerimento arriva dalla bella intervista di Andrea Purgatori a Sergio Lari, procuratore capo di Caltanissetta su HP:

Secondo voi le esternazioni di Riina sono solo uno sfogo nel chiuso di un carcere di massima sicurezza o sono state raccolte come una precisa indicazione anche all’esterno, da Cosa Nostra?
“Mah, il paradosso è stato proprio rendere pubbliche quelle frasi che Riina ha rivolto a un detenuto pugliese con cui stava passeggiando nel cortile del carcere, con una terminologia e una modalità che ci fanno chiaramente pensare che non sapesse di essere intercettato. Infatti, nei colloqui coi familiari è completamente un’altra persona e si guarda bene dal fare dichiarazioni confessorie come quelle registrate in quell’ora d’aria in cui si accredita la responsabilità delle stragi del ’92, dice come le ha fatte e si vanta di essere il numero uno in quanto a stragi commesse. Averle pubblicate ha reso noto anche al popolo di Cosa Nostra quello che pensa e farebbe Totò Riina”.

Lei che conosce bene la sua psicologia, crede davvero che mentre diceva quelle cose si sentisse al riparo da una possibile intercettazione?
“Guardi, io l’ho interrogato due volte e credo di essermi fatto un’idea molto chiara della sua personalità. Riina ha un’alta considerazione di se stesso. Ma le frasi che ha pronunciato, le sue vanterie, soprattutto con un detenuto che non fa parte dell’organizzazione, sinceramente devo dire che non rientrano nei canoni comportamentali di un Capo dei capi di Cosa Nostra”.

Quindi, è lecito porsi qualunque domanda sul perché le abbia dette.
“Esattamente. E’ lecito porsi qualunque domanda. Ma bisogna anche considerare che da vent’anni è rinchiuso in regime di carcere duro e ci risulta che consideri quel detenuto come una persona di cui si può fidare. Ci sta che dopo vent’anni anche uno come lui abbia avuto un cedimento e si sia lasciato andare come mai avrebbe fatto prima”.

La sicurezza di Luigi Bonaventura?

Mi ero ripromesso di non parlarne più ma disattendo la promessa per una piccola (per niente) nota di servizio.

Le indagini sulle dichiarazioni del pentito di Luigi Bonaventura sono tutt’ora in corso e non mi sembra opportuno parlarne, certo, se non per le persone che in questa indagine sono coinvolte. I testi ascoltati in questi ultimi mesi (che si sono allargati anche ad altri collaboratori di giustizia) stanno rilasciando dichiarazioni che inevitabilmente determineranno anche il loro futuro: se verranno riconosciuti credibili e riscontrati avranno il peso di essersi esposti su un campo politico mafioso di proporzioni importanti e invece se saranno riconosciuti bugiardi inevitabilmente avranno ripercussioni nel loro programma di protezione. Comunque la si voglia vedere c’è poco da scherzare (e filosofeggiare, eh) sugli esiti dell’indagine.

Luigi Bonaventura, al momento, è in una località protetta che tutti conoscono, celato dietro un falso nome a cui non corrispondono tutti i documenti necessari e con la propria famiglia che deve percorrere curve di minacce e intoppi burocratici.

La sua sicurezza in questo momento è indispensabile, per lui e per chi vicino a lui è chiamato a testimoniare. Su questo non posso fare silenzio. Sul resto, invece, a indagini concluse avrò molto da dire. Molto.