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Giulio Cavalli

Se non imparerò a fare lo stronzo

Impegnati, mi dicono. Impegnati a diventare uno stronzo per sapere cosa pesare e cosa invece no, mettendo sulla bilancia la merce che conviene e invece tutto il resto pesarlo nelle tasche dell’opportunità. Impegnati ad appoggiare i presunti buoni contro i sicuramente cattivi: è la via più facile, la più comoda e la più comprensibile (perché sai, in tempi di comunicazione, la comprensibilità è tutto nonostante tutto). Quindi oggi dovrei abbassare le mutande e andare per le scuole a dire che la mafia è cattiva mentre lo Stato è buono e fanculo alla mafia che senza politica non esisterebbe così come riesce ad essere oggi. Mi chiedono di rispettare tutti quelli da rispettare, quelli delle associazioni istituzionali e soprattutto i loro professori eccellenti nonostante siano i peggiori figli dei loro padri mentre esercitano ego sotto le mentite spoglie dell’antimafia. Mi chiedono di esultare anche per le poche copie di Roberto (abbasso Saviano detto al bar solo con la sicurezza delle telecamere spente) perché la leccata in pubblico è obbligatoria mentre la delazione in privato è la vittoria del carrozzone antimafioso. Mi chiedono, altresì, di ringraziare sempre le forze dell’ordine, sempre, nonostante tutto, nonostante questa nostra storia ne conosca di indegne e anch’io ne abbia incrociato qualcuno. D’altro canto mi chiedono di osteggiare le forze dell’ordine, tutte, nonostante tutto e nonostante qualcuno probabilmente mi abbia salvato la vita. Noi siamo solo per le tinte forti: così siamo fantasticamente comprensibili.

Impegnati per dire che sei di sinistra, ma non del pd, e di una nuova sinistra, mi dicono, nonostante io conosca (e riconosca) in Civati molto di quello che vorrei e in Vendola molto di quello che avrei (avrei voluto) credere possibile. Ma accarezza i grillini, mi dicono, senza chiamarli così perché si offendono, nonostante siano in molti migliori del proprio (brutto) vate e alcuni proprio improponibili.

Insomma: antimafioso scassaminchia ma senza essere troppo poco istituzionale e politicamente moderato nella sinistra radicale.

Ah, mi dicono, fai lo scrittore e l’attore per le serate in teatro ma rivendica un ruolo politico in altre sedi. E quando chiedi dei manifestanti invece no, ti rispondono, che invece no, non devi confonderti ma al massimo appoggiarli: appoggio esterno, al massimo su twitter.

Se imparerò a fare lo stronzo mi toglierò la soddisfazione di prendervi a calci nel culo solo per mostrare la vacuità fognaria dei vostri troni. Maestri a rendere.

Cosa mi ero perso

Stefano Pedica (Roma, 13 ottobre 1957) è un politico italiano. Dopo la Dc transita nel Ccd, poi passa nell’Udr di Cossiga, quindi ricompare in Democrazia europea con Andreotti e D’Antoni, poi fonda i Cristiani democratici europei con Meluzzi, dopo confluisce in Alleanza popolare di Martinazzoli e Mastella, quindi passa con Mario Segni, poi segue la Nuova Dc di Rotondi, poi approda all’Idv. Dal 2013 sostiene Matteo Renzi all’interno del Partito Democratico.

(da wikipedia)

Siano lodati i banditi

Deve mangiar viole del pensiero, l’avvoltoio?
Dallo sciacallo, che cosa pretendete?
Che muti pelo? E dal lupo? Deve
da sé cavarsi i denti?
Che cosa non vi garba
nei commissari politici e nei pontefici?
Che cosa idioti vi incanta, perdendo biancheria
sullo schermo bugiardo?

Chi cuce al generale
la striscia di sangue sui pantaloni? Chi
trancia il cappone all’usuraio? Chi
fieramente si appende la croce di latta
sull’ombelico brontolante? Chi intasca
la mancia, la moneta d’argento, l’obolo
del silenzio? Son molti
i derubati, pochi i ladri; chi
li applaude allora, chi
li decora e distingue, chi è avido
di menzogna?

Nello specchio guardatevi: vigliacchi
che scansate la pena della verità,
avversi ad imparare e che il pensiero
ai lupi rimettete,
l’anello al naso è il vostro gioiello più caro,
nessun inganno è abbastanza cretino, nessuna
consolazione abbastanza a buon prezzo, ogni ricatto
troppo blando è per voi.
Pecore, a voi sorelle
son le cornacchie, se a voi le confronto.
Voi vi accecate a vicenda.
Regna invece tra i lupi
fraternità. Vanno essi
in branchi.

Siano lodati i banditi. Alla violenza
voi li invitate, vi buttate sopra
il pigro letto
dell’ubbidienza. Tra i guaiti ancora
mentite. Sbranati
volete essere. Voi
non lo mutate il mondo.

Hans Magnus Enzensberger (Difesa dei lupi contro le pecore, Verteidigung der Wölfe gegen die Lämmer, 1957)

Traduzione dal tedesco di Franco Fortini

Arrestato Antonino Lo Giudice: il “nano” pentito al cubo

1954-lo_giudice.jpg_415368877Oggi alla periferia di Reggio Calabria hanno arrestato Antonino Lo Giudice, il pentito di ‘ndrangheta che si era autoaccusato di avere messo nel 2010 le bombe davanti alla Procura Generale di Reggio Calabria e davanti all’abitazione del procuratore Di Landro. Una vicenda strana, quella di Lo Giudice soprannominato “il nano” per diversi aspetti: dopo il pentimento ha deciso di allontanarsi volontariamente dagli arresti domiciliari (era il 3 giugno scorso) non prima di avere ritrattato le proprie confessioni. Nella torbida vicenda dei “falsi” pentiti Lo Giudice spicca per le dichiarazioni su di lui rese da un altro pentito, Luigi Bonaventura (lo conosciamo bene, da queste parti) che aveva raccontato come il clan “pagasse” il finto pentimento di alcuni uomini che rimanevano comunque affiliati nonostante il programma di protezione. Tra le tante stranezze non si può dimenticare che dalle carte giudiziarie e soprattutto dalle numerose intercettazioni effettuate sembra che Lo Giudice fosse interessato a molti ma sicuramente non al procuratore Di Landro (che, anzi non menziona praticamente mai) e risulta difficile non pensare che quel suo pentimento fosse stato “pilotato” da qualcuno per coprire qualcun altro.

Dopo il suo allontanamento volontario Antonino Lo Giudice aveva fatto recapitare ad alcuni avvocati e agli ordini di stampa, tramite il figlio Giuseppe , un memoriale dove diceva di essersi autoaccusato ingiustamente e che lui con le bombe non aveva nulla a che fare. «Mi sono inventato tutto»– ha detto il “Nano”. Nel testo il pentito ha scritto di voler ritrattare tutte le sue dichiarazioni ed ha anche ammesso di essere stato costretto a raccontare vicende ed episodi di cui lui non era a conoscenza. E aveva indicato in Giuseppe Pignatone, ex procuratore capo a Reggio Calabria, Michele Prestipino, aggiunto alla stessa procura, Beatrice Ronchi, sostituto procuratore alla dda reggina e Renato Cortese ex capo della Mobile di Reggio Calabria, oggi capo della Mobile di Roma, come le persone che lo avrebbero “minacciato” qualora non avesse detto quello che loro avrebbero voluto sapere.

ACCUSE – Le dichiarazioni di Lo Giudice hanno riguardato anche Alberto Cisterna, ex numero due della Procura nazionale antimafia e Francesco Mollace, sostituto procuratore generale, di recente trasferito a Roma, con lo stesso incarico. Sulla base delle accuse lanciate da Lo Giudice Cisterna è stato inquisito per corruzione, ma dopo due anni di indagini la sua posizione è stata archiviata dal gip di Reggio Calabria, su richiesta della stessa procura. Il testo inviato dal “Nano” era stato accompagnato da una pen drive con immagini dello stesso pentito. Che faceva sapere:”«Non mi cercate, tanto non mi troverete mai». Venerdì la sua cattura, a quattro passi dalla sua casa.

Chissà ora che verità deciderà di raccontare. Noi lo seguiamo, in tutti i sensi possibili.

Vicinanze ed estraneità

E’ un brutto momento per le vicinanze di politici e imprenditori al margine del carcere. Sembra impossibile spiegare che ciò che la gente sopporta di meno è questa continua sensazione (se è solo una sensazione, eh) di vicinanza e comunione tra prepotenti imprenditori dannosi per la comunità e politici che indipendentemente dalle responsabilità giudiziarie dimostrano questa affezione autodistruttiva fatta di complicità e pacche sulle spalle. Mentre un paese impara il senso di misura dovuto alla miseria vorrebbe almeno dai governanti il senso della misura per responsabilità. Non è questione di eleganza, no: è la voglia sfrenata di una politica seria, fatta sul serio, che decida di rivendicare con fierezza le proprie vicinanze e le proprie estraneità, smettendola con questa favola del cattivo gusto rivenduto come dovuta cordialità

(da CAFFENEWS) “L’innocenza di Giulio”: con Cavalli va in scena lo spettacolo della verità

caffenews_header-e1324575753811E’ una storia di ombre calpestate, quella portata in scena da Giulio Cavalli al Teatro Civico di Caserta lo scorso lunedì 4 novembre. La storia fatta di verità soffocate, che i libri, ligi a una visione parziale e rassicurante, mettono educatamente a tacere. E’ la messa in scena “maleducata e rissosa” di un viaggio che percorre un ventesimo secolo tutto italiano, quella “favola strana” che narra un’eterna storia d’amore tra Stato e Mafia in una conseguente e paradossale inversione di ruoli, con “i cattivi che bussano al citofono di Andreotti e i buoni che muoiono ammazzati per terra”.

E il protagonista è proprio il Divo, Giulio Belzebù, il Papa Nero. Ma soprattutto Lo Zio, lo Zù Giulio del processo palermitano. Un “punciutu”, secondo il pentito Leonardo Messina, ossia un uomo d’onore sotto giuramento, un protetto, un “amico degli amici”.

Andreotti è stato indubbiamente una delle figure più influenti e, allo stesso tempo, più controverse dell’immaginario politico italiano degli ultimi sessant’anni. Sono innegabili i suoi rapporti “amichevoli” con elementi di spicco di Cosa Nostra, o con personaggi indirettamente legati all’ambiente, come nel caso dell’Onorevole Salvatore “Salvo” Lima o dei due imprenditori Ignazio e Antonino Salvo, opportunamente messi in condizione di non nuocere al momento giusto.

Cavalli analizza con cura meticolosa, quasi maniacale, la cronologia di delitti che la criminalità organizzata ha collezionato con il tacito consenso dello Stato, in un’ineluttabile relazione che affonda le sue radici in una realtà italiana ben precedente a quella che ha visto l’ascesa di Andreotti nel nostro panorama politico.

La prima vittima “eccellente” della mafia è il banchiere Emanuele Notabartolo, assassinato nel 1893 sul treno che percorre la tratta tra Termini Imerese e Trabia.

A lui seguiranno innumerevoli personaggi i cui omicidi hanno tinto di rosso le cronache dell’ultimo secolo. Il giornalista Mino Pecorelli, l’Onorevole Pio La Torre, l’avvocato Giorgio Ambrosoli, il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, fino ai più tristemente famosi casi del Giudice Giovanni Falcone e del magistrato Paolo Borsellino.

Con rara sensibilità istrionica, Giulio Cavalli pone come intermezzo tra tratti prettamente cronachistici e video documentari accompagnati dalla piacevole musica di Stefano Bellotti, sentite e patetiche  interpretazioni di un Andreotti intento a proclamarsi innocente nonostante i fatti affermino nettamente il contrario, senza negare al pubblico quella malcelata e amara ironia che contraddistingue i suoi spettacoli. E ancora, in un impeccabile siciliano, si cala nei panni di un Tommaso Buscetta collaboratore di giustizia, intento a chiarire la natura dei rapporti tra il Divo e Salvo Lima, di Baldassare “Balduccio” di Maggio che descrive gli incontri avvenuti tra Andreotti e il Capo dei Capi Totò Riina.

La musica narra, descrive e accompagna lo spettatore, supportando la figura solitaria dell’attore sul palco. Il monologo incalzante, litigioso, caratterizzato da un tono che non ammette repliche, esprime la rabbia di chi è costretto a vivere sotto scorta per amore della verità, dinanzi a uno Stato che dovrebbe per definizione garantire protezione e sicurezza, in quanto sinonimo di collettività, e che invece “se ne lava le mani”.

Ed è proprio quando lo spettacolo si avvia alla chiusura, quando quella malinconia fatta di consapevolezza comincia a serpeggiare tra le file del pubblico, che Cavalli chiude, ancora una volta, con un testo di sua composizione, intitolato “Il sorriso di Bruno Caccia”. E’ un monologo che tiene vivo un esile filo di speranza. La memoria, il ricordo di chi è stato costretto a rinunciare alla propria vita, sopravvive, e senza censure.

Un ultimo saluto al pubblico, poi le luci si spengono, la sala si svuota, gli spettatori abbandonano i loro posti con la consapevolezza che l’innocenza senza sottintesi di chi ha combattuto per la verità non si cancella, ed è quella più autentica. Anche se, purtroppo, non è sempre quella che conta.

Da caffèNews

Eversione fiscale

Siamo un Paese talmente di sinistra in cui i dipendenti guadagnano più dei “padroni“. Forse abbiamo esagerato.

I soggetti con reddito da lavoro dipendente prevalente dichiarano un reddito medio di 20.680 euro mentre coloro che hanno un reddito di impresa prevalente dichiarano mediamente 20.469 euro. È quanto risulta dai dati diffusi dal Dipartimento delle Finanze del ministero dell’Economia.

Le potenti intese

POTENTI-INTESE_-copia-2-187x300Enrico Letta era il politico perfetto per incarnare e al contempo nascondere un patto onusto di ipocrisia e di non detti. Lo era per il curriculum e le relazioni; per l’immagine di serietà attenuata quel giusto dalla cordialità dei modi e da qualche cortese battuta; per la capacità di rappresentare mediaticamente un cambiamento generazionale ma anche di stile – e niente auto blu con la scorta quando va a giurare al Quirinale, meglio arrivarci guidando un’utilitaria in favore di fotografi.

Ricordate che orgoglio aveva in fronte il giovane Letta quando presentava il suo esecutivo come «pieno di giovani e di donne»? Che straordinaria operazione mediatica erano le varie Lorenzin e Kyenge, chiamate a camuffare l’eterno pote- re di sempre, l’andreottiano «tiriamo a campare» che si era tolto la grisaglia per esibirsi con il Friday wear.

Il tutto condito da un eloquio di velluto – Enrico Letta non riuscirebbe a litigare veramente nemmeno con il mostro di Rostov – oltre che da una rete bipartisan come quella di VeDrò (a cui il libro dedica alcune delle sue pagine più interessanti).

E, naturalmente, da una parentela come quella con zio Gianni: fondamentale, come vedremo, non perché Enrico sia un «raccomandato», ma perché gli ha permesso di crescere respirando la Roma profonda e antica del potere democristiano. Intendendo per «democristiano», più che un partito, un metodo: un insieme di prassi basate sull’inclusione, la spartizione, l’arrotondamento degli spigoli, la coltivazione dei rapporti, lo scambio perpetuo e sorridente, insomma la subcultura di casa Angiolillo che sopravvive a ogni mutamento e ogni mutamento assorbe, anestetizza, annulla. E che pure è fra i protagonisti di questo libro.

(Uno stralcio dalla prefazione di Alessandro Gilioli per il libro di Matteo Marchetti e Luca Sappino “Le potenti intese”, uscito oggi per Castelvecchi. Vale la pena leggerlo, per capirsi).

Documentarsi per indignarsi: le carte sull’On. Crisafulli

Sta passando abbastanza sotto traccia (anche se ne ha parlato Pif alla Leopolda e qualcuno ne scrive) la vicenda di Crisafulli, i suoi incontri con i boss e il suo appoggio (consistente, nelle sue zone) alla mozione Cuperlo. Poiché ogni volta che si affronta questo argomento arrivano di seguito strali e diverse interpretazioni dei fatti (nell’augurio di un Paese che riesca a farsi un’idea sull’inopportunità al di là dell’esito della giustizia) mi sembra il caso di lasciare qui la circostanziata CNR (Comunicazione Notizia di Reato) dei Carabinieri del Comando provinciale di Enna. Perché conoscere per indignarsi in modo sano è sempre un buon esercizio:

Qui il link.

Riina ordina che Di Matteo deve morire

“Di Matteo deve morire. E con lui tutti i pm della trattativa, mi stanno facendo impazzire”. Totò Riina era furibondo qualche giorno fa, dopo l’ultima udienza del processo che sta scandagliando i segreti del dialogo fra Stato e mafia. “Quelli lì devono morire, fosse l’ultima cosa che faccio”, ha urlato il capo di Cosa nostra a un compagno di carcere, e le minacce non sono sfuggite a un agente della polizia penitenziaria.

110109484-bde21fd0-1293-4c0f-82e6-ee95a0a61fcfNino Di Matteo è ancora sotto minaccia, in continuazione, mentre il processo sulla trattativa si svolge con ali politiche starnazzanti e i magistrati coinvolti rischiano di rimanere soli. Qualcuno dice che Di Matteo dovrebbe forse essere trasferito in località protetta insieme alla famiglia senza pensare che sarebbe un segnale desolante e triste per lo Stato. La solitudine istituzionale è il miglior modo per uccidere e non voglio nemmeno pensare che gli ordini di Riina ‘U Curtu possano ancora valere qualcosa e andare a segno. Forse qualcuno non se ne rende conto ma su Di Matteo si gioca la credibilità lasciata in eredità da Falcone e Borsellino. A Nino e alla sua famiglia va il mio abbraccio più largo e stretto che sia mai riuscito a fare.