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Giulio Cavalli

Teatrionline su “L’innocenza di Giulio”

Successo per l’intenso monologo di Giulio Cavalli

L’innocenza di Giulio, Andreotti non è stato assolto”. Secco il titolo per quello che è uno spettacolo intenso, senza mezze misure, “maleducato e rissoso” come sottolinea lo stesso Giulio Cavalli, che da anni paga con la vita sotto scorta il suo teatro di impegno civile. Il Nuovo Teatro Sanità ha ospitato per due giorni l’attore milanese, tanti gli applausi e l’emozione della sala. Cavalli giunge a Napoli dopo un ottobre burrascoso, avrebbe dovuto allestire lo spettacolo il mese scorso, ma è slittato a causa di nuove minacce all’artista. A introdurre il monologo è un video di Giancarlo Caselli, il giudice che ha istruito il processo Andreotti, che ribadisce come l’informazione sia stata manipolata e quanto la “memoria” sia stata rimossa fino a volere Andreotti “assolto”. Ma il rapporto stato-mafia va oltre la figura del “divo Giulio”, affonda le radici nella storia d’Italia, parte da 100 anni fa. Nel 1893 veniva ucciso Notarbartolo, il primo delitto politico, il primo nome in una lunga lista di innocenti. Quei nomi e quei volti, i tanti morti ammazzati compaiono nei video che alternano i monologhi di Cavalli, accompagnati dalle bellissime musiche di Stefano “Cisco” Bellotti. L’attore in un’altalena di emozioni si fa testimone e accusato. Diventa Tommaso Buscetta, che nella sua deposizione ricostruisce i rapporti di Andreotti con Salvo Lima e con “gli amici degli amici”, o Balduccio di Maggio che interrogato durante il processo riporta l’incontro tra Belzebù e il boss dei boss Totò Riina, o ancora con quel tono irriverente ed ironico che lo contraddistingueva assume le sembianze oscure dello stesso “divo” intento a negare ogni rapporto con la mafia. Pochi oggetti lo aiutano nella messa in scena, due sedie di legno con leggìo, ognuna ai lati del palco, sul fondo un inginocchiatoio su cui è poggiato un impermeabile, l’angolo della non confessione. Uno spettacolo costruito come un mosaico, tanti pezzi che portano ad un’unica conclusione. Una vicenda quella del processo Andreotti in cui i “cattivi” sono sempre ritratti in foto con il divo e i “buoni” sono morti ammazzati, come Ambrosoli o il generale Dalla Chiesa. Le parole di Cavalli tracciano una lungo balletto tra stato e mafia fino ai giorni nostri, pesano come dei macigni e colpiscono la sensibilità dello spettatore che non può far altro che costatare la verità del finale: la storia del nostro paese dimostra che ci sarà sempre “un’innocenza di Giulio”.

Francesca Bianco per teatrionline.com

Il laboratorio Basilicata

In Basilicata tra poco si vota per le regionali dopo la sfortunata decadenza dell’ultima Giunta. Sono elezioni che possono essere significative non solo per la Basilicata ma per leggere quello che succede e che succederà in un panorama che sembra avvitarsi su se stesso.

Vale la pena leggere le parole di Giuseppe Morelli, esponente locale di Sel e candidato al consiglio regionale all’interno del listino della Murante:

La dirigenza nazionale di sel ha condiviso la scelta di rompere con i democratici?

Ha preso atto. Ad alcune nostre riunioni hanno partecipato anche alcuni dirigenti del nazionale come Ciccio Ferrara, abbiamo spiegato loro le nostre motivazioni e abbiamo ricevuto il loro sostegno. Sinistra ecologia libertà non è nata per fare la stampella al Pd ma per  imprimere un nuovo volto al centro-sinistra; in Basilicata non ci sono le condizioni politiche per farlo quindi meglio portare avanti le nostre battaglie dove c’è la possibilità per farlo.
Quali sono queste battaglie?
Prima di tutto una moratoria sulle perforazioni petrolifere: non possono continuare con questa intensità e in ogni caso non è giusto che i ricavati di questa attività non siano redistribuiti alla collettività. Per questo chiediamo anche di aumentare le tasse sui profitti da petrolio per finanziare una legge regionale sul reddito minimo garantito, una misura assolutamente essenziale in una regione in cui il lavoro non c’è più e i distretti industriali, penso ad esempio a quello del mobile di Matera, stanno chiudendo.
La vostra scelta di creare un polo autonomo delle sinistre sarà il preludio di una nuova strategia politica nazionale?
Se guardiamo al successo che hanno avuto le manifestazioni del 12 e del 19 ottobre direi che uno spazio politico per chi, da sinistra, non si riconosce nella politiche delle larghe intese c’è. Si tratta di vedere da chi e come sarà ocupato.

Cancellieri: due domande e una risposta

Può un Ministro della Repubblica “attivarsi” per un parente, amico, conoscente, amico dell’amico? No, non può, in nessun caso.

Può un Ministro della Repubblica occuparsi di segnalazioni di casi particolarmente gravi ed urgenti agli uffici competenti? No, non può. Il Ministro ha altro di cui occuparsi: se la struttura organizzativa di segnalazione e presa in carico di simili problemi non funziona si dovrebbe occupare di migliorarla, non di sostituirsi ad essa.

La risposta alla prima domanda è condizione sufficiente per le dimissioni di Cancellieri. La risposta alla seconda è l’ammissione spicciola della propria inadeguatezza di Ministro.

Massimo Mantellini prova a fare sintesi senza banalizzare.

Ti racconterò tutte le storie che potrò

ti-raccontero-tutte-le-storie-che-potroIn quei giorni ero contesa da prefetti, generali e alti esponenti delle istituzioni. Mi invitavano e mi sussurravano tante domande. Su Paolo, sulle sue indagini, su ciò che aveva fatto dopo la morte di Giovanni Falcone, sulle persone di cui si fidava. Mi sussurravano domande dentro quei saloni bellissimi pieni di gente importante. E mentre mi chiedevano mi sembrava come se mi stessero osservando, anche se facevano altro: mangiavano una tartina, sorseggiavano un prosecco, ascoltavano il discorso dell’autorità di turno, o magari danzavano.
Ora so. Ora so perché mi facevano tutte quelle domande. Volevano capire se io sapevo, se mi aveva confidato qualcosa nei giorni che precedettero la sua morte. E allora tante parole di mio marito mi sono apparse chiare, chiarissime. Ho cominciato a guardare fra i suoi appunti. Ho riaperto i cassetti dello studio. Ho sfogliato i suoi libri. Ho vagato per casa, pensando a ogni angolo dove lui si rifugiava, come per ricordare una sua parola ancora.

Era il 1968. Una mattina, mentre andavo all’università, vidi Paolo che attraversava la strada e mi veniva incontro. «Ciao Agnese», mi sussurrò. «Come stai? Ti posso accompagnare? Gradisci?». Gli feci un grande sorriso. Quando parlava, il suo volto si muoveva tutto. La bocca, gli occhi, la fronte. Aveva una mimica davvero particolare.
Quella mattina in riva al mare mi innamorai di Paolo. E lui di me. Era come se ci fossimo innamorati per la prima volta, anche se avevamo già la nostra età. Lui ventott’anni, io venticinque. Io gli raccontavo dei miei sogni. Lui mi raccontava le sue storie. Mi ricordo, era vestito con degli abiti semplici, quasi umili direi. Un pantalone e una maglietta,  niente altro. Non è mai cambiato in questo. Il giorno che è morto gli hanno trovato le scarpe bucate. Una sua collega mi sussurrò: «Prendi le scarpe del matrimonio, mettiamo quelle». Lui le aveva conservate con cura in una scatola. Ma sono servite a poco, perché Paolo non aveva più le gambe, e neanche le braccia, il suo corpo era stato dilaniato dall’esplosione.
Pochi giorni dopo la passeggiata al Foro Italico decidemmo di sposarci. E pure in fretta. Quella scelta scatenò però un terremoto. Tutti ci presero per matti. “Forse ci fu cosa?”.
Ovvero, forse Agnese aspetta un bambino e quello è un matrimonio riparatore? Naturalmente, allo scoccare dei nove mesi, tutti dovettero ricredersi. E in paese dissero: “Allora, vero colpo di fulmine fu”.
* * * Amore mio, ogni giorno scendeva da casa alle 4 del mattino, si faceva un bel po’ di strada a piedi e andava fino alla stazione Lolli per prendere il treno diretto a Mazara del Vallo. Alle 8 era già nella sua aula di pretore. Qualche volta, mentre era sul treno di ritorno verso Palermo, telefonavano a casa perché c’era stata un’emergenza a Mazara. Era la prima cosa che gli dicevo al suo rientro, dopo averlo abbracciato. Lui non batteva ciglio, non si lamentava. Beveva un bicchiere d’acqua senza neanche togliersi la giacca. Mi dava un bacio e mi sussurrava rammaricato: «Ci vediamo domani». E tornava alla stazione Lolli, di corsa, per prendere l’ultimo treno del pomeriggio.
Un giorno fummo invitati a casa del senatore La Loggia. Gli amici chiacchieravano e si vantavano: «Mio padre, il senatore»; «Mio padre, il principe»; «Mio padre, il professore di università».
Vedevo che Paolo era insofferente, era chiaro che non ne poteva più. Dopo un attimo di silenzio, disse: «Mio padre era carrettiere, trasportava il fieno». E fece il verso del cavallo. Fui l’unica ad accennare a un sorriso alla battuta di Paolo. «Perché l’hai fatto?” gli chiesi. «Li conosco quei ragazzi, molti sono stati miei colleghi di università». Erano quegli stessi che l’avevano disprezzato perché magari aveva il cappotto rotto o le scarpe bucate.
Alle feste, guardavamo gli altri ballare. Lui rideva come un matto, io protestavo. «Agnese, ma tu perché stai con me? Io non ti do niente di tutto questo. Non sono il tipo di marito che torna a casa sempre allo stesso orario, si mette le pantofole, si siede davanti al telegiornale e poi nel pomeriggio porta la moglie in giro per una passeggiata. Lo sai perché stai con me? Perché io ti racconto la lieta novella». La prima volta che me lo disse, rimasi spiazzata. Mi misi a piangere. «Io ti sollecito, ti stuzzico, ti racconto la lieta novella che sta dentro tante storie di ogni giorno. Ti racconterò tutte le storie che potrò. Così il nostro sarà un romanzo che non finirà mai, sino a quando io vivrò. La lieta novella manterrà sempre fresco il nostro amore. Perché l’amore ha bisogno di mantenersi fresco».
* * * Paolo era sempre il primo ad arrivare in ufficio, di buon mattino, e prendeva una delle adorate papere della collezione di Falcone. Poi aspettava che Giovanni se ne accorgesse. Magari, Paolo si divertiva pure a fargli sorgere il dubbio: «Ma ci sono proprio tutte le tue paperelle? Ne sei sicuro?». Quegli scherzi erano un modo per allentare la tensione. A un certo punto, Paolo lasciava di nascosto un biglietto nella stanza di Giovanni: “Se vuoi riavere la tua papera cinquemila lire mi devi portare”.
* * * Ricordo le parole di Paolo: «Palermo non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla. Perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non ci piace per poterlo cambiare». Anche questa era una buona novella che mio marito mi annunciava ogni giorno. Perché a differenza di tante altre persone lui credeva nell’uomo, anche il più terribile all’apparenza, come appunto è il mafioso. Ecco cosa diceva Paolo ai suoi imputati, persino agli uomini d’onore: «Voi siete come me, avete un’anima, come ce l’ho io. E oltre l’anima cosa avete? I sentimenti». Loro gli rispondevano: «Signor giudice, si sbaglia, noi siamo delle bestie». Un giorno, mio marito convocò Leoluca Bagarella, il cognato di Salvatore Riina, che in quell’occasione si trovava fuori dalla gabbia. Il capomafia era particolarmente nervoso, fece anche il gesto di sputare. La guardia carceraria intervenne subito, prendendo le manette. «Questo è oltraggio a pubblico ufficiale». Ma Paolo intervenne: «Aspetti». E rivolgendosi al capomafia disse: «Ma tu uomo d’onore sei?». E l’uomo d’onore si inghiottì la saliva. Paolo lo lasciò fuori dalla gabbia, senza le manette. Era un messaggio chiaro: non ho paura di te, e addirittura posso anche avere fiducia in te. Credo che in quell’occasione Bagarella, stizzito, ebbe a dire: «Il borsello è viscido».
* * *L’ultima occasione in cui ho visto veramente sorridere Paolo è stato il Capodanno 1991, ad Andalo. Era particolarmente felice perché ci aveva raggiunto suo fratello Salvatore con la moglie e i figli. Fu una festa, l’ultima per la nostra famiglia. In quelle piacevoli serate, Paolo non si limitava a intrattenere la sua famiglia, ogni tanto si allontanava per una sigaretta. E scompariva. Poi, dopo mezz’ora, lo trovavamo in mezzo a una comitiva di giovani sciatori mentre raccontava di Palermo e delle gesta del pool antimafia.
* * * Mi ricordo come fosse oggi quando il primo luglio tornò da Roma e mi disse: «Ho respirato aria di morte». Il pomeriggio era stato al Viminale, per l’insediamento del nuovo ministro dell’Interno Nicola Mancino. Quel giorno aveva anche ascoltato il nuovo pentito Gaspare Mutolo, che gli aveva parlato dei rapporti intrattenuti da alcuni uomini  delle istituzioni con Cosa nostra. Sapeva che dopo Giovanni Falcone sarebbe toccato a lui. L’aveva capito. Al punto da non voler essere baciato né da me, né dai suoi figli. Ci stava preparando al distacco. Due giorni prima di morire, mio marito aveva un desiderio. Mi disse: «Andiamo a Villagrazia, da soli, senza scorta». Non era un marinaio esperto, ma nuotava benissimo, perché solo nel mare si sentiva libero. Incontrammo un amico, che ci offrì una birra. Poi Paolo volle fare una passeggiata in riva al mare. E non c’erano sorrisi sul volto di Paolo, solo tanta amarezza. «Per me è finita. Agnese, non facciamo programmi. Viviamo alla giornata». Mi disse che non sarebbe stata la mafia a decidere la sua uccisione, ma sarebbero stati alcuni suoi colleghi e altri a permettere che ciò potesse accadere.
Amore mio, eri rassegnato. Qualche giorno prima, avevi chiamato al palazzo di giustizia padre Cesare Rattoballi, per confessarti. Poi, sabato, hai baciato uno a uno i colleghi a te più cari. Domenica, alle cinque, non c’eri più.

Tratto da: “Ti racconterò tutte le storie che potrò”
Agnese Borsellino con Salvo Palazzolo
(Editore Feltrinelli, € 18.00, pagine 224, IN USCITA IL 6 NOVEMBRE 2013)

(da Campania su web) «In ogni era ci sarà un’Innocenza di Giulio». Cavalli al NTS

Da campaniasuweb.it

Avrei potuto aspettare come tutti gli altri. Avrei potuto mettermi in fila, stringere i denti, tirare le labbra in un sorriso e aspettare. Uguale e preciso a tutti gli altri. E invece non l’ho fatto. Me ne sono andato subito, praticamente due minuti dopo la fine dello spettacolo. E non perché non mi fossero piaciuti Giulio Cavalli e la sua “Innocenza di Giulio”. Anzi, al contrario: mi sono piaciuti talmente tanto che mi sono detto che conoscere l’interprete, la voce sciorinante e sciorinata, la mano dietro i gesti, il sorriso dietro le imitazioni di Andreotti mi avrebbe spezzato. Nel fisico come nell’animo. E allora via: dalla Sanità, dal NTS, a casa: viaggio diretto senza fermate. In testa solo una cosa: la voce di Giulio Cavalli. Una voce che ti coinvolge e che – assurdamente – ti parla. Che si fa ascoltare.

MAFIA: UN STORIA LUNGA 100 ANNI – Chiudo gli occhi e lo vedo. Lui, Giulio, seduto su una sedia di legno, di quelle vecchie che a Napoli si trovano ancora, schienale dritto, spalliera ricurva e niente braccioli, laccata e lucida. Lì, seduto, che parla. Racconta una storia, quella della Mafia. Una storia vecchia di 100 anni, ammuffita ed appesantita dai ricordi. Una storia, però, attuale. I volti, le immagini, le musiche: un mix incredibile, un viaggio onirico a occhi aperti. A me, francamente, è piaciuto. Ho visto un uomo, Giulio, affrontare un mostro, una leggenda, una macchia senza nome e senza età: l’altro Giulio. E ho capito – ho pensato di aver capito – tante, tantissime cose. Le apparenze sono solo apparenze, non sono quello che sembrano: «Non è tutto oro quello che luccica». La Mafia c’è, esiste ed è sempre presente. Ovunque, anche dove meno te l’aspetti. Questo ho sentito nelle parole di Cavalli: la presenza costante, l’ombra senza forma e senza peso della Mafia. Un’ombra marcia, fetente, terribile. Da vomito. «In ogni era c’era e in ogni era ci sarà un’Innocenza di Giulio». «Siamo un paese di opportunità». Secco, lapidare, profetico.

UN OCEANO DI STORIE – Ne “L’Innocenza di Giulio” non c’è solo l’Andreotti politico; c’è pure un po’ di quell’Andreotti furbo e furbacchione, di quella mano che tocca e che palpa; di quella storia, sentita e risentita, che si chiama “omertà all’italiana”. Morti ammazzati: ce ne sono ovunque nel monologo di Cavalli. Coincidenze, fatti, incontri e scontri. Una catena infinita. Una catena che inizia e che non finisce. Andreotti che non sa, Andreotti che non conosce: né i cugini Salvo né i boss di Cosa Nostra. C’è una sentenza – una sentenza che non dichiara l’innocenza, ma che ne convalida, al contrario, l’inesistenza. E c’è un uomo: camicia, bretelle calate, pantaloni, mani che non stanno ferme un attimo, che racconta. Vomita parole, si ripete, si rinnova. Spiega. Un fiume, un fiume in piena; un oceano di storie. Mafia contro mafia, politica contro politica. Mafia e politica a braccetto.

DA ANDREOTTI A BERLUSCONI – Lo spettacolo di Cavalli è frenetico, febbricitante, vissuto sulla pelle e raccontato con voce roca, a tratti modulata (all’Andreotti) e a tratti irriconoscibile. Un’ora e mezza passata a sentire, a capire, a ricordare. Un bis che bis non è e che riprende la storia di un Andreotti 2, meno furbo ma ugualmente promettente: Silvio Berlusconi. Poi c’è Dell’Ultri, di cui bisogna parlare leggendo – «perché m’ha denunciato, e contrariamente a Giulio ha ancora qualche decennio». E c’è Mangnao e c’è Cinà, «la brava persona». C’è la Mafia al nord negli anni ’80 con la storia di Bruno Caccia e c’è la gente per bene con i cento passi cantati in sottofondo.

UNO SPETTACOLO DE VEDERE – A noi – come ha detto Cavalli – piace raccontare le storie dalla fine. E l’ho fatto anche io, con la mia premessa. Me ne sono andato prima da teatro, pur potendo parlare con il protagonista. Avevo questa sensazione dentro, come se conoscessi Giulio Cavalli da anni, lui che non è mio coetaneo, lui che è attore e scrittore civile. A me il suo racconto è piaciuto. E vi consiglio di andare a vederlo. Perché una storia raccontata così è una storia che vale la pena di essere ascoltata. È una storia bella, ma di quella bellezza terribile, non da film contemporaneo o da fiaba, ma da monologo. Bella come solo l’onestà, certe volte, sa essere.

(Intervista, da LA REPUBBLICA) Teatro sotto scorta per Giulio Cavalli Impegno civile al rione Sanità

da La Repubblica

Schermata 2013-11-03 alle 11.08.40“Smettiamola con questi voyeurismi paratelevisivi sui personaggi minacciati: interroghiamoci invece su che razza di paese è quello che costringere sotto scorta i suoi cittadini”. Giulio Cavalli, sotto scorta dal 2009 per il suo impegno antimafia a teatro, si esibirà all’Nts -Nuovo Teatro Sanità stasera alle 21 e domani alle 18 con “L’innocenza di Giulio  –  Andreotti non è stato assolto” (ingresso 10 euro). Lo spettacolo, che doveva andare in scena il 5 ottobre, è slittato a causa delle nuove minacce ricevute da Cavalli: l’attore ha ritrovato nel giardino della sua casa romana una pistola carica.

Dopo l’allarme e il trasferimento in una nuova località protetta con la sua compagna Miriana Trevisan, Cavalli è riuscito a fare una breve tappa a Napoli il 15 ottobre per guidare la Mehari di Giancarlo Siani. L’attore ha scelto di portare il monologo sul “Divo Giulio” solo al rione Sanità: “Altrove  –  spiega  –  nei teatri da avanspettacolo, non sareiandato”. E proprio una storia di camorra è al centro del suo romanzo in uscita a gennaio per Rizzoli: è la vicenda di Michele Landa, il metronotte ucciso a Mondragone. Si intitola “Mio padre in una scatola di scarpe”, ispirato alla vittima innocente che sorvegliava i ripetitori telefonici rubati dalla camorra.

Cavalli, come si vive sotto scorta?
“Non vivo peggio di chi non ha i soldi per arrivare a fine mese o di chi vive in territorio sotto ricatto delle mafie. Non voglio diventare, però, l’oggetto scenico dei miei spettacoli, quindi smetterei di parlare della scorta, e parlerei invece di che razza di Paese è quello che costringe sotto scorta i suoi cittadini”.

È stato consigliere regionale in Lombardia nelle fila dell’Idv, il suo teatro civile si occupa di mafia: cosa pensa della desecretazione tardiva dei verbali del 1997 nel quale il pentito Schiavone ammetteva che in vent’anni la popolazione della Terra dei fuochi sarebbe morta di cancro?
“Credo sia una magra consolazione per il movimento della Terra dei fuochi: la vera vittoria ci sarà quando avremo una classe dirigente capace di portare in Parlamento le tematiche centrali per il bene dei cittadini, e non solo dopo una manifestazione o la dichiarazione di un pentito”.

In questi giorni i residenti del rione Sanità denunciano la recrudescenza criminale, anche se ilquartiere riesce ancora ad essere meta dei turisti. Perché ha scelto di andare in scena nel neonato teatro Nts, e non in uno più blasonato?
“Nei templi dell’avanspettacolo non avrei messo piede. È meritevole il lavoro portato avanti del direttore artistico Mario Gelardi in un quartiere complesso, e va sostenuto. Ma, intendiamoci, questo paese non ha bisogno di altri eroi, anche perché l’Italia, dove devi essere morto per essere credibile, non si cambia certo solo con ilteatro e la cultura…”

A proposito, sul Forum delle culture, che è sempre sul punto di saltare, quali consigli dà al suo amico Luigi de Magistris?
“Luigi ha tante grane da sbrigare, mi sembra di capire. La questione però è che a Napoli e nel resto del Paese la cultura è derubricata a faccenda minoritaria, quando sento il ministro Bray elencare i suoi propositi mi ricorda la solitudine de “Il deserto dei tartari”.

Lo spettacolo su Andreotti nasce dalla collaborazione con il procuratore di Torino Giancarlo Caselli e lo scrittore Carlo Lucarelli, musiche di Cisco dei Modena City Ramblers. Quando ha capito che aveva trovato un taglio originale per una storia arcinota?

“Semplice: quando Andreotti si è arrabbiato. La sua storia è stata sempre raccontata in maniera edulcorata, il mio spettacolo invece è rissoso, maleducato: conoscere il processo Andreotti significa riconoscere la politica che tenta di legittimare l’illegalità. Il pentito di ‘ndrangheta che ha rivelato il piano per farmi fuori diceva che ero uno “scassaminchia”: beh, forse è vero…”

(Da LINKIESTA) Il divo Giulio: a Napoli, NTS, raccontato da Cavalli

(da www.linkiesta.it)

giulio_cavalli_2012_foto_emiliano_boga_alta_ris-10Giocava il Napoli ieri sera. E in città – potete credermi se ve lo dico – non volava una mosca. Piglio il pullman, scendo le scale, seguo la strada e m’avvio al NST: il teatro diretto dal capace Mario Gelardi, che da una chiesa ha cavato fuori una perla. Giulio Cavalli è di là, oltre il portone massiccio del foyer, che prova e riprova, perché – mi ha raccontato poi una degli addetti ai lavori – «è arrivato tardi». Sono le 8 e alle 9 si comincia.

Potrei raccontarvelo in tutte le salse. Dirvi, molto banalmente, che m’è piaciuto. Che Cavalli mi ha conquistato. Che chi lo critica, a torto o a ragione, non vede il quadro completo, non ha gli occhi aperti; pensa di sapere e in realtà ignora. Mafia, vittime, politica, democrazia cristiana e Andreotti. Andreotti su tutto, come un ragù insipido e annacquato: Andreotti che parla, che si confessa, Andreotti al processo; Andreotti che prende vita nella voce dell’altro Giulio.

Come se non bastasse Cavalli, ci si mettono anche la musica, i video, le testimonianze. Uno spettacolo interattivo e interagente. Uno spettacolo breve – rispetto alla media – ed essenziale in tutte le sue parti. Un docu-film senza pellicola che inizia e finisce allo stesso modo: raccontando dell’innocenza, presunta, urlata e inesistente, di un uomo. Prima di Andreotti, poi – scherzo del destino – di Berlusconi. Filo conduttore: Cosa Nostra. Dai cugini Salvo a Salvo Lima, da Riina a Mangano, alla «brava persona» Cinà; al boss Belfiore, assassino di Bruno Caccia.

Il bis non-bis, le risate (amare), i racconti, i pensieri. Questo è teatro impegnato prima ancora che civile. Per denunciare certe cose su un palco, in diretta, con gli spettatori che ti fissano dritto in faccia, aspettando solo di poterti riprendere per il tuo più piccolo errore, non ci vuole coraggio, ci vuole qualcosa di più. Ci vuole onestà, che trovarla, di questi giorni, è proprio un’impresa.

di Gianmaria Tammaro

Twitter: @jan_novantuno

Cancellieri, fate i seri

Ora che sappiamo che un Ministro ha chiamato i famigliari di un condannato (con cui ha spartito interessi tramite alcuni suoi diretti famigliari) e ha promesso di fare tutto il possibile, ora che sappiamo che per difendersi ha parlato a sproposito di umanità (in un Paese disumano nelle carceri, nei diritti mica solo per la figlia di Ligresti), ora che sappiamo che un Ministro pensa che sia giusto risolvere una questione fondamentale come quella dell’insalubrità delle patrie galere affrontando (fingendo di crederci) un caso alla volta cominciando guarda caso proprio dalla figlia di Ligresti, mi piacerebbe sapere:

– cosa ne pensano i segretari dei partiti.

– cosa ne pensa Letta.

– cosa ne pensano i candidati al Congresso del PD.

Senza prese in giro, senza giri di parole. Così la politica sarebbe più appassionante e appassionata.

Fingere di non sapere Quarto Oggiaro

Dai, su, non può stupire che a Quarto Oggiaro esistesse una famiglia dominante e che questa famiglia fossero i Tatone, sempre perfettamente coordinati da mamma Rosa alias Nonna Eroina e i suoi cinque figli. Non spaventa l’uccisione dei fratelli Tatone ma fa paura soprattutto la possibile motivazione che sta dietro al duplice omicidio: due morti ammazzati nel giro di così poche ore e in modo così eclatante sono un messaggio che deve arrivare il prima possibile e il più forte possibile a tutti e a chi deve capire. Già dopo il primo omicidio avevo espresso il timore di una guerra che volesse portare alla riappropriazione di un’importante piazza di spaccio come Quarto Oggiaro (in questa intervista) e oggi credo che la tesi cominci a diventare un dubbio diffuso. Forse un patto antico che aveva sancito di “lasciare” quel pezzo di Milano ora non vale più, le condizioni sono diverse e vanno accettate. Con le buone o con le cattive.