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Giulio Cavalli

Per il nostro bene

9788861903814_per_il_nostro_bene_3dbPER IL NOSTRO BENE è il libro sui beni confiscati di Ilaria Ramoni e Alessandra Coppola edito da Chiarelettere. Devo fare una precisazione importante: Ilaria è una delle persone più preparate, appassionata e appassionante sul tema antimafia che io conosca. Naturalmente scrivere un libro sui beni confiscati senza cadere nella retorica buonista dello scippo allo scippatore ma con la schiena diritta di chi sa e conosce un ideale antimafioso che stenta da troppi anni in Italia non è facile. Sulla questione dei beni confiscati abbiamo assistito in questi anni ad un lento e costante percorso di  mitizzazione che non rende giustizia alla realtà: basta una casetta minuscola di un insulso mafioso per fare del sindaco e o del prefetto di turno un eroe da fotografare con taglio del nastro, commozione e millanterie da intervista: roba da marchettari, cose così.

PER IL NOSTRO BENE entra invece a piedi uniti (e con preparazione giuridica, finalmente) sul ruolo mancante troppo spesso da parte dello Stato nella rivitalizzazione dei beni sottratti alla mafia e sulle tortuosità burocratiche di un cammino che troppo poco arriva a buon fine. Confiscare un bene non è solo sottrazione materiale alle mafie ma dovrebbe essere (e spesso non è) uno dei passaggi di un disegno globale di lotta al crimine e di crescita dell’economia legale del Paese. Per farlo avremmo dovuto avere una classe dirigente all’altezza del progetto che sventolava, e non è stato così. L’Agenzia Nazionale per la gestione e destinazione dei beni sequestrati e confiscati non ha avuto (e non ha) i mezzi per diventare davvero il cuore e il cervello delle rinascite nei territori e troppo spesso alle associazioni o agli amministratori che hanno ricevuto il bene abbiamo chiesto di essere eroi senza nemmeno riuscire a guidarli e garantirli. Così oggi il tema del bene confiscato rimane buono sul piano ideale per le scolaresche ma fallisce sul piano imprenditoriale e ancora sentiamo dire che “la mafia almeno dava lavoro e pagava gli stipendi”, come ai tempi di Caselli con Andreotti.

Il libro è un manuale delle cose sbagliate che ha il coraggio e il cuore di non invitare al pessimismo ma alla consapevolezza costruttiva. E l’antimafia e questa Italia hanno bisogno come il pane di libri così.

Ecco un estratto del libro:

La villa di Tano Badalamenti a Cinisi, la reggia di “Sandokan” Schiavone a Casal di Principe, l’enclave dei Casamonica nella periferia romana, perfino una residenza principesca a Beverly Hills, proprietà di Michele Zaza, ’o Pazzo, re del contrabbando. E poi cascine di ’ndrangheta in Piemonte, tenute in Toscana, castelli, alberghi, discoteche, campi di calcio, maneggi. L’inchiesta di Alessandra Coppola e Ilaria Ramoni.

La serata è tersa, la brezza leggera. Capri è così nitida che quasi si distinguono i profili delle case. Ci fosse la luna, da qui, sopra Posillipo, si vedrebbero pure le onde del mare. Don Michele sorride: calma e buia, la notte ideale per un grosso carico.

Il terzo turno è il suo. Così è stato stabilito con i compari siciliani, e così racconterà il collaboratore Francesco Marino Mannoia: prima Tommaso Spadaro, poi Nunzio La Mattina, quindi gli scafi blu di don Michele, per ultimi gli uomini di Brancaccio. La «nave madre» attracca al largo, 35-40.000 casse per volta. Abbastanza per tutti, mafiosi e camorristi. In abbondanza per il più bravo, «’o Pazzo» che ha tenuto testa ai Marsigliesi e si è affiliato a Cosa nostra, ha venduto 5 milioni di chili di sigarette e fatturato 500 miliardi di lire. Il cuore matto perché malato, ma generoso per migliaia di dipendenti, sulle barche dipinte di blu come il mare o accanto alle cassette di frutta rovesciate a fare da tabaccherie clandestine. La testa fina, da guappo che capisce di commerci: «Usa ogni trucco per scaricare le sigarette nel proprio interesse, anziché in quello dei capi famiglia palermitani» racconta di lui, ridendo, Stefano Bontate a Tommaso Buscetta. Perché lo sanno tutti che nel settore è il numero uno, è lui «il re del contrabbando», don Michele Zaza, ’o Pazzo.

Questa villa è la sua. La terrazza sul mare, le piastrelle in cotto, le porte scorrevoli, la piscina. E poi, certo, anche il cancello blindato, le inferriate appuntite, gli appartamenti ricavati nel seminterrato per i suoi uomini, Attilio, Gennaro, Giuseppe «Biberon», le finestre strette e profonde che sembrano feritoie di un castello. Fortificato, ma chic: non per nulla si chiama La Gloriette. Gli altri rimanessero pure a Forcella o al Pallonetto. Don Michele ha orizzonti più ampi. Con i nipoti Mazzarella, controlla la costa da Santa Lucia a San Giovanni a Teduccio. Ma la moglie, Anne-Marie, è nata a Lione, e lui guarda alla Francia, a giri d’affari che varcano i confini. Una villa tra i ricchi napoletani, sulla collina di Posillipo, un’altra in Costa Azzurra, una terza su alture lontane, addirittura in California, a Beverly Hills.

Del resto, pensa don Michele, ha messo su un’impresa, ha rischiato e ha avuto successo. Se lo merita, pensa. L’ha spiegato anche alla tv: «Sono settecentomila le persone che vivono di contrabbando, che per Napoli è dunque come la Fiat per Torino. Qualcuno mi ha chiamato l’Agnelli di Napoli… Sì, certo, tutto potrebbe essere fermato nel giro di mezz’ora, ma per quelli che ci lavorano sarebbe la fine. Diventerebbero tutti ladri, rapinatori, borseggiatori. Napoli diventerebbe la città più invivibile al mondo. Invece questa città dovrebbe ringraziare i venti, trenta uomini che organizzano le operazioni di scarico delle navi di sigarette, quindi fermano la delinquenza». E si fanno ricchi.

Arriviamo a Posillipo dal Vomero, via Manzoni e poi via Petrarca, che su un lato sembra disabitata e invece nasconde un club esclusivo di ville, che nessuno vede ma qualcuno possiede, lungo le discese che portano al mare. Un’altra Napoli, verde e protetta. Alla portata di altre tasche.

L’appuntamento è al numero civico 50, accanto a un bar con terrazza e i sigilli di un sequestro, una vicenda diversa. Troppi soldi da queste parti perché siano tutti puliti. La guardiola del portiere con i vetri fumé, i parcheggi con le macchine di lusso, qualcuna provvisoriamente all’esterno, numerosi Suv, dicono ci sia anche una Bentley. Due ville del complesso sono ancora di proprietà dei figli di Zaza, convocati alle riunioni di condominio insieme alle associazioni che ora gestiscono la casa di papà.

Sono passati quarant’anni dalla stagione d’oro del contrabbando di sigarette, quando don Michele s’affacciava sul Golfo, quasi trenta dal sequestro, ma il fortino della Gloriette non ha ceduto: i mattoni di tufo sporgenti che simulano un bugnato, la terrazza che gira tutt’intorno con la vista perfetta da Punta Campanella a Coroglio, la piscina transennata ma in buono stato, il bassorilievo anni Settanta riemerso dietro un tramezzo, con figure di animali che sembrano simboli, un pavone, un boa, la sagoma di una donna senza volto. Ma anche una certa raffinatezza. In questo viaggio tra gli appartamenti e i gusti approssimativi dei mafiosi, un’eccezione.

Le chiavi le ha Aldo Cimmino: si è da poco laureato in giurisprudenza, con l’idea di preparare il concorso in magistratura, e collabora con l’associazione Libera. Entriamo dal garage nel seminterrato che alloggiava i «soldati» di Zaza, collegato al piano superiore da un cunicolo per le fughe improvvise. Stanze più piccole e buie, una dietro l’altra, le grate alle finestre, bagni, fornelli e il necessario per lunghi soggiorni.

Uomini armati e fidati sono indispensabili al boss. Col passare degli anni la faccenda del contrabbando si è fatta rischiosa. Sulle rotte delle «bionde» adesso s’innesta il più lucroso traffico di droga. E sulla scena criminale campana comincia a farsi strada la Nuova camorra organizzata di Cutolo. Zaza cerca una mediazione, ma nella sanguinosa stagione della lotta tra bande ha molto da temere. Il cuore malato gli regge a stento quando la polizia nell’81 lo blocca in auto, a Roma: immagina un agguato di cutoliani vestiti da agenti. È l’avvio di un decennio di arresti, ricoveri, evasioni e Costa Azzurra, ma con una salute sempre più incerta. Vincenzo Di Vincenzo, allora giovane cronista dell’Ansa, è l’ultimo a intervistarlo, nella villa di Villeneuve Loubet, nel ’91. Lo ricorda malconcio, in tuta da ginnastica, un’infermiera gli cala i calzoni per un’iniezione mentre lui parla: «Se rinasco un’altra volta – ride – mi metterei in politica». Intanto è ancora in affari, tra Nizza e Mentone ha fiutato il business dei casinò, lavanderie ideali per i suoi miliardi illeciti. Non farà in tempo. Catturato di nuovo ed estradato in Italia, morirà per un attacco di cuore nel tragitto tra il carcere e il Policlinico, a Roma, nel luglio del ’94, a cinquant’anni. Senza aver più fatto ritorno alla Gloriette.

Uno spreco. Quasi 140 metri quadrati seminterrati, più 200 del piano «nobile», più 800 di vialetti, terrazza, piscina e giardinetti. Ai quali si deve aggiungere un terreno di 11.000 metri quadrati pochi passi più in là, in uno dei posti più belli di Napoli, adesso occupato abusivamente da qualcuno nascosto nell’ombra. Una roulotte, degli stracci, un branco di cani che abbaiano rinchiusi in gabbie fatiscenti, quel che resta di una vigna, mangiata dalle erbacce, una traccia di pomodori. E ancora oltre, una selva incolta nella quale è difficile avanzare.

Diventerà un orto urbano, forse. Intanto, al piano di sotto della villa, Aldo ci fa immaginare una sala conferenze, una foresteria, uno studio di registrazione per Radio Siani, una sede di Legambiente e la segreteria di Libera, che dal dicembre 2010 ha la gestione del seminterrato. Sopra, dove ci sono terrazza e piscina, saranno montati gli scivoli per i disabili e sarà allestito un centro diurno «dedicato a persone con problemi di autonomia e integrazione sociale».

Confiscata in via definitiva nel 2001, La Gloriette in un primo tempo è stata mantenuta allo Stato (2005) per essere assegnata alla Questura di Napoli come sede del commissariato Posillipo. Trascorre un altro lustro, e non se ne fa nulla. Nel luglio 2010, la villa passa al Comune di Napoli, che affida il primo piano alla cooperativa L’Orsa Maggiore. Ci sono il progetto, i fondi per la ristrutturazione, già in parte avviata, l’idea di «una casa sociale in cui le persone si sentono accolte e riconosciute», ed è tutto spiegato in un sito web dettagliato. Navigando alla voce «eventi» nel pdf della brochure compare una nota a margine: «L’attivazione del Centro è attualmente sospesa per l’insorgenza di problemi tecnici relativi all’immobile».

Che tipo di problemi? «Di ogni tipo» sorride Fabio Giuliani. Già collaboratore dell’assessore alla Sicurezza Giuseppe Narducci (nella giunta de Magistris fino al giugno 2012), oggi nell’Ufficio nazionale per i beni confiscati di Libera, Giuliani conosce la questione da più punti di vista: «È il classico bene che non si sarebbe dovuto assegnare» ammette. Non prima di averlo liberato dai lacci, almeno. «Per il vincolo idrogeologico è intervenuto il Comune, che ha declassato l’immobile da R3 a R2», quindi l’ha sciolto. Resta l’abuso edilizio. Per il quale, a sorpresa, è venuta in aiuto la moglie di Zaza, Anne-Marie Liguori, in alcuni documenti italianizzata Anna Maria: «Per usufruire del condono si sarebbe dovuto fare richiesta entro 180 giorni dall’assegnazione da parte dell’Agenzia nazionale», possibilità sfumata. «C’era però la domanda di condono presentata dalla signora Zaza nell’89, che comprendeva un’oblazione pagata. L’amministrazione si è legata a quella e abbiamo risolto.» Manca il vincolo paesaggistico, «ma comunque abbiamo sbloccato l’ordinaria amministrazione».

«Due volte alla settimana si riunisce un gruppo di adolescenti con disabilità mentale» racconta la responsabile del progetto per L’Orsa Maggiore, Gabriella Bismuto. «E per i ragazzi che vengono da quartieri disagiati della periferia, abituati ad altri paesaggi, quella vista sul Golfo ha un potere terapeutico.» Nell’autunno del 2013 il centro dovrebbe avviare progetti più stabili. In futuro potrebbe addirittura nascere un’attività di catering e la villa potrebbe aprirsi a feste e banchetti organizzati dai «pazienti» dell’Orsa.

Finora resta, però, un recupero parziale. L’ex direttore dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata, Mario Morcone, che ha fatto la sua prima uscita pubblica proprio alla Gloriette (e si è dimesso nel giugno 2011 dopo aver perso le elezioni a sindaco di Napoli, battuto da Luigi de Magistris) dice apertamente che i lacci «erano tutte cose superabili velocemente dal Comune», che «c’era anche il finanziamento di Fondazione per il Sud» e che è «una vergogna» che, dopo le telecamere, i discorsi e gli applausi, la villa di Zaza sia rimasta per tre anni a prendere polvere e salsedine.

Alessandra Coppola è giornalista del “Corriere della Sera”.
Ilaria Ramoni è avvocata e amministratrice giudiziaria, esperta in legislazione antimafia.

 

Meno convegni e più amministrazione

A proposito di quello che mi ero ritrovato a dire qualche giorno fa devo dire che non mi stupisce per niente che il tanto decantato protocollo anti-mafia del Comune di Merlino (di cui avevamo già scritto qui) sia rimasto lettera morta. Spesso un evento antimafia (o una commissione di facciata) risulta utilissimo per tenere linda la faccia con poco impegno mentre l’attività amministrativa o legislativa prosegue tranquilla per la propria strada, tutto uguale a prima.

Come dice la Righini nella sua intervista:

«Nel Lodigiano, finora, nessun altro ente locale. Al momento mi risulta che il Comune di Desio, nel Milanese, stia portando avanti l’iter di approvazione. Anche Corsico sembrava interessato, ma non so a che punto siano. Ogni tanto ci arrivano richieste di copia del protocollo da parte di qualche ente locale, ma al momento nulla di più…».

Allenati alla curiosità, mi raccomando.

Da IteNovas: A Macomer magistrale lezione di legalità con Giulio Cavalli

IMG_4284Giulio Cavalli ospite a Macomer per la XII edizione della Mostra del Libro, ha raccontato le mafie che logorano il nostro paese.

E’ stato un susseguirsi di nomi e cognomi, alcuni molto noti altri meno, altri ancora sconosciuti quelli attraverso i quali Giulio Cavalli, ospite ieri sera aMacomer per la XII edizione della Mostra del Libro, ha raccontato le mafie che logorano il nostro paese e si sono impadronite del Nord Italia.

E’ stato poi un susseguirsi di silenzi tragici e risate fragorose a fare da corollario al monologo di oltre un’ora che ha raccontato di “uomini di onore” e nuovi mafiosi in giacca e cravatta, di prefetti corrotti e politici indagati, ma anche e soprattutto dell’impegno costante di chi alle mafie non si arrende e le combatte quotidianamente. Uno fra tanti il magistrato Bruno Caccia, ucciso a Torino dalla ‘ndrangheta per le sue indagini ‘troppo concentrate’ sulle attività illegali sviluppatesi in Piemonte.

Come il giullare del ‘500, che incarna la verità del folle, che parla e diffonde verità occulte col rischio di finire impiccato, Giulio Cavalli percorre i teatri di tutt’Italia, scortato e minacciato di morte perché racconta verità scomode per tanti, con l’unica arma a sua disposizione: la forza della parola e del sorriso.

Dopo il lungo monologo, la serata dedicata alla “civiltà letteraria” si conclude con un breve dialogo tra Cavalli e lo scrittore Gianni Biondillo, dove l’attore con ironia racconta della sua esperienza di consigliere regionale di opposizione sotto la giunta Formigoni. A fine spettacolo un pubblico ammutolito, frastornato dalle risate amare ha lasciato la sala del padiglione Filigosa con molti spunti su cui riflettere.

Giulio Cavalli vive a Roma, nel 2009 è stato ricevuto dal Presidente della Repubblica Giorgio Napolitanoche gli ha espresso solidarietà per la vita sottoscorta a causa delle minacce ricevute da cosche mafiose, che si sono ripetute anche di recente. Attore, regista, scrittore, le sue denunce da autore e da consigliere regionale (eletto come indipendente con Idv e poi passato a Sel) gli sono valse una minaccia costante alla sua vita e a quella dei suoi familiari, con gravi avvertimenti subiti anche di recente, da lui sempre puntualmente e coraggiosamente raccontati in pubblico.

Tra i suoi libri, Linate 2001: la strage, Nomi Cognomi e Infami e, nel 2012, “L’innocenza di Giulio”, sui rapporti tra Giulio Andreotti e la mafia.

(da IteNovas.com)

Datagate

Leggo, riporto e trovo pienamente condivisibili le parole di Stefano Rodotà sul pasticcio DATAGATE, buone soprattutto appena finirà l’indignazione instantanea:

Bisogna, allora, contestare la perentorietà dell’argomento che, in nome della lotta al terrorismo, vuole legittimare raccolte d’informazioni senza confini: da parte di molti, e in Italia lo ha fatto un esperto come Armando Spataro, si è dimostrata la pericolosità e l’inefficienza di raccolte d’informazione che non abbiano un fine ben determinato. Bisogna ricordare che la morte della privacy, troppe volte certificata, è una costruzione sociale che serve alle agenzie per la sicurezza di affermare il loro diritto di violare la sfera privata, visto che ad essa non corrisponde più alcun diritto. E serve ai signori della Rete, come Google o Facebook, per considerare le informazioni sugli utenti come loro proprietà assoluta, utilizzandole per qualsiasi finalità economica, come stanno già cercando di fare. Bisogna seguire la tecnologia e mettere a punto regole nuove per la tutela della privacy, com’è accaduto in passato, e con una nuova determinazione, dettata proprio dalla gravità degli ultimi fatti. Ma bisogna pure chiedersi se gli Stati, che oggi virtuosamente protestano contro gli Stati Uniti, hanno le carte in regola per quanto riguarda la tutela dei dati dei loro cittadini. Se la posta in gioco è la democrazia, né cedimenti, né convenienze sono ammissibili.

Inchiesta Pdl. Lombardia, Formigoni il Celeste inossidabile

Le inchieste giudiziarie e l’arrivo di Maroni alla guida del Pirellone non hanno intaccato il potere di Formigoni in Lombardia. Tra ombre mafiose e lobby ciellina. E adesso il neosenatore Pdl si prepara a sostituire Berlusconi

Qualche giorno fa è stato l’illustre ospite di un curioso meeting tenutosi a Barletta dal titolo inquietante “I cercatori della verità”: Roberto Formigoni, meglio di un’araba fenice qualsiasi, sta rinascendo sotto traccia in tutta la sua formidabile potenza gelatinosa, ritessendo i fili che sembravano logori e invece oggi si rivelano ancora più saldi e ambiziosi. Qualcuno, sbagliando, l’aveva dato per politicamente finito subito dopo la caduta del quasi ventennio di governo in Lombardia travolto dall’ennesimo scandalo sulla sanità e soprattutto dai voti mafiosi acquistati dal membro della sua giunta Domenico Zambetti, assessore alla Casa. Eppure anche i più sprovveduti non possono notare quanto il “Celeste” abbia sempre resistito agli attacchi politici (pochi, sfilacciati e deboli) e giudiziari con una perseveranza ancora oggi sottovalutata: dallo scandalo dell’inchiesta “Oil for food” alla vergogna dell’emissione dei “Pirelloni Bond”, che nessuno ricorda e che hanno lasciato debiti fino al 2032 per Regione Lombardia, all’arresto per tangenti nel 2007 del suo assessore xenofobo Pier Gianni Prosperini soprannominato “il boss” nei corridoi della Regione, passando per le mazzette di Lady Abelli, moglie del fido onorevole pidiellino Giancarlo Abelli “faraone” della sanità lombarda, poi con l’arresto del ciellino re delle bonifiche Giuseppe Grossi fino agli scandali che hanno travolto prima la Fondazione Maugeri dell’ospedale pavese e poi il San Raffaele fiore all’occhiello della sanità lombarda. Un elenco strabordante e diversificato (tralasciando i suoi diversi uomini segnalati “vicino” alla ’ndrangheta lombarda) che avrebbe messo in ginocchio chiunque. Chiunque ma non Formigoni.

Il resto dell’articolo è disponibile su LEFT in edicola da sabato, con l’Unità, e tutta la settimana.

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Balle come intellettualismi

Mario Calabresi (da cui aspetto risposte da qualche anno, qui) difende malissimo Gianni Riotta nell’esercizio tutto italiano di difendere qualcuno semplicemente “perché vicino” in un editoriale che lascia di stucco per arrampicata verticale rivenduta con forgia intellettuale (qui). Come dice bene Alessandro:

Possiamo fare infinite elucubrazioni sulla crisi del giornalismo e dei suoi modelli di business. Ma se non ripartiamo dai fondamentali – cioè dall’onestà intellettuale, dal non mischiare le carte per darsi ragione quando si ha torto – non andremo mai da nessuna parte. Arrampicarsi sugli specchi per difenderci tra compagni di merende è il contrario della credibilità, della ‘reliability’: e in questo contrario non ci sarà mai modello di business che tenga.

“Voi italiani rubate lavoro a noi inglesi”

Ogni tanto rimango impressionato da come le notizie più drammatiche risultino diversamente feroci in base alla distanza: un bimbo investito a Milano colpisce i milanesi, inquieta gli italiani e interessa poco agli europei. Difficilmente arriva agli altri. Non che non sia normale, eh, però è ingiusto in fondo che almeno le menti più illuminate (sarebbe bello che lo fossero anche i politici e i giornalisti) non sappiano uscire dal dolore federale per provare almeno ad allargare la visione di tutti.

Così quando muore un italiano nel Kent perché “ruba il lavoro agli inglesi” si capisce subito come la xenofobia sia distruttiva a tutte le latitudini e il dolore sia universale: la stupidità, il razzismo e il dolore.

Joele Leotta era andato in Inghilterra per imparare l’inglese. Per mantenersi aveva trovato impiego con l’amico Alex Galbiati, anch’egli di Nibionno, in un ristorante della zona. E’ qui che i giovani inglesi hanno cominciato a importunare i due amici, accusandoli di rubare lavoro agli inglesi. Quando i due ragazzi lecchesi erano nel loro alloggio, gli otto hanno fatto irruzione e li hanno massacrati, Uno di loro avrebbe anche usato un coltello contro Leotta. L’amico ha avuto lesioni al collo, alla testa e alla schiena: è ancora in ospedale, ma sarebbe fuori pericolo.

Chissà i commenti in Inghilterra, eh: mandiamo gli italiani a casa loro.

190 anni di condanne di mafia tra Anzio e Nettuno

Loro sono i Gallace, clan purtroppo ben conosciuto anche se sempre molto ben nascosto. Il litorale romano ora ha una faccia più chiara:

Centonovanta anni di reclusione per una decina di componenti dei Gallace. Questo ha deciso oggi in primo grado il Tribunale di Velletri, una decisione che arriva dopo 11 anni da quando cioè nel 2002 furono disposte le prime misure di custodia cautelare su richiesta del pm Francesco Polino della Dda di Roma. Si apriva così uno spiraglio nel cono d’ombra che per anni ha tenuto al buio il litorale romano, terra di investimenti e non solo. Dal lungo procedimento emerge anche un altro passaggio, ovvero il legame tra Calabria, Lazio e la Lombardia emerso nel 2004 con l’operazione Infinito. Nella lunghissima ordinanza si parla anche dei Gallace e di Nettuno. Ed ora che la prima fase del processo Appia si è conclusa si apre un’altra fase, quella delle considerazioni dopo anni di negazionismo ad oltranza e misure di facciata. (qui)