L’analisi di Piero Colaprico:
E’ una retata anti-ndrangheta che sembra avere aspetti incredibili. La squadra Mobile di Milano ha chiuso – queste le prime indiscrezioni – una specie di ‘banca autonoma’ della ‘ndrangheta. Era a Seveso (in provincia di Monza e Brianza) ed era gestita da un’organizzazione capace sia di riciclare con facilità il denaro di imprenditori che volevano evadere il fisco, sia di prestare soldi e di reinvestire in aziende sane. Gli ordini di cattura riguardano 34 persone. Il perno sul quale ruota l’indagine è Giuseppe Pensabene, ex soldato della famiglia Imerti nella guerra di ‘ndrangheta, diventato però al Nord un usuraio-ragioniere, capace di tenere a freno le armi e usare la testa. In un’intercettazione viene definito “come la banca d’Italia” ed era anche il reggente della Locale di Desio, il clan in larga parte sgominato dall’inchiesta Infinito.
Imprenditori collusi. Coinvolto, e non è la prima volta, il mondo delle attività produttive: già un anno fa Boccassini aveva lanciato un avvertimento in questo senso. Una decina sarebbero, infatti, gli imprenditori arrestati, proprio con l’accusa di riciclaggio o di concorso in associazione mafiosa. Come sinora non hanno parlato loro, così nessuna denuncia è stata presentata da altri imprenditori o commercianti vittime di usura: alcuni si erano messi al servizio del clan. Pochi i dettagli che trapelano dal blitz, ma sembra anche che, per la prima volta in maniera così vasta, ci siano sequestri preventivi di beni mobili e immobili del valore di alcune decine di milioni di euro, sia in Lombardia che in Calabria, ai danni delle persone finite nell’inchiesta firmata dai magistrati D’Amico e Ilda Boccassini.
Il meccanismo della frode al fisco. A servirsi della sua banca clandestina con addentellati anche all’estero (in Svizzera e nella Repubblica di San Marino) erano numerosi imprenditori incensurati. Alcuni si sono rivolti al clan con questo schema: emettevano assegni alle sue società e, in cambio di una percentuale del 5 per cento, riavevano indietro il denaro contante. Facevano, cioè, figurare spese corpose, ma inesistenti nella realtà, per frodare il fisco. Lo stesso sistema, in piccolo, della frode sulla compravendita dei diritti televisivi che ha visto condannare Silvio Berlusconi. Nessuna denuncia è stata presentata da altri imprenditori o commercianti vittime di usura: alcuni si erano messi al servizio del clan.
“Nuova mafia”. Il gip Simone Luerti, dopo aver letto le intercettazioni, parla di “nuova mafia”. I reati contestati, che vanno dall’associazione mafiosa, al concorso esterno in associazione mafiosa, dal riciclaggio all’esercizio abusivo del credito, dall’usura alle estorsioni, dal contrabbando all’interposizione fittizia di società e di beni immobili, mostrano sì la violenza di qualche pestaggio, e raccontano di armi nascoste, ma spiegano soprattutto come l’omicidio sia visto ormai come l’estrema e dannosa soluzione. “Non è che manca chi deve andare a sparare, non è che il problema è solamente sparare, le conseguenze sono dopo”, dice Pensabene, che spesso viene chiamato per mettere pace tra clan, tra vari estorsori, tra chi si contende il potere della mala.
Gli uffici postali. Se i luoghi di ritrovo del clan sono un bar di Bovisio Masciago, o un locale a Seveso che loro stessi chiamano “il Tugurio” (è qui che sono state piazzate le microspie, è qui che si vedono i criminali contare i soldi), bisogna però considerare che i boss mantenevano un alto tenore. Ma, tra gli aspetti inediti di questo blitz, c’è il rapporto dei clan con le Poste. In queste ore stanno finendo nei guai alcuni dirigenti di uffici postali della Brianza: in barba a qualsiasi normativa, consegnavano agli imprenditori-usurai-banchieri anche centomila euro alla volta, in contanti. Il vorticoso giro di denaro ha lasciato numerose tracce, si parla di un impiegato corrotto (ma non è stato identificato) e almeno due sono i dirigenti messi agli arresti domiciliari.
La Spal. Secondo le prime indiscrezioni, nel “tugurio” si è presentato, a nome della Spal, società calcistica, Giambortolo Pozzi, direttore generale, chiedendo soldi e parlando di un prestito di 100mila euro già concesso: era il 2011, la Spal di lì a poco sarebbe stata ceduta.