L’ultimo sequestro di beni è avvenuto giusto ieri (e interessa candidati al Parlamento di Lega e Casapound) ma basta scorrere le cronache per incrociare l’impressionante numero di operazioni che regolarmente vengono effettuate dalle Procure: la mafia è viva e lotta insieme a noi ma l’argomento non è abbastanza trendy per meritarsi uno spicchio di attenzione in campagna elettorale.
Eppure mafia e corruzione costano più di qualsiasi altro fenomeno così terribilmente popolare: i mafiosi non stanno negli hotel a cinque stelle. Li gestiscono. Li comprano per riciclare denaro. Hotel, ristoranti, bar, come pezzi di un mondo imprenditoriale (gli ipermercati, ne vogliamo parlare?) che sono gli anabolizzanti di un mercato del lavoro (e quindi dei diritti, dei lavoratori e delle famiglie, dei consumatori, quindi di tutti) che sarebbe il caso di interrogare. Mafie e corruzione come sciolina dei rapporti illeciti che camminano sui bordi della finanza e della politica. Mafie e corruzione che sono il collante impiastricciato all’interno di alcuni uffici tecnici della pubblica amministrazione. Mafie e corruzione che qui, da noi, ottengono crediti bancari che i giovani (e i meno giovani estromessi dal mondo del lavoro) possono solo immaginare. Mafie e corruzione che modificano a proprio piacimento i percorsi della giustizia. Mafie e corruzione che relegano l’Italia agli ultimi posti di quelle classifiche internazionali che un po’ tutti sventolano in campagna elettorale.
E poi c’è il silenzio, intorno. Intorno ai processi, ai testimoni di giustizia lasciati soli, agli appelli degli investigatori, agli oppressi che spesso non riconoscono nemmeno la fisionomia dei loro oppressori. Le mafie e la corruzione, puff, sono spariti dalla campagna elettorale. Normale, del resto: è un tema su cui le bagattelle da verginità politica non se le può permettere nessuno e occorre studiare, studiare, studiare.
Eccola, la “bomba sociale”.