Avrei potuto aspettare come tutti gli altri. Avrei potuto mettermi in fila, stringere i denti, tirare le labbra in un sorriso e aspettare. Uguale e preciso a tutti gli altri. E invece non l’ho fatto. Me ne sono andato subito, praticamente due minuti dopo la fine dello spettacolo. E non perché non mi fossero piaciuti Giulio Cavalli e la sua “Innocenza di Giulio”. Anzi, al contrario: mi sono piaciuti talmente tanto che mi sono detto che conoscere l’interprete, la voce sciorinante e sciorinata, la mano dietro i gesti, il sorriso dietro le imitazioni di Andreotti mi avrebbe spezzato. Nel fisico come nell’animo. E allora via: dalla Sanità, dal NTS, a casa: viaggio diretto senza fermate. In testa solo una cosa: la voce di Giulio Cavalli. Una voce che ti coinvolge e che – assurdamente – ti parla. Che si fa ascoltare.
MAFIA: UN STORIA LUNGA 100 ANNI – Chiudo gli occhi e lo vedo. Lui, Giulio, seduto su una sedia di legno, di quelle vecchie che a Napoli si trovano ancora, schienale dritto, spalliera ricurva e niente braccioli, laccata e lucida. Lì, seduto, che parla. Racconta una storia, quella della Mafia. Una storia vecchia di 100 anni, ammuffita ed appesantita dai ricordi. Una storia, però, attuale. I volti, le immagini, le musiche: un mix incredibile, un viaggio onirico a occhi aperti. A me, francamente, è piaciuto. Ho visto un uomo, Giulio, affrontare un mostro, una leggenda, una macchia senza nome e senza età: l’altro Giulio. E ho capito – ho pensato di aver capito – tante, tantissime cose. Le apparenze sono solo apparenze, non sono quello che sembrano: «Non è tutto oro quello che luccica». La Mafia c’è, esiste ed è sempre presente. Ovunque, anche dove meno te l’aspetti. Questo ho sentito nelle parole di Cavalli: la presenza costante, l’ombra senza forma e senza peso della Mafia. Un’ombra marcia, fetente, terribile. Da vomito. «In ogni era c’era e in ogni era ci sarà un’Innocenza di Giulio». «Siamo un paese di opportunità». Secco, lapidare, profetico.
UN OCEANO DI STORIE – Ne “L’Innocenza di Giulio” non c’è solo l’Andreotti politico; c’è pure un po’ di quell’Andreotti furbo e furbacchione, di quella mano che tocca e che palpa; di quella storia, sentita e risentita, che si chiama “omertà all’italiana”. Morti ammazzati: ce ne sono ovunque nel monologo di Cavalli. Coincidenze, fatti, incontri e scontri. Una catena infinita. Una catena che inizia e che non finisce. Andreotti che non sa, Andreotti che non conosce: né i cugini Salvo né i boss di Cosa Nostra. C’è una sentenza – una sentenza che non dichiara l’innocenza, ma che ne convalida, al contrario, l’inesistenza. E c’è un uomo: camicia, bretelle calate, pantaloni, mani che non stanno ferme un attimo, che racconta. Vomita parole, si ripete, si rinnova. Spiega. Un fiume, un fiume in piena; un oceano di storie. Mafia contro mafia, politica contro politica. Mafia e politica a braccetto.
DA ANDREOTTI A BERLUSCONI – Lo spettacolo di Cavalli è frenetico, febbricitante, vissuto sulla pelle e raccontato con voce roca, a tratti modulata (all’Andreotti) e a tratti irriconoscibile. Un’ora e mezza passata a sentire, a capire, a ricordare. Un bis che bis non è e che riprende la storia di un Andreotti 2, meno furbo ma ugualmente promettente: Silvio Berlusconi. Poi c’è Dell’Ultri, di cui bisogna parlare leggendo – «perché m’ha denunciato, e contrariamente a Giulio ha ancora qualche decennio». E c’è Mangnao e c’è Cinà, «la brava persona». C’è la Mafia al nord negli anni ’80 con la storia di Bruno Caccia e c’è la gente per bene con i cento passi cantati in sottofondo.
UNO SPETTACOLO DE VEDERE – A noi – come ha detto Cavalli – piace raccontare le storie dalla fine. E l’ho fatto anche io, con la mia premessa. Me ne sono andato prima da teatro, pur potendo parlare con il protagonista. Avevo questa sensazione dentro, come se conoscessi Giulio Cavalli da anni, lui che non è mio coetaneo, lui che è attore e scrittore civile. A me il suo racconto è piaciuto. E vi consiglio di andare a vederlo. Perché una storia raccontata così è una storia che vale la pena di essere ascoltata. È una storia bella, ma di quella bellezza terribile, non da film contemporaneo o da fiaba, ma da monologo. Bella come solo l’onestà, certe volte, sa essere.