Il razzismo intrinseco che abbiamo nel trattare i profughi palestinesi rispetto agli ucraini – Lettera43
Uno studio italiano dimostra che il nostro atteggiamento verso gli stranieri è direttamente proporzionale a quanto è scura la loro pelle. Ed è quello che sta facendo anche la comunità internazionale nei confronti di chi scappa da Gaza e di chi lo fa da Kyiv e dintorni. Le “porte aperte” non sono uguali per tutti i rifugiati.
«Non sono razzista ma» è la tiritera con cui i razzisti inconsapevoli che affollano questo tempo cominciano ogni loro discorso. Quelli che «non sono razzisti ma» di solito crollano di fronte a una caratteristica sostanziale, la scurezza della pelle dell’interessato. Gli stranieri ancora oggi sono stranieri in modo direttamente proporzionale alla pelle scura. Più qualcuno tende al nero e più è straniero, malvoluto, disturbante. Chi lo dice? Cristina Cattaneo, Daniela Grieco, Nicola Lacetera e Mario Macis sono studiosi che insegnano nelle migliori università del mondo e da poco hanno presentato il loro studio “Out-group Penalties in Refugee Assistance: A Survey Experiment” su un campione rappresentativo di 4.087 residenti in Italia che hanno risposto a un questionario online. Come spiegano gli studiosi, l’obiettivo era di studiare se la propensione a donare, vista come una misura di attitudine verso un tipo di beneficiari, dipendesse appunto dalla “distanza” fra il partecipante e il destinatario e se questa distanza portasse a una gerarchia delle preferenze.
La differenza di considerazione tra Ucraina e Africa
In aggiunta al gettone di partecipazione ai partecipanti è stato dato un ulteriore bonus di un euro. Il campione è stato suddiviso in tre gruppi casuali. A ogni membro del primo gruppo, il questionario offriva la possibilità di donare una parte del bonus a un’organizzazione che si prende cura di persone italiane vittime di violenza. Al secondo e al terzo gruppo invece è stata data la possibilità di donare a un’organizzazione che si occupa dell’accoglienza di rifugiati dall’Ucraina e di rifugiati da Paesi africani in guerra. In ciascun gruppo, oltre a chiedere a ogni partecipante quanto del bonus assegnato volessero donare, è stato chiesto di indicare, qualora la donazione fosse positiva, la percentuale della donazione da destinare ad acquisti di beni di prima necessità (come prodotti per la cura della persona o biglietti per i mezzi di trasporto pubblici) e quale percentuale della donazione da versare direttamente in contanti ai beneficiari.
Le diversità tra donare in natura e in contanti
I risultati? I partecipanti chiamati a donare ad altri italiani offrono di più di quelli assegnati a rifugiati stranieri. Chi invece doveva scegliere tra africani e ucraini (circa 47 centesimi di euro in entrambi i casi contro 55 centesimi donati agli italiani) ha deciso di dare in contanti cifre minori per i destinatari africani (21,7 per cento) rispetto agli ucraini (25,5 per cento). Per questi ultimi, la percentuale è quasi equivalente a quella degli italiani (26,1 per cento). Come spiegano i ricercatori, a parità di totale donato, la suddivisione fra contanti e beni in natura «evidenzia il grado di fiducia che il partecipante ripone nel “buon uso” del denaro da parte dei beneficiari». Chi dona in natura di fatto decide per il destinatario come usare il contributo. Donando direttamente contanti, al contrario, «si esprime implicitamente la fiducia che il destinatario userà la sua maggior flessibilità per gli usi che ritiene migliori».
L’attuale screditamento dell’Unrwa non aiuta
Interrogati infatti su come prevedevano che i beneficiari avrebbero usato il contante, coloro che hanno scelto di non dare denaro contante prevedono «con maggiore frequenza acquisti come alcol, sigarette o droghe». Tornando qui fuori si potrebbe osservare la differenza – per ora – di trattamento tra i profughi ucraini e i profughi palestinesi molto più scuri. Al momento l’Europa non ha fatto nulla per sostenere i palestinesi, se non incrementando i propri impegni finanziari per gestire la crisi umanitaria. Impegni che ora si ridurranno, dato l’attuale screditamento dell’Unrwa. Nessuno si è adoperato per proteggere i profughi stessi. Un approccio molto diverso da quello che si è applicato in seguito allo scoppio della guerra in Ucraina. In quel caso l’Italia, al pari degli altri Stati Ue, si è presa la responsabilità di garantire ai profughi protezione e accoglienza, mostrando come un impegno maggiore sia possibile.
Il caso giuridico della richiesta d’asilo rigettata
Le “porte aperte” per chi scappava (e ancora scappa) dalla guerra in Ucraina nel caso di Gaza si riducono a una cooperazione con l’Egitto a cui affidare il compito di appaltatore delle frontiere. L’11 gennaio la Corte europea ha stabilito che l’operato dell’Unrwa non può più essere considerato sufficiente. Il caso giuridico riguardava due persone di nazionalità palestinese cui era stata rigettata la domanda di asilo da parte delle autorità bulgare. La Corte ha dato ragione ai primi affermando che i richiedenti palestinesi oggi possono sostenere che non c’è più protezione da parte dell’Unrwa, alla luce della gravità della situazione a Gaza. La “cessazione” della protezione che fino a quel momento poteva essere garantita determina automaticamente che i palestinesi possano richiedere lo status di rifugiati. Scommettiamo che non andrà così?
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