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Femminicidi troppo poco interessanti

Questa volta il femminicidio è doppio anche se la radice è la sempre la stessa, il non poter più possedere la sua ex fidanzata. Christian Sodano, originario di Minturno e in servizio alla Guardia di finanza di Ostia, è arrivato a casa della sua ex fidanzata a Cisterna di Latina, quartiere San Valentino. Hanno cominciato a litigare. A quel punto sarebbero intervenute la madre e la sorella di lei, contro cui il finanziere ha esploso alcuni colpi di pistola. Lei è fuggita in bagno dove si è rifugiata fino all’arrivo delle forze dell’ordine che l’hanno trovata in stato di choc. Lui ha ucciso Nicoletta Zomparelli, 46 anni, Reneè Amato, 19 anni, rispettivamente madre e sorella di Desyrée. L’allarme è stato lanciato da alcuni vicini allarmati dagli spari. 

A proposito di armi. Nel 2018 – sempre a Cisterna di Latina – Luigi Capasso, un appuntato dei carabinieri in servizio a Velletri, sparò alla moglie da cui si stava separando, ferendola gravemente, e uccise le sue due figlie prima di suicidarsi. A giugno dell’anno scorso il poliziotto Massimiliano Carpineti ha ucciso la sua collega Pier Paola Romano nell’androne del suo palazzo, prima di uccidersi. Un altro maresciallo della Guardia di finanza, Marcello de Prata, ha ucciso con la pistola d’ordinanza la moglie e la cognata. 

Su 15 donne uccise nel 2024 in sette casi si tratta di delitti con le peculiarità del femminicidio. Finora nessuna delle sette donne ha meritato di diventare un caso nazionale in grado di riaprire il dibattito effimero che è già tornato a essere tema per specialisti e appassionati del genere. Così vuole la gerarchia delle notizie.

Buon mercoledì. 

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Collaborazionisti dei libici. Le mail accusano Frontex

Che lo scopo del sostegno dell’Unione europea, Italia in primis, alla cosiddetta guardia costiera libica sia quello di tappare le partenze dalla costa africana usando modi che non rispettano il diritto internazionale è chiaro a tutti. Nessuno si sognerebbe di pagare una masnada di criminali, molto spesso essi stessi trafficanti, per compiere realmente missioni di ricerca e di soccorso.

Da ieri sappiamo che il concorso esterno in abuso di persone, l’Unione europea lo pratica anche con Frontex

Da ieri grazie a un’inchiesta del collegio di giornalisti Lighthouse Reports sappiamo che il concorso esterno in abuso di persone, l’Unione europea lo pratica anche con Frontex, l’agenzia europea della guardia di frontiera e costiera, che spinge i migranti tra le braccia delle motovedette libiche perché possano essere più facilmente accalappiati e portati all’inferno. A partire dal gennaio 2021 Frontex ha inviato oltre 2.200 email con le posizioni di barche di rifugiati alla cosiddetta guardia costiera libica.

Gli aerei dell’Agenzia dell’Unione Europea per il controllo delle frontiere, mentre sorvolano il Mediterraneo centrale, inviano le coordinate delle imbarcazioni cariche di persone in pericolo, in fuga proprio dall’inferno della Libia, a quelle milizie che – come provato da innumerevoli fonti indipendenti – inseguono, speronano, sparano e picchiano le persone migranti in mare con l’obiettivo di catturarle e deportarle nuovamente in Libia.

Una violazione del diritto di cui era consapevole lo stesso Responsabile per i Diritti Fondamentali di Frontex, Jonas Grimhegen, che infatti ha avvertito internamente i vertici delle possibili conseguenze legali per l’agenzia derivanti dalla sua collaborazione con la cosiddetta guardia costiera libica.

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L’atletica piange Kelvin Kiptum. L’unica gara persa è stata contro il destino

Immagina di nascere predestinato, con addosso la stoffa per riscrivere la storia della maratona e morire a 24 anni. Kelvin Kiptum lo scorso ottobre alla maratona di Chicago aveva corso con il passo di un alieno. Primo uomo a correre sotto le due ore e un minuto (2 ore e 35 secondo segnava il cronometro) aveva riscritto il record del mondo strappandolo a Eliud Kipchoge, keniano come lui. Il prossimo 14 aprile alla maratona di Rotterdam avrebbe provato a scendere sotto il muro delle due ore per poi prepararsi a sfidare a Parigi Kipchoge, il due volte campione olimpico olimpico della maratona (medaglia d’oro sia a Rio 2016 che a Tokyo 2020). Chi segue le maratone non aveva dubbi: che Kiptum sarebbe stato il primo uomo sfondare il muro delle due ore lo sapevano tutti. Restava semplicemente da scoprire quando.

Kelvin Kiptum e il suo allenatore Gervais Hakizimana sono morti in un incidente stradale in Kenya domenica 11 febbraio

Kelvin Kiptum e il suo allenatore Gervais Hakizimana sono morti in un incidente stradale in Kenya domenica 11 febbraio intorno alle 23 locali, le 21 italiane. L’incidente è avvenuto su una strada tra le città di Eldoret e Kaptagat, nel Kenya occidentale, nel cuore della regione ad alta quota, ideale per l’allenamento dei corridori sulla lunga distanza. Coi due una donna, Sharon Kosgei, ricoverata presso il Racecourse Hospital di Eldoret. Erano a bordo di una Toyota Premio.

Nato in Kenya nella regione di Eldoret nel cuore della Rift Valley, la culla dei maratoneti, Kiptum ha iniziato a correre con regolarità nel 2016. Solo tre anni più tardi si è imposto a Belfort stabilendo il record della mezza maratona “Le Lion” (59”53’). Il suo allenatore, il ruandese Gervais Hakizimana, aveva dichiarato in un’intervista ad Afp che il suo ragazzo correva “più di 250 km a settimana, a volte più di 300”: “è un’avventura! Durante la preparazione a Londra, abbiamo fatto tre settimane a oltre 300 chilometri. È un volume enorme. A quel ritmo, c’è il rischio che si infortuni e si rompa. Gli ho suggerito di ridurre l’intensità, ma non vuole farlo. Mi parla sempre del record del mondo”, raccontava il suo allenatore. A dicembre del 2022 il mondo si accorge di lui. Corre la maratona di Valencia in 2h01’53”. Passano quattro mesi e a Londra segna 2h01’25”. Poi Chicago, 2h00’35”.

Una settimana fa in una video intervista nel corso di un evento di uno sponsor a Parigi, Kiptum aveva dichiarato: “Se la mia preparazione funziona bene e le condizioni sono buone, so che posso farcela a correre la Maratona di Rotterdam sotto le 2 ore. Sarebbe il miglior viatico per l’appuntamento olimpico dove l’ambizione è mettersi al collo l’oro”. La sua specialità era il “negative split”, correre la seconda metà di gara più veloce della prima, mentre molti altri già si sfilacciano per la stanchezza. Undici anni fa Kiptum faceva il pastore sugli altipiani del Kenya. In un’intervista aveva raccontato di avere cominciato a correre solo per imitare campioni che si allenavano intorno a casa sua. Poi in quelle gambe ci aveva trovato un talento come una magia. A quello ha aggiunto l’impegno estenuante e continuo. il presidente del Kenya, William Samoel Ruto in un post su X ha ricordato “la sua forza mentale e la sua disciplina” che “non avevano eguali”: “era una stella. Probabilmente uno dei migliori sportivi del mondo. Kiptum era il nostro futuro”.

Nuovo lutto nel Paese africano. Dopo Wanjiru, tre anni dopo l’oro di Pechino e Agnes Tirop

La morte di Kiptum ricorda quella di un altro grande maratoneta keniano, Samuel Wanjiru, avvenuta alla stessa età nel 2011, tre anni dopo la conquista del titolo olimpico a Pechino. Il Kenya sportivo è ancora scosso dal lutto dell’ottobre 2021 quando Agnes Tirop, vincitrice di due medaglie di bronzo mondiali nei 10.000 metri, è stata accoltellata a morte a 25 anni nella sua casa di Iten dal marito. Kelvin Kiptum, il maratoneta per caso mai battuto in gara, solo il fato l’ha vinto.

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Carceri a rischio collasso. Tira aria di amnistia contro il sovraffollamento

E se la destra giustizialista, quella che ama il tintinnare delle manette e che invoca di buttare via la chiave fosse costretta a firmare un indulto o un’amnistia La prospettiva è meno inverosimile di quanto si possa credere perché, come spiega l’associazione Antigone, il sistema penitenziario italiano si avvicina a passi da gigante con le carcere a livelli di sovraffollamento che configurerebbero un trattamento inumano e degradante generalizzato delle persone detenute.

L’associazione Antigone chiede più pene alternative. I penalisti invece invocano l’indulto

Se gli attuali ritmi di crescita dovessero essere confermati a fine 2024 il panpenalismo del governo Meloni potrebbe portare a una “condizione drammatica”, scrive l’associazione che si occupa di carceri. Per Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, i 17 suicidi di questo mese e mezzo del 2024 sarebbero “un campanello d’allarme che risuona”: “Ci appelliamo al Presidente della Repubblica Sergio Mattarella affinché richiami il Parlamento a discutere del tema carcere e a farlo basandosi su scelte pragmatiche e non su approcci ideologici”, dice Gonnella.

Al 31 gennaio erano 60.637 i detenuti presenti a fronte di 51.347 posti

Nelle carceri italiane al 31 gennaio erano 60.637 le persone presenti, a fronte di 51.347 posti ufficiali (anche se sono circa 3.000 quelli che, tra questi, non sono disponibili). 2.615 erano le donne detenute, il 4,3% dei presenti, e 18.985 le persone straniere detenute, il 31,3% dei presenti. Già nel corso del 2021, dopo il calo delle presenze dovuto alla pandemia, le presenze nelle nostre carceri sono tornate a crescere. Dalla fine del 2020 ad oggi la crescita è stata di oltre 7.000 unità, una crescita media dello 0,4% al mese. Ma se si guarda alla crescita degli ultimi 12 mesi questa è in media del 0,7% al mese. E se si guarda solo agli ultimi sei mesi la crescita media mensile è stata dello 0,8%. Il tasso di affollamento medio (calcolato sui posti ufficiali e non su quelli realmente disponibili) è del 118,1% ma come sempre negli ultimi tempi le regioni più in difficoltà sono la Puglia (143,1%) e la Lombardia (147,3%). Gli istituti più affollati sono Brescia “Canton Monbello” (218,1%), Grosseto (200%), LodiI (200%), Foggia (189%), Taranto (182,2%) e Brindisi (181,51%).

Non c’è un euro per costruire nuovi istituti. E i reati voluti dal Governo non aiutano

Le promesse di costruire nuove carceri della presidente Giorgia Meloni a inizio mandato non hanno trovato nessun riscontro nell’attività di governo. Anzi, il ministro alla giustizia Carlo Nordio ha ripetuto più volte che “costruire un carcere è costoso e difficile” e per questo ritiene necessario “usare strutture perfettamente compatibili con la sicurezza in carcere”. Come spiega Antigone per costruire un carcere di 250 posti servono circa 25 milioni di euro. Numeri alla mano oggi di nuove carceri ne servirebbero 52, per una spesa che si aggira sul miliardo e 300 milioni di euro. A questo si aggiunge personale (agenti, educatori, psicologi, direttori, medici, psichiatri, amministrativi, assistenti sociali, mediatori, ecc.) con un aumento annuo del bilancio del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e del Ministero della Salute, che già oggi fanno fatica a garantire le presenze necessarie, con tutte le figure professionali in pesante sotto organico. Poi ci sono i tempi.

Antigone: “Per costruire nuove carceri ci vogliono anni, mentre l’emergenza sovraffollamento è qui e ora”

“Per costruire un carcere ci vogliono anni, mentre l’emergenza sovraffollamento è qui e ora”, spiega Antigone. Quindi? Per Antigone le soluzioni sono un aumento delle misure alternative, più economiche rispetto alla carcerazione e con tassi di recidiva minori, la diminuzione dell’uso della custodia cautelare, con l’Italia costantemente al di sopra della media Europea e n’inversione di tendenza rispetto alle politiche dell’ultimo anno e mezzo fatte di nuovi reati e aumenti generalizzati delle pene. Il segretario dell’Unione delle Camere penali italiane, Rinaldo Romanelli lo dice chiaro: “Richiamiamo con forza la necessità di un provvedimento di amnistia e indulto, questa è la nostra posizione”.

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E noi come rane bollite intorno allo stagno a dirci che non è così grave, che vedrai che passerà…

È servito toccare con mano il “diverso punto di vista” che questa destra invoca e promette ai suoi elettori. È servito vedere con i propri occhi che l’altra libertà invocata dalla presidente del Consiglio Meloni e soci – come se non ce ne fosse una sola di libertà – non sia nient’altro che un silenziatore dei temi percepiti come scomodi e un amplificatore dei temi congeniali.

Mara Venier che legge un comunicato di solidarietà a Israele con il solo scopo di seppellire sotto le macerie le parole di Ghali sulla Palestina, senza nemmeno avere il coraggio di fare i nomi e i cognomi. La stessa Venier che rimbrotta Dargen D’Amico («qui è una festa, si parla di musica!») mentre il cantante stava dicendo l’ovvio, ovvero che l’immigrazione tiene in piedi un pezzo di economia italiana.

L’egemonia culturale del governo non ha nessuna cultura, seraficamente sogna la scomparsa di voci e temi di cui non possiede il vocabolario. L’egemonia culturale del ministro alla Cultura Sangiuliano e del suo spin doctor, il deputato Mollicone, vuole sostituire ogni discorso dei diritti con un ballo del qua qua che faccia sorridere le famiglie tradizionali senza interrogarsi su quello che accade qui fuori.

Non è nemmeno una normalizzazione. Si tratta piuttosto di un’aberrazione che premia le vestali del vuoto pneumatico, premiando le Venier di turno nel ruolo di bromuro intellettuale. Il “diverso punto di vista” di questo governo è un cafonalissimo berlusconismo però più pudico, senza tette esposte e tradizionale nell’accezione di non contenere nessuna tentazione a nessun progresso.

E noi come rane bollite intorno allo stagno a dirci che non è così grave, che vedrai che passerà.

Buon martedì.

Nella foto: frame del video in cui Mara Venier legge il comunicato dell’Ad Rai, 11 febbraio 2024

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L’abiura di Milei sul Papa. Ultima capriola sovranista

L’antropologia politica del presidente argentino di destra e ultra-liberista Javier Milei assomiglia ogni giorno di più all’archetipo sovranista dell’urlatore acquiescente appena indossa una giacca e una cravatta disposto a fare il contrario di quel che ha detto. Domenica il presidente argentino ha incontrato il suo connazionale Papa Francesco che solo due mesi fa aveva definito “un imbecille”, un “gesuita che promuove il comunismo”, il “rappresentante del Male nella Casa di Dio”, una “persona nefasta”.

Il presidente argentino Javier Milei ha incontrato il suo connazionale Papa Francesco che solo due mesi fa aveva definito “un imbecille”

Otto settimane fa per Milei Papa Francesco dimostrava “forti affinità” con “comunisti assassini” stando dalla parte “delle dittature sanguinarie” e della “sinistra anche quando è fatta di veri criminali”. Il presidente argentino, all’epoca candidato alle presidenziali, spiegava agli argentini che la giustizia sociale professata dal pontefice consisteva in “frutti del lavoro di qualcuno” che “vengono rubati e vengono dati a un altro”.

Per Milei si trattava di un’apologia di furto, “vietato dai dieci comandamenti”. Allo scontro in Vaticano che i suoi elettori si aspettavano, viste le premesse, Milei si è presentato con biscotti, dolci e un’abbondante profusione di sorrisi e di abbracci. Dopo l’incontro durato più di un’ora il presidente argentino ha definito il Papa “l’argentino più importante della storia”, presagendo un futuro di “dialogo molto fruttuoso”.

Un’inversione a u, nel solco della tradizione sovranista dove i leader invitano gli elettori a fare quello che dicono ma a non fare quello che fanno. Milei ha parlato semplicemente di “pacificazione e fraternità”, che sono i nomi con cui i populisti si augurano di preservarsi al potere il più a lungo possibile, appena arrivati lì.

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Lo scempio è sotto gli occhi del mondo, altro che Sanremo

La precipitevolezza con cui la politica italiana affronta le guerre in giro per il mondo, sempre preoccupata di coglierne l’opportunità del momento come se non avessero un prima e un dopo ha spinto l’amministratore delegato della Rai Roberto Sergio (nella foto) a inserirsi nella cagnara per le parole del cantante Ghali durante la serata finale di Sanremo.

La precipitevolezza con cui la politica italiana affronta le guerre in giro per il mondo ha spinto l’ad della Rai Sergio a inserirsi nella cagnara per le parole del cantante Ghali

Il dirigente di viale Mazzini ha voluto esprimere solidarietà per il popolo di Israele dopo che l’ambasciatore israeliano Alan Bar ha lamentato l’inopportunità della frase di Ghali “stop al genocidio”. Per Bar chiedere di smetterla di ammazzare donne e bambini che sono la stragrande maggioranza dei 28mila finora uccisi a gaza sarebbe un “diffondere odio e provocazioni in modo superficiale e irresponsabile”.

Sono d’accordo con lui anche il senatore di Forza Italia Maurizio Gasparri, il dem Piero Fassino. Così è toccato a un cantante osservare che il profumo di genocidio contestato al governo di Netanyahu è roba che viene ben prima del 7 ottobre (“fin da quando ero bambino”): «la gente ha sempre più paura di dire “stop alla guerra” o “stop al genocidio”, perché sente di perdere qualcosa se dice “viva la pace”: è assurdo», dice Ghali.

Intanto accade che Netanyahu strozzi nella morsa di Rafah circa 600mila minori palestinesi che si trovano accampati con le loro famiglie sfollate nelle tendopoli. Una tragedia umanitaria che secondo il Washington Post farebbe inorridire perfino il presidente Usa Joe Biden per la sua “esagerata” risposta a Gaza dopo il 7 ottobre.
Lo scempio è sotto gli occhi del mondo, altro che Sanremo.

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La tragica farsa intorno al sequestro della Ocean Viking

Le tragedia va a braccetto con la farsa. In mare in mezzo al Mediterraneo c’è una nave, la Ocean Viking, che il 5 febbraio a tarda notte esegue l’ordine del Comando delle capitanerie di porto di Roma (Mrcc) e salva 110 persone strappandole al naufragio. Ci sono 11 donne, di cui due incinte come molte delle donne che passano dagli stupri dei loro carcerieri, trenta minori non accompagnati ovvero senza nessuno e altri dieci minori. 

Lo stesso ordine arriva poco dopo, questa volta i salvati sono 58. Anche qui donne incinte e minori non accompagnati. Per la terza volta la nave delle odiosissime Ong viene attivata dal Comando di Roma per salvare altre 49 persone. Le operazioni di salvataggio, come quasi sempre accade, sono ostacolate dalla cosiddetta Guardia costiera libica che fa di tutto per mettere in pericolo i quasi naufraghi e per accalappiarne il più possibile da riportare nell’inferno delle prigioni libiche. La cosiddetta Guardia costiera libica è addestrata, pagata e rifornita di mezzi dallo stato italiano da cui dipende anche il Comando delle capitanerie di porto ma il rispetto degli ordini ufficiali cozza con gli ordini ufficiosi che non compaiono in nessun memorandum nonostante siano testimoniati dai numeri: ai libici l’Italia e l’Europa chiedono di fare da tappo fottendosene del diritto internazionale.

Ocean Viking nell’anarchia in mezzo al mare nota una barca in vetroresina in difficoltà, sta lì a pochi metri. Gli occupanti urlano, vogliono buttarsi in mare pur di non tornare nei lager. La Ong decide di salvarli, sono altri 44. Risultato: secondo il decreto Piantedosi Ocean Viking viene multata e fermata appena arriva a Brindisi. È accusata di non avere rispettato gli ordini di una motovedetta libica che non era nemmeno sulla scena del salvataggio. 

Buon lunedì. 

 

 

in foto Ocean Viking foto di Daniel Leite Lacerda – http://volfegan.deviantart.com/art/Anchor-Handling-Ocean-Viking-216153190, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=26895208

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Il saccheggio di Gaza: Israele lucra pure sul gas della Palestina

La compagnia petrolifera italiana Eni è tra le sei aziende alle quali Israele ha concesso esplorazioni per il gas naturale in acque palestinesi, in territori che le convenzioni internazionali indicano sotto la sovranità di Gaza. Per questo lo scorso 6 febbraio lo studio legale Foley Hoag LLP, con sede a Boston, negli Stati Uniti, ha inviato un avviso ad Eni S.p.A. perché non intraprenda attività nelle aree marittime della Striscia di Gaza che appartengono alla Palestina. Come racconta Eliana Riva per Pagine Esteri insieme alle società inglese Dana Petroleum Limited (una filiale della South Korean National Petroleum Company), all’israeliana Ratio Petroleum e altri tre enti, l’Eni ha ottenuto la licenza di operare all’interno della zona G, un’area marittima adiacente alle rive di Gaza. Il 62% della zona G rientra nei confini marittimi dichiarati dallo Stato di Palestina nel 2019, in conformità con le disposizioni della Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 (Unclos), di cui la Palestina è firmataria.

Gaza, sovranità zero

Il governo di Netanyahu ha annunciato la concessione il 29 ottobre del 2023, nemmeno tre settimane dopo l’inizio del conflitto con Hamas e la successiva invasione di Gaza. Le associazioni umanitarie palestinesi Adalah, Al Mezan, Al-Haq e Pchr avevano fatto appello alle aziende coinvolte, Eni in causa, parlando di “un atto di saccheggio delle risorse naturali sovrane del popolo palestinese” dando mandato allo studio legale Foley Hoag LLP. Per i ricorrenti “l’emissione della gara d’appalto e la successiva concessione di licenze per l’esplorazione in questo settore costituiscono una violazione del diritto internazionale umanitario (IHL) e del diritto internazionale consuetudinario“, poiché Israele non ha nessun diritto sulle risorse naturali delle regioni occupate militarmente.

Le associazioni hanno sottolineato “le offerte, emesse in conformità con il diritto interno israeliano, equivalgono effettivamente all’annessione de facto e de jure delle aree marittime palestinesi rivendicate dalla Palestina, in quanto cercano di sostituire le norme applicabili del diritto internazionale applicando invece la legge interna israeliana all’area, nel contesto della gestione e dello sfruttamento delle risorse naturali. Ai sensi del diritto internazionale applicabile, a Israele è vietato sfruttare le risorse finite non rinnovabili del territorio occupato, a scopo di lucro commerciale e a beneficio della potenza occupante, secondo le regole di usufrutto, di cui all’articolo 55 del Regolamento dell’Aia. Invece, Israele come autorità amministrativa di fatto nel territorio occupato non può esaurire le risorse naturali per scopi commerciali che non sono a beneficio della popolazione occupata”.

Cosa loro

Israele dal canto suo ha risposto sventolando il principio secondo cui “solo gli Stati sovrani hanno il diritto alle zone marittime, compresi i mari territoriali e le zone economiche esclusive, nonché di dichiarare i confini marittimi”. Non riconoscendo lo Stato di Palestina quindi Netanyahu ritiene quelle risorse a sua completa a disposizione. Niente di nuovo rispetto alla storia recente. Adalah, Al Mezan, Al-Haq e Pchr infatti sottolineano come “la demarcazione unilaterale di Israele dei suoi confini marittimi per includere le aree marittime della Palestina e le lucrose risorse naturali non solo viola il diritto internazionale, ma perpetua anche un modello di lunga data di sfruttamento delle risorse naturali dei palestinesi per i propri guadagni finanziari e coloniali. Israele cerca di saccheggiare le risorse della Palestina, sfruttando quella che è già una semplice frazione delle risorse naturali legittime dei palestinesi”. Ai sensi del diritto internazionale per l’articolo 55 del Regolamento dell’Aia è vietato sfruttare le risorse finite non rinnovabili di un territorio occupato, a scopo di lucro commerciale e a beneficio della potenza occupante. Ma il diritto internazionale ad Israele non sembra interessare, non solo sulle questioni di gas.

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