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Querele pure al Giornale e al Tempo: i media di destra scoprono l’allergia alle critiche di Giorgia & C.

Dicevano dalle parti della destra al governo – lo scrivono i loro amici e lo ripetono i parlamentari di maggioranza – che gli attacchi alla stampa da parte della presidente del Consiglio Giorgia Meloni e dei suoi ministri fosse completamente un’invenzione dei loro avversari. Che la politica percepisca i giornalisti come avversari è già di per sé un concetto curioso, qualcosa dal sapore vagamente ungherese poiché politica e giornalismo nei paesi democratici svolgono funzioni diverse e complementari. Alcuni dei componenti del governo e della maggioranza invece sono fortemente convinti che i giornalisti critici siano assoldati dai loro avversari politici, senza essere sfiorati dall’idea che il diritto e il dovere alla critica sia uno dei pilastri della professione. L’ossessione del governo verso il giornalismo da ieri è diventata un’emergenza anche per la stampa di destra, quella che ironizzava fino a qualche minuto prima.

Benvenuti nel club

Il direttore de Il Giornale Alessandro Sallusti e il direttore de Il Tempo Davide Vecchi hanno incrociato le penne per scrivere un addolorato editoriale a quattro mani dal titolo significativo: Se i ministri di destra ci querelano. “La stampa di sinistra sostiene che il governo vorrebbe imbavagliarla”, attaccano Vecchi e Sallusti, rassicurandoci che “non c’è pericolo” perché “non è vero” e “perché anche volendo non troverebbe il bavaglio”, spiegandoci che “quella dei giornalisti è una categoria che si imbavaglia già da sola o per conto terzi”, riferendosi non si sa bene a chi. Dall’incipit verrebbe da pensare che sia l’ennesimo editoriale cucinato per accarezzare il governo. Subito dopo arriva la sorpresa.

“Certo – scrivono Vecchi e Sallusti – a volte anche a noi capita di trattenerci dall’affondare il coltelo nella piaga quando le cose non girano come dovrebbero”, ci fanno sapere i due direttori. Li tranquillizziamo: a noi non capita, capisco che sia difficile da digerire. Ma perché i due direttori ci tengono a farci sapere di avere omesso magagne del governo per amicizia Ecco subito dopo il gnegneismo: “Risultato di tanto sforzo e comprensione?”, scrivono i due, usando sforzo e comprensione come eufemismi per non dire altro: “Importanti ministri di questo governo – Guido Crosetto e Adolfo Urso – procedono a colpi di querela contro i pochi giornali non di sinistra – Il Giornale e Il Tempo – lamentando presunte inesattezze in articoli che li hanno riguardati”.

Sembra incredibile ma è proprio così: due direttori di giornali scrivono al governo per lamentarsi di essere stati chiamati in giudizio da due ministri nonostante siano stati amichevoli. Sembra una distopia. I due direttori comunque assicurano che non denunceranno “ridicoli e inesistenti bavagli”, ma lasciano intendere che i ministri in questione abbiano “l’idea maturata nella testa di arrotondare con qualche decina di migliaia di euro i non faraonici stipendi pubblicI” poiché “ognuno tiene famiglia e magari pure casa da ristrutturare”, riferendo evidentemente al ministro alla Difesa Crosetto.

Il boccone amaro dopo le querele

Il finale è commovente: “Che un governo di destra – scrivono Vecchi e Sallusti – provi a estorcere soldi a giornali che per loro, e direi nonostante loro, hanno combattuto e combattono gratis battaglie epocali contro chi li voleva e li vorrebbe morti, è il segno di quanto il potere possa dare alla testa e fare perdere lucidità”. Insomma, Sallusti e Vecchi ci dicono di stare tranquilli che non c’è nessun bavaglio, semplicemente ci sono “estorsioni” (testuale) di ministri nei confronti dei giornalisti. In effetti ora possiamo stare tutti molto più sereni. Sul fatto che i due direttori rimarchino di avere combattuto “gratis” le loro battaglie non c’è bisogno nemmeno di commentare. Il lamento dei direttori “di destra” – come si auto-definiscono – si aggiunge alla pioggia di querele e di reazioni di una legislatura che passerà alla storia per lo scarso senso del giornalismo.

Dalle nostre parti, alla redazione de La Notizia, abbiamo ricevuto querele e minacce di querela da parte di esponenti di primo piano del governo e della maggioranza. Soltanto per ricordare le più recenti, una richiesta di mediazione è stata presentata dal ministro Matteo Piantedosi per l’articolo del 21 settembre 2023 che, secondo lui “attribuiva erroneamente all’istante, Ministro dell’Interno, l’utilizzo dell’espressione ‘carico residuale’ riferita ai migranti deceduti a seguito del noto naufragio di Cutro”. Altra istanza di mediazione arrivata da Galeazzo Bignami che si è sentito diffamato “dal contenuto dell’articolo del 17 ottobre 2023 avente titolo ‘Le destre danno lezione di antisemitismo e poi intitolano strada ad Almirante”. Leggendo l’articolo, la frase incriminata dovrebbe essere quella in cui viene ricordato una foto, diventata virale, del viceministro ai Trasporti: “Del viceministro alle Infrastrutture di questo governo che si travestiva da nazista ‘per gioco’ (Galeazzo Bignami, Fratelli d’Italia) s’è detto e scritto”. Solo per citare due casi. C’è una differenza sostanziale: noi non “omettiamo”, non ci aspettiamo gratitudine non avendo nessuna delicatezza verso nessuno e non combattiamo battagli epocali “gratis”. Rispondiamo ai nostri lettori.

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Migranti, è passato un anno dalla tragedia di Cutro e l’indignazione si è spenta – Lettera43

Il dolore è declinato al passato. La giustizia ci ha consegnato un colpevole: uno scafista che però si dice innocente. Mentre da un rapporto Frontex emerge che l’Italia acconsentì nel sottovalutare l’emergenza. Il che è diverso dal «non essere stati avvisati» di cui parlò Meloni. Quisquilie. Ormai ci si può permettere di non difendersi nemmeno dall’accusa di ipocrisia.

Migranti, è passato un anno dalla tragedia di Cutro e l’indignazione si è spenta

Siamo vicini all’anniversario della tragedia di Cutro. Nelle notte tra il 25 e il 26 febbraio di un anno fa un caicco partito dalla Tunisia carico di un numero imprecisato di migranti si schiantò contro  una secca a poche decine di metri dalla costa, non lontano dalla foce del fiume Tacina. Novantaquattro i morti accertati, di cui 35 minori. Ottanta i sopravvissuti. I dispersi nel Mediterraneo invece non si contano più. Contare di notte su una barca o nei momenti concitati dell’imbarco è una pratica difficile di questi tempi per i fuggitivi. Qualcuno dice che sulla barca ci fossero 200 persone, qualcuno suggerisce 180. Chi manca è morto e mai ripescato. Per questo dare numeri è difficile.

Migranti, è passato un anno dalla tragedia di Cutro e l'indignazione si è spenta
Le bare delle vittime della tragedia di Cutro (Getty Images).

A ogni naufragio che ci sanguina in salotto il «mai più» viene ripetuto con meno vigore

Un anno dopo la tragedia Cutro sembrano passati 100 anni. Ai vivi si sono asciugati i polmoni e quei morti non sanguinano più, sono numeri senza identità, nomi e cognomi che non hanno mai meritato un elenco sulla pagina di un giornale. Lutti cortissimi dedicati ai parenti stretti. Il dolore collettivo, finanche l’indignazione, sono declinati al passato. Ogni volta che un barchino si rovescia troppo vicino alle nostre coste e ci sanguina in salotto, il «mai più» viene ripetuto con meno vigore, come una litania stanca. Ci promettiamo che serva di lezione ma non serve. Non è nemmeno una lezione, a pensarci bene, poiché non insegna. Il bello degli annegamenti nel Mediterraneo è che sono raccontabili come qualcosa che avviene all’orizzonte, lontano da noi. Il mare che per secoli è stato di tutti, ricchezza irrinunciabile di popoli e Paesi, in quel lembo non è più di nessuno. Il mar Mediterraneo è uno dei pochi luoghi del mondo in cui gli Stati cedono volentieri il proprio territorio al vicino per non doversene occupare. A noi basta la spiaggia per la lunghezza che serve a un campo da pallavolo e un chiosco di bibite e gelati e il mare utile per farci il bagno e schizzare con un gommone. Il resto è un bidone liquido dell’umido abbandonato in una strada buia.

Migranti, è passato un anno dalla tragedia di Cutro e l'indignazione si è spenta
Le operazioni di recupero dopo il naufragio del barcone a Cutro nel 2023 (Getty Images).

La giustizia italiana ci ha consegnato un colpevole che però dice di essere innocente

Le responsabilità della strage di Cutro che stuzzicavano la politica, le televisioni e i giornali sono state sepolte dalle indignazioni successive. Ora è il tempo dei trattori, prima era il tempo delle guerre, poi ci sarà il tempo della lotta alla lotta al cambiamento climatico. Gli esperti di quei giorni hanno dismesso gli abiti dei marinai ed esperti d’Africa e ora discettano di carburante agricolo e dell’Europa cattiva. La giustizia italiana qualche giorno fa ci ha consegnato un colpevole della strage. Gun Ufuk ha 29 anni ed è turco. Scafista, dice la sentenza. Per tutto il processo Ufuk ha detto di non avere mai toccato un timone in tutta la sua vita. Ha raccontato di essersi improvvisato meccanico di bordo per poter pagare meno il viaggio. Non gli hanno creduto. È colpa sua, quindi. Tanto ormai Steccato di Cutro è un ricordo talmente sfocato che un cognome del genere potrebbe perfino bastare.

Migranti, è passato un anno dalla tragedia di Cutro e l'indignazione si è spenta
La conferenza stampa dopo il cdm di Cutro, il 9 marzo 2023 (Getty Images).

Secondo l’ultimo rapporto Frontex, anche l’Italia sottovalutò l’emergenza 

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni sei giorni dopo la strage ha chiarito le responsabilità. Meglio, ha voluto chiarire che le responsabilità non erano sicuramente del governo italiano: «Nessuna comunicazione di emergenza da Frontex ha raggiunto le nostre autorità. Non siamo stati avvertiti che questa barca era in pericolo di affondare», disse. È la presidente del Consiglio, come possiamo permetterci di non crederle, di mettere in dubbio la sua parola soprattutto di fronte a quell’ammasso di morti. L’agenzia europea Frontex in un rapporto che abbiamo potuto leggere solo qualche giorno fa scrive in realtà che l’Italia, rappresentata da due suoi militari, era proprio nella stanza dell’agenzia a Varsavia con il dovere di sorveglianza. Dice Frontex che quando ha deciso – colpevolmente, questo ci permettiamo di dirlo noi – di non classificare quel barchino arenato come un’emergenza gli italiani hanno acconsentito. Acconsentire nel sottovalutare un’emergenza è sostanzialmente diverso dal «non essere stati avvisati» di cui parla Giorgia Meloni. Quisquilie, certo. La tragedia ormai è blanda e quindi ci si può permettere di non difendersi nemmeno dall’accusa di ipocrisia. Steccato di Cutro è diventato tema per appassionati e professionisti. La parola Cutro è diventata sinonimo di un decreto firmato dal governo con cui si puniscono le navi delle Ong che si permettono di fare più di un salvataggio. La parola Cutro è nella decisione politica di assegnare porti sempre più lontani alle navi che salvano vite per tenerle il più lontano possibile dai luoghi di salvataggio. Meno testimoni ci sono meglio è per tutti. I morti di Cutro lo insegnano. Se quei corpi non fossero arrivati sulla spiaggia avremmo potuto non accorgercene e l’Italia e l’Europa ne sarebbero state felici. Un anno dalla strage di Cutro e noi ce ne siamo dimenticati. Qualcuno potrebbe chiamarla resilienza: in fondo ci siamo abituati all’orrore per non doverci fare i conti troppo a lungo.

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Smaila a parlare di Foibe: Colpo grosso… di La Russa

Come tutti gli anni avvicinandosi al Giorno del ricordo sulle Foibe lo storico Eric Gobetti finisce sotto la polemiche della destra che da sempre lo accusa di negazionismo. Ieri al liceo D’Azeglio di Torino all’inizio della lezione di Gobetti un piccolo drappello di militanti di Gioventù Nazionale si sono presentati davanti all’entrata del liceo con uno striscione e alcuni fumogeni. Poi hanno esposto uno striscione con su scritto “Gobetti, firmi anche tu la proposta per revocare l’onorificenza conferita dalla Repubblica Italiana a Tito?”. Non è la prima volta che l’autore del libro “E allora le foibe?” viene attaccato.

Ogni anno la destra ci riprova. A febbraio del 2022 a Verona Casa Pound aveva diffamato lo storico torinese, definendolo “sociopatico e disturbato”, cercando di impedire l’incontro che si sarebbe dovuto tenere in città. Nel 2021 erano stati presi di mira i suoi social con insulti e minacce anche contro i suoi figli. La colpa di Gobetti è che fa seriamente lo storico, e – come dice giustamente Marco Grimaldi, deputato Verdi Sinistra – racconta tutta la storia della complessa vicenda del confine orientale: non soltanto quello che avvenne alla fine della seconda guerra mondiale, con la tragedia delle foibe e quella dell’esodo di oltre 300 mila persone dalle terre di Istria e Dalmazia, ma anche quello che avvenne durante l’epoca fascista, quando furono posti in essere continui soprusi ai danni della popolazione slava.

Quale studioso dovrebbe parlare di Foibe? Il presidente del Senato Ignazio Benito Maria La Russa due giorni fa ha avuto un’idea: invitare a Sanremo per parlare del Giorno del ricordo Umberto Smaila, showman diventato famoso con il programma tv Colpo Grosso e figlio di esuli fiumani.

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Chi c’è dietro la protesta dei trattori?

Ma chi c’è dietro la protesta dei trattori? Chi sono i personaggi accarezzati dalla maggioranza del governo? Un nome su tutti è quello di Danilo Calvani, già noto per essere stato in sella alla cosiddetta rivolta dei “forconi”. Posato il forcone e a cavallo del trattore ora Calvani guida la sigla Cra, acronimo di Comitato degli agricoltori, che in queste ore sono a Roma, anche se in quantità assai ridotta rispetto alle promesse rivoluzionarie.

Ma chi c’è dietro la protesta dei trattori? Chi sono i personaggi accarezzati dalla maggioranza del governo?

“A Roma contiamo di fare arrivare migliaia di mezzi”, diceva Calvani in un’intervista al Qn. Non è andata esattamente così. “Siamo contro le politiche green europee, il governo non ha fatto nulla per tutelarci – spiega ancora -. Chiediamo l’annullamento di tutti i patti bilaterali. Contestiamo il Green corridor perché permette di importare prodotti da paesi che non rispettano le norme fito-sanitarie” che ce l’ha anche con Coldiretti colpevole di “avere avvallato queste scelte”. A capo dei forconi nel 2013 Calvani si spostava su un’elegante Jaguar in difesa “della povera gente oppressa”.

Nel movimento anche frange No Vax e No Green Pass

Una popolarità effimera che gli ha fatto guadagnare comunque più di 80mila seguaci su Facebook dove Calvani esprime la sua lotta. ***…Eppur si muove…*** Ho visto la mia Patriagovernata per anni da criminali e corrotti!!, scrive (rigorosamente in maiuscolo) nella sua bio. Ieri annunciava il primo giorno di “assedio su Roma” augurandosi la benedizione di Dio. La sua bacheca è un concentrato di populismo no vax e no green pass, con l’ex premio Nobel Montagnier come profeta, no euro, e difesa della famiglia patriarcale “dove mamma e papà ti amano davvero tanto fino a darti ceffoni quando serve”.

Non manca nella sterminata letteratura populista di Calvani anche la difesa “di Gesù” e di Babbo Natale usati ovviamente come roncola contro gli italiani che “dovrebbero lasciare l’Italia” e contro gli stranieri colpevoli di “invasione”. Odiatissime le auto elettriche: “Compreremo auto elettriche quando i vostri carri armati saranno elettrici, psicopatici!”, strilla sul suo profilo social. Tra i nemici ci sono ovviamente gli scienziati, i politici definiti “pletora di vili parassiti” e la Chiesa. Anzi, contro l’istituzione cattolica vale anche riprendere le parole del boss di Cosa nostra Matteo Messina Denaro: “Perché Messina Denaro non voleva i funerali della chiesa se era cattolico?”, chiede furbescamente Calvani.

L’ex Forza Nuova Castellino partecipa con la sigla Ancora Italia

“Stato, Mafia, Chiesa, tirate voi le somme”, gli risponde prontamente un suo lettore. Non serve nemmeno dire che tra i miti di Calvani figuri “un grande generale, un grandissimo italiano” come Roberto Vannacci che “sta mettendo a rischio la carriera per difendere il suo Paese”. Calvani è sostanzialmente il sussidiario della destra populista italiana. Sotto la sigla “Ancora Italia” c’è invece Giuliano Castellino (nella foto), ex esponente di Forza Nuova. “Con gli agricoltori, con il popolo della terra, popolo unito contro Bruxelles” è il suo grido di battaglia in un video postato in rete.

Tra le sigle della protesta spicca anche “Riscatto agricolo”, il movimento guidato dal toscano Salvatore Fais celebrato come “l’agricoltore che tappa la bocca alla pennivendola rossa di Repubblica” perché in una diretta televisiva ha invitato la giornalista Tonia Mastrobuoni “a zappare prima di aprire la bocca”. Ecco perché Salvini ci tiene così tanto ai contestatori. Alcuni sono esattamente come lui, anche se non ha mai zappato nella vita.

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Dubbi sulla cauzione per i migranti. La Cassazione si rimette alla Corte Ue

Dalle parti del governo dove speravano di ottenere il suggello della Corte di Cassazione sono rimasti delusi. La garanzia finanziaria richiesta agli immigrati reclusi inserita nel cosiddetto decreto Cutro va trasmessa alla Corte di giustizia europea, affinché si pronunci in via d’urgenza. Sospesi quindi i procedimenti sui 10 migranti trattenuti nel Cpr di Pozzallo che qualche tempo fa avevano sollevato un polverone per la decisione dei giudici di disapplicare il decreto firmato dal ministro Matteo Piantedosi.

In base alle norme europee il tribunale di Catania liberò 10 migranti dai Cpr scatenando le ire del vice premier Salvini

In quell’occasione la giudice Iolanda Apostolico venne brutalmente attaccata dal ministro Matteo Salvini e da diversi membri della maggioranza, anche per la sua partecipazione a una manifestazione in difesa dei migranti. La decisione è delle Sezioni Unite Civili della Cassazione che con una ordinanza interlocutoria hanno di fatto accolto la prospettazione della Procura generale. Gli ermellini sono intervenuti sulla base di un ricorso dell’Avvocatura dello Stato per il ministero dell’Interno in relazione ai provvedimenti con cui il tribunale di Catania non convalidò i trattenimenti, disposti dal questore di Ragusa in applicazione del decreto Cutro. La Cassazione rimette alla Corte di giustizia europea affinché si decida sulle norme europee del 2013, e la garanzia finanziaria richiesta. Deve essere in misura fissa (4.938 euro) oppure variabile “senza consentire alcun adattamento dell’importo alla situazione individuale del richiedente”.

La Cassazione chiede alla Corte di giustizia europea se può essere “in misura variabile” perché la normativa non consente “alcun adattamento dell’importo alla situazione individuale del richiedente, né la possibilità di costituire la garanzia stessa mediante intervento di terzi, sia pure nell’ambito di forme di solidarietà familiare, così imponendo modalità suscettibili di ostacolare la fruizione della misura alternativa da parte di chi non disponga di risorse adeguate, nonché precludendo la adozione di una decisione motivata che esamini e valuti caso per caso la ragionevolezza e la proporzionalità di una siffatta misura in relazione alla situazione del richiedente medesimo”.

Si tratta della stessa osservazione avanzata da alcuni giuristi durante la discussione della legge: così com’è scritta la norma consente solo ai ricchi di “comprarsi” la libertà, contravvenendo le leggi internazionali nonché la nostra Costituzione. Giovanni Zaccaro, segretario di Area Democratica per la Giustizia – l’associazione che riunisce le toghe progressiste – sottolinea come le Sezioni Unite non hanno smentito i giudici catanesi ma hanno confermato le criticità esistenti nel cosiddetto decreto Cutro e la possibile contrarietà alla normativa europea”.

Magistratura democratica: “Gli attacchi nei confronti della giudice Apostolico erano privi di senso anche sul piano giuridico”

Mentre la presidente di Magistratura democratica Silvia Albano sottolinea come la decisione della Cassazione “conferma che gli attacchi nei confronti della giudice Apostolico erano privi di senso anche sul piano giuridico”: “c’è un problema di conformità – aggiunge Albano – alla direttiva delle norme che prevedono una garanzia finanziaria come alternativa alla detenzione nei centri. Quando il giudice rileva profili di illegittimità delle norme per la non conformità al diritto della Ue o alla Costituzione, non lo fa certo per fare opposizione al Governo, ma esercita la funzione che la Costituzione e i trattati gli attribuiscono”.

La giudice Apostolico e i suoi colleghi quindi non erano “toghe rosse” che remavano contro il governo ma semplici giudici che hanno avuto gli stessi dubbi che oggi gli ermellini chiedono alla Corte Ue di risolvere. Ma il fango intanto è già stato versato.

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La vera domanda da porsi sui Cpr

Qualche giorno fa è apparso in rete un video girato all’interno della struttura di Pian del Lago – Caltanissetta che testimoniava le condizioni in cui sono costretti a vivere numerosi cittadini stranieri in attesa di essere rimpatriati. In contemporanea alle rivolte nel Centro per il rimpatrio (Cpr) di Milo a Trapani anche a Pian del Lago le proteste si sono fatte largo tra i detenuti che lamentano percosse, torture, persone che dormono su cartoni srotolati su letti di cemento.

L’avvocato Arturo Raffaele Covella per Melting Pot ha raccolto la testimonianza di un ospite: «Sto dormendo da 13 giorni fuori, senza materassi, senza niente (…) Dormiamo all’aperto perché il posto è bruciato tutto (….) Sono tredici giorni che dormo fuori senza materasso e con una coperta che mi sono portato io». «La situazione è bruttissima … è brutta…. Sto male, ho anche chiesto di andare all’ospedale per fare visita ma non c’è niente (….) la mia salute è peggiorata (….) dormo fuori, troppo, troppo, troppo freddo». «Il bagno non c’è (….) è tutto rovinato (….) non posso spiegarti avvocato (…) è bruttissimo».  

Nella mattinata di domenica 4 febbraio, tra le 5 e le 6 del mattino, dentro al Cpr di Ponte Galeria (Roma) un giovane 22enne di nome Ousmane Sylla è stato ritrovato esanime: si è impiccato con un lenzuolo annodato a una grata. Come scriveva ieri Adriano Sofri su Il Foglio non bisognerebbe interrogarsi «tanto sulle ragioni che hanno spinto Ousmane Sylla a uccidersi; dovrebbero chiedersi soprattutto come mai tante altre e altri come lui non si uccidano». 

Buon venerdì. 

Nella foto: frame del video girato nella struttura di Pian Del Lago, Caltanissetta

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Vietato cantare di pace. Pure sul palco di Sanremo

Da un paio di giorni rimbalzano sui giornali le accuse della comunità ebraica di Milano al cantante Ghali che sarebbe colpevole di cantare a Sanremo una canzone con il verso “con linee immaginarie bombardate un ospedale”. Per il presidente della comunità ebraica di Milano Walker Meghnagi non è possibile “accettare che nella nostra Italia, nel paese dei nipoti di quanti hanno stilato le Leggi Razziali, si possa spacciare una tale propaganda antisraeliana, in prima serata, sulla televisione pubblica”.

Da un paio di giorni rimbalzano sui giornali le accuse della comunità ebraica di Milano al cantante Ghali

L’accusa, ovviamente, è sempre la stessa: antisemitismo. Da parte sua il cantante ha spiegato che la canzone “affronta anche il tema della guerra, ma che non è conseguenza degli attacchi del 7 ottobre in Israele. È stata scritta prima, ed io mi sono chiuso in una bolla per fuggire dai pensieri”. “È necessario – ha poi aggiunto Ghali – prendere una posizione perché il silenzio non suoni come un assenso. Se la mia canzone porta luce su quello che si finge di non vedere, allora ben venga. Non si può andare oltre”.

Meghnagi – lo dice Bruno Montesano, del Laboratorio Ebraico Antirazzista – è “noto per essere di estrema destra”. Due anni fa chiamava per nome (“Giorgia e Ignazio”) la presidente del Consiglio Meloni e il presidente del Senato La Russa esprimendo apprezzamento per una destra che “mai ha mancato di schierarsi con Israele in politica estera” aggiungendo “ci accomuna l’amore per il valore della libertà… sapendo conservare le tradizioni e l’identità”. Come ricorda Paolo Mossetti nel Giorno della memoria del 2023 è sempre con La Russa che Meghnagi sceglie di abbracciarsi in pubblico. Qualche tempo fa accusò di antisemitismo Conte e i 5S. Alla minaccia di querela si scusò. Giusto per chiarezza.

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Il conto della guerra in Ucraina voluta dagli Usa lo paga l’Ue

Non si è ancora posata la polvere dell’accordo in Ue per il nuovo pacchetto di aiuti (50 miliardi di euro) all’Ucraina e già cresce il timore che si tratti di un’inutile goccia nel deserto. I bisogni finanziari di Kiev crescono di giorno in giorno, la guerra in Ucraina si trascina ormai da tre anni e nei palazzi di Bruxelles il timore è che l’Unione europea si ritrovi sola.

L’Ue faceva molto affidamento sugli Usa e il presidente Joe Biden è in difficoltà con l’avvicinarsi della campagna elettorale contro Donald Trump. Le difficoltà del presidente americano di sbloccare il pacchetto di aiuti da 60 miliardi osteggiato dai repubblicano al Congresso rischia di essere un presagio di ciò che potrebbe accadere con l’eventuale elezioni di Donald Trump. Nei corridoi di Bruxelles il timore è che alla fine l’Europa si ritrovi sola a sostenere l’impresa. L’Ue ha stanziato 50 miliardi per un triennio per il periodo 2024-2027 ma il Fondo monetario internazionale stima che all’Ucraina solo nel 2024 servano “circa 42 miliardi di dollari di finanziamenti per rimettere il paese sulla strada della stabilità fiscale ed esterna”.

Per la ricostruzione servono centinaia di miliardi. Il disimpegno degli Stati Uniti nella guerra in Ucraina ha messo l’Europa spalle al muro

L’accordo Ue della scorsa settimana, raggiunto dopo che il presidente ungherese Viktor Orbàn l’aveva bloccato lo scorso dicembre, ha spinto la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen a promettere di “stare con l’Ucraina per tutto il tempo necessario”. Poche ore dopo Gabrielius Landsbergis, il ministro degli Esteri della Lituania, che confina con l’exclave russa di Kaliningrad, ha smussato l’entusiasmo specificando che si tratta nient’altro che di “un passo nella giusta direzione”.

“Tutti si rendono conto che 50 miliardi di euro non sono sufficienti”, ha detto lunedì ai giornalisti Johan Van Overtveldt, un conservatore belga che presiede la commissione per il bilancio del Parlamento europeo. “L’Europa si rende conto che deve intensificare i suoi sforzi”. “Sforzi” in questo caso è un eufemismo per dire che serviranno altri soldi e che bisognerà capire dove pescarli in un bilancio già compresso. Le stime della Banca Mondiale prevedono per le esigenze a lungo termine dell’Ucraina e per la ricostruzione una cifra intorno ai 411 miliardi di dollari. I 50 miliardi dell’Ue sono una poco più di un decimo.

Negli Usa i democratici al Senato stanno pianificando di fare un ultimo disperato tentativo mercoledì per salvare un disegno di legge che contiene anche gli aiuti per Ucraina e Israele, con i repubblicani intenzionati a bocciare il pacchetto per il disaccordo sulle regole di controllo delle frontiere. L’ultimo disperato tentativo dei dem è di scorporare gli aiuti a Israele e Ucraina e chiedere una votazione a parte per i 60,1 miliardi di dollari in assistenza militare per l’Ucraina, 14,1 miliardi di dollari in assistenza di sicurezza per Israele e 10 miliardi di dollari in aiuti umanitari per i civili delle crisi globali, tra cui palestinesi e ucraini. È probabile che questa sia l’ultima opportunità per l’amministrazione Biden di approvare il finanziamento per Kiev prima che l’America vada alle urne a novembre.

“Il 2025 è molto insicuro per l’Ucraina”, ha detto Svitlana Taran, del think tank del Centro politico europeo di Bruxelles. “Soprattutto con le elezioni statunitensi” se si traducono in una vittoria di Trump. Matteo Patrone, un alto funzionario che lavora sull’Ucraina per la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo (Bers) ieri ha spiegato che “ad un certo punto Kiev potrebbe dover imparare a stare in piedi da sola”. Lo scenario fosco è che alla fine a combattere la guerra fortemente voluta dagli Usa ci rimanga solo l’Europa.

Leggi anche: Il Senato Usa volta le spalle a Biden e a Kiev: bocciato il pacchetto che prevedeva nuovi aiuti all’Ucraina e una stretta sui migranti

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Flagelli d’Italia, la premier e il cognato nel mirino dei Trattori

Ieri ha presentato il programma “Frutta e Verdura nelle scuole”, si è complimentato con il Parlamento europeo per il primo via libera alle nuove tecniche genomiche in agricoltura, ha visitato lo stand del Piemonte alla fiera di Berlino Fruit Logistica, ha incassato l’infrazione da Bruxelles per la legge sulla caccia ma non ha trovato il tempo di dire una sola parola sulla protesta dei trattori. Il cognato d’Italia nonché ministro all’Agricoltura e alla Sovranità alimentare Francesco Lollobrigida a rispondere alle domande della Camera ha mandato il suo collega Luca Ciriani, ministro per i Rapporti con il Parlamento, preferendo soggiornare all’estero.

Il ministro all’Agricoltura e alla Sovranità alimentare Francesco Lollobrigida non ha trovato il tempo di dire una sola parola sulla protesta dei trattori

“Il governo è sensibile alle istanze” provenienti dagli agricoltori e ha “come priorità l’impiego a sostegno dei più deboli” per questo “è allo studio, da inserire nel primo veicolo normativo utile” anche eventualmente il Milleproroghe una misura “volta a prevedere l’esenzione a quelli che necessitano un effettivo sostegno ferme restando le altre misure agevolative”, ha spiegato Ciriani al question time alla Camera e replicando a una domanda di Iv sull’Irpef per gli agricoli. “È una occasione per finalizzare al meglio gli interventi pubblici per portare a casa risultati concreti”.

“L’esenzione fiscale citata – ha sottolineato il ministro – come ricordato dalla premier Meloni interveniva su tutte le imprese agricole a prescindere dalla dimensione con vantaggio maggiore per le più grandi”. In evidente difficoltà Ciriani ha elencato le misure prese dal governo dopo lo stop dell’esenzione. Misure evidentemente inefficaci se è vero che la protesta degli agricoltori ha nel mirino le misure di Bruxelles ma contemporaneamente chiede le dimissioni del ministro Lollobrigida. “Governare impone delle scelte – ha osservato Ciriani – e per questa ragione sono stati messi in campo interventi di natura puntuale”.

È in fondo lo stesso copione recitato dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni che a L’Aquila per la firma sui fondi di Sviluppo e Coesione con la Regione Abruzzo ripete ancora che con la rinegoziazione del Pnrr avrebbe “liberato 3 miliardi di euro per le aziende agricole, perché da molto prima che ci fossero le manifestazioni e si scendesse in piazza questo governo ha difeso il comparto agricolo da alcune scelte troppo ideologiche che rischiavano di perseguire la transizione verde rischiando di produrre una diversificazione industriale”.

Il ministro manda Ciriani a rispondere sull’Irpef agricola. La premier spaccia ancora per nuovi i 3 miliardi del Pnrr

Si tratta degli stessi 3 miliardi che annunciava già a novembre suo cognato ministro. Le risorse sono quindi frutto della rinegoziazione del Pnrr, condotta nella seconda metà del 2023: il via libera annunciato oltre due mesi fa. Infatti le proteste continuano fregandosene degli annunci in tutta Italia, dalla Sardegna alla Sicilia, dalla Toscana all’Emilia-Romagna. Vicino Grosseto le forze dell’ordine hanno bloccato un corteo di trattori, con 9 km di coda sull’Aurelia; altri 250 mezzi hanno occupato un casello dell’A14 nel Bolognese.

A Roma i trattori si sono divisi in due fronti e pensano di convergere verso il centro. Al governo affannosamente si studiano soluzioni. Mentre i renziano chiedono la proroga dell’esenzione Irpef un emendamento della Lega al Milleproroghe chiede la proroga dell’esenzione dell’imposta agricola per il 2024. Il M5s chiede il credito d’imposta per l’acquisto di macchinari agricoli e la decontribuzione per i nuovi imprenditori agricoli. Ma dal Mef il ministro all’Economia Giorgetti ricorda che la coperta è corta, cortissima. Intanto Lollobrigida da Berlino dice che bisogna “creare ricchezza esportando qualità”. Chissà che ne pensano gli agricoltori.

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L’eroico stupro di Tassi riabilitato a Genova

A Palazzo Ducale a Genova c’è in questi giorni una mostra dedicata a Artemisia Gentileschi, dal titolo “Coraggio e passione” che dovrebbe celebrare l’arte della pittrice del ‘600 di scuola caravaggesca. Figlia del pittore pisano Orazio, Artemisia Gentileschi fu una grande artista in grado di rivelare il proprio talento e di riuscire a imporsi in una società tendenzialmente chiusa, in cui le donne non avevano molte possibilità di emergere.

A Palazzo Ducale a Genova c’è in questi giorni una mostra dedicata a Artemisia Gentileschi dal titolo “Coraggio e passione”

A diciott’anni subì uno stupro da Agostino Tassi, pittore amico del padre. Anche in quel tempo denunciare una violenza era un’onta infamante, ma Tassi venne condannato e gli atti dei quel crudo processo sono arrivati fino a noi. Il curatore Costantino D’Orazio ha aggiunto nel percorso della mostra una stanza divenuta tristemente nota come “sala dello stupro” che – come denuncia una lettera aperta firmata da un gruppo di attiviste, esperte e organizzazioni – “non viene in alcun modo segnalata, presenta un’installazione che intende rappresentare il primo stupro che Gentileschi subì da parte di Agostino Tassi.

Lo fa con un letto collocato al centro mentre i dipinti della pittrice proiettati sulle pareti si colorano di sangue. Non manca una voce femminile registrata di sottofondo che recita le dichiarazioni della pittrice al processo, un processo che fu estremamente intrusivo e umiliante per Artemisia, lasciandola con la reputazione distrutta”. Nel negozio di souvenir all’uscita si possono trovare il libro “La notte tu mi fai impazzire. Gesta erotiche di Agostino Tassi, pittore” di Pietrangelo Buttafuoco che romanticizza la violenza e vari gadget con la citazione di Tassi “Io del mio mal ministro fui” che con simpatia ripercorre l’evento.

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