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Maysoon Majidi, scafista in un bicchiere d’acqua

Maysoon Majidi è nata in Iran. Nel 2019 con suo fratello scappa nella Kurdistan iracheno per sfuggire a un mandato di arresto. La sua colpa I diritti. Ci sono Paesi in cui la difesa dei diritti costa nel migliore dei casi il carcere e nel peggiore la vita. 

In Iraq persevera nel suo impegno, con l’associazione Hana. Quando non le viene rinnovato il permesso di soggiorno capisce subito che sarebbe stata un boccone prelibato per gli sgherri iraniani di Ali Khamenei. Decide di partire. Attraverso la Turchia fino alle coste del crotonese. 

Sulle coste crotonesi insieme ad alcuni compagni di sventura attracca in un Paese – il nostro – con l’ossessione di scovare scafisti in tutto l’orbe terraqueo. Così basta che alcune persone delle forze dell’ordine traducano poco e male le testimonianze dei suoi compagni di viaggio per essere accusata di essere l’aiutante del capitano, quindi scafista anche lei. 

La prova regina sarebbe che Majidi distribuiva acqua durante il viaggio, evitando che i migranti venissero cotti dal sale e dal sole. Ci vuole una gran fantasia per convincersi che una donna a rischio della propria vita per la difesa dei diritti umani decida di arruolarsi nella criminalità organizzata per qualche spiccio da guadagnare con una traversata. 

Il 31 dicembre dell’anno scorso viene arrestata e sbattuta in carcere. Lei reclama la sua innocenza, arriva a pesare 38 chili per uno sciopero della fame. Più della condanna teme ovviamente il rimpatrio in Iran. 

Dopo quasi 11 mesi ieri il tribunale di Crotone ha accolto l’istanza del suo avvocato e Maysoon Majidi ha potuto dormire da donna libera, in attesa della sentenza di assoluzione che dovrebbe arrivare il 27 novembre. Ah, gli scafisti. 

Buon giovedì. 

Foto dalla pagina facebook Maysoon Majidi

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Italia e Austria in pressing per inserire la Siria nell’elenco dei Paesi sicuri

Inserire la Siria nell’elenco dei paesi sicuri. No, non è l’inizio di una barzelletta ma l’ultima trovata di Italia e Austria che vorrebbero riscrivere la geografia della sofferenza umana con la penna dell’ipocrisia. Secondo fonti Ue, il governo di Giorgia Meloni starebbe lavorando a stretto contatto con il premier austriaco per fare pressioni su Bruxelles chiedendo all’Unhcr, l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, una verifica sull’esistenza di aree della Siria che possano essere considerate sicure per il rientro di alcune categorie di richiedenti asilo.

Facciamo un passo indietro: nel 2015, quando un milione di rifugiati siriani bussava alle porte dell’Europa, la Germania di Angela Merkel spalancava le braccia dicendo “Ce la possiamo fare”. Oggi, quasi dieci anni dopo, l’Italia di Giorgia Meloni e l’Austria di Karl Nehammer vorrebbero convincerci che quel paese, dove Assad ha usato armi chimiche contro il suo stesso popolo, sia improvvisamente diventato un resort a cinque stelle.

La realtà dei numeri non mente

Ma i numeri, si sa, sono testardi. Parliamo di 4,5 milioni di siriani fuggiti dal loro paese, un quinto della popolazione prebellica. Scappavano da una guerra civile che ha trasformato intere città in cimiteri a cielo aperto. E l’Europa, quella stessa Europa che oggi vorrebbe voltare loro le spalle, ha concesso protezione internazionale a 1,3 milioni di loro tra il 2015 e il 2023.

La realtà è che nel 2023 i siriani rimangono il gruppo più numeroso a chiedere protezione internazionale nell’UE. Più di 180.000 richieste solo l’anno scorso, con un incremento rispetto alle 130.000 dell’anno precedente. E il 90% di queste richieste viene accettato. Perché? Perché ogni singola autorità competente riconosce che rimandare queste persone in Siria significherebbe esporle a “un rischio sostanziale di danni gravi”.

Nehammer ha una prova inconfutabile della sicurezza siriana: 200.000 persone hanno attraversato il confine dal Libano alla Siria durante l’attuale crisi con Israele. Come se fuggire da una zona di guerra verso un’altra zona di guerra fosse la dimostrazione che la seconda è un paradiso terrestre. Per il premier austriaco cadere dalla padella alla brace significa che la brace era “sicura”. 

L’Agenzia dell’Unione europea per l’asilo (EUAA) è cristallina: un paese sicuro è quello dove “la legge è applicata democraticamente e le circostanze politiche non portano generalmente e costantemente a persecuzioni, torture, trattamenti o punizioni disumani”. La Siria di Assad, quello stesso Assad che l’UE ha sanzionato per l’uso di armi chimiche e torture sui civili, non rientra neanche lontanamente in questa definizione.

L’EUAA, nell’aprile 2024, definisce il governo di Assad come “un attore principale della persecuzione e dei gravi danni nel paese”. In alcune aree, come il governatorato di Aleppo, la sola presenza di un civile costituisce “un rischio reale di gravi danni”. Ma evidentemente per alcuni leader europei questi sono dettagli trascurabili.

L’ipocrisia europea al servizio della convenienza politica

La verità è che la proposta di “paese sicuro” è l’ennesimo tentativo di mascherare il fallimento delle politiche migratorie europee dietro una facciata di presunta legalità. È come dire a qualcuno che sta annegando che l’acqua non è poi così profonda.

E mentre i politici giocano con le definizioni, ci sono siriani in Europa che lavorano, studiano, contribuiscono alle nostre società. Persone che, come ricorda Eva Singer del Consiglio danese dei rifugiati, “vengono costantemente ricordate che potrebbero non essere autorizzate a rimanere qui”.

La Danimarca ci ha già provato dal 2019, sostenendo che Damasco fosse sicura. Risultato? Nessun siriano è stato deportato. Perché anche i tribunali sanno che la realtà non si può piegare alla convenienza politica.

L’ipocrisia ha le gambe corte, dice il proverbio. Ma evidentemente cammina abbastanza veloce da raggiungere i palazzi del potere europeo. La Commissione europea continua a ricordare che metà della popolazione siriana è sfollata e i bisogni umanitari sono ai massimi storici ma per alcuni governi, evidentemente, questi sono solo dettagli che intralciano la narrazione. 

La verità è che non esistono scorciatoie nella gestione dei rifugiati. 

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Dubbi sul rispetto dei diritti umani, Ursula alle prese con la grana Tunisia

L’accordo tra Unione europea e Tunisia, firmato nel luglio del 2023 e fortemente voluto dalla presidente del Consiglio Giorgia Meloni, è tornato sotto i riflettori grazie a un’indagine avviata dal Mediatore europeo. Dietro l’apparente formalità di un accordo politico, volto a rafforzare il controllo delle migrazioni irregolari, si nasconde una questione ben più profonda: il rispetto dei diritti umani. E proprio qui entra in gioco l’inchiesta dell’Ombudsman, che ha evidenziato l’opacità della Commissione europea nella gestione e nella comunicazione di questo delicato aspetto.

Diritti umani sotto esame: l’ombra sull’accordo Ue-Tunisia

Non è la prima volta che un’iniziativa dell’Ue, specie in materia migratoria, viene accusata di mettere i diritti umani in secondo piano. Ma stavolta la vicenda assume contorni più inquietanti, poiché l’Ombudsman ha esplicitamente criticato la Commissione per non aver condotto una valutazione adeguata dell’impatto sui diritti umani (Human Rights Impact Assessment, HRIA) prima della firma dell’accordo con la Tunisia. La questione non è solo una mancanza procedurale, ma un sintomo di come la politica migratoria europea continui a camminare sul filo sottile tra sicurezza e diritti, spesso sbilanciandosi sul primo aspetto.

Il Mediatore, nel suo rapporto, sottolinea che nonostante la Commissione avesse dichiarato che non fosse necessaria una valutazione formale dell’impatto sui diritti umani, è emerso che un esercizio di gestione del rischio sia stato comunque effettuato. Peccato che la Commissione non abbia ritenuto opportuno condividerlo con il pubblico, né con i principali attori coinvolti come le organizzazioni internazionali per la tutela dei diritti umani.

Il protocollo d’intesa tra Ue e Tunisia è un documento che non si limita a indicare linee guida sulla gestione della migrazione. Include anche il sostegno finanziario per la fornitura di attrezzature, la formazione e il supporto tecnico per le autorità tunisine nel controllo delle frontiere. Tuttavia, sono proprio le notizie provenienti dalla Tunisia che fanno sorgere i maggiori dubbi sulla correttezza di tali iniziative. Le denunce sui trattamenti disumani inflitti ai migranti, gli abusi e le violenze perpetrate dalle autorità locali mettono in discussione l’efficacia e l’eticità dell’accordo. Nonostante le rassicurazioni della Commissione sulla supervisione delle operazioni, l’assenza di una trasparente valutazione del rischio alimenta la sfiducia e i timori di violazioni sistematiche.

Trasparenza e responsabilità: le richieste del Mediatore europeo

Il Mediatore europeo ha chiesto alla Commissione di pubblicare una sintesi dell’esercizio di gestione del rischio e, soprattutto, di stabilire criteri chiari e pubblici per la sospensione dei finanziamenti qualora venissero identificate violazioni dei diritti umani. Questo punto è cruciale: l’Unione europea, che si pone come garante dei diritti fondamentali, non può permettere che i suoi fondi vengano utilizzati per alimentare pratiche contrarie a quei principi su cui è fondata. La trasparenza è il primo passo per garantire che gli aiuti non siano un’arma a doppio taglio.

L’Ombudsman ha anche proposto che la Commissione incoraggi la creazione di meccanismi di reclamo accessibili, attraverso i quali le vittime di abusi possano segnalare le violazioni. Un segnale forte, che sottolinea quanto la questione dei diritti umani non possa essere relegata ai margini, soprattutto in un contesto così delicato come quello dei migranti. Non si può pensare di risolvere il problema delle migrazioni irregolari con una militarizzazione delle frontiere, senza al contempo assicurarsi che vengano rispettati i diritti delle persone coinvolte.

La Commissione, da parte sua, ha dichiarato di monitorare continuamente la situazione attraverso le relazioni dei partner internazionali come l’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni (OIM) e l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Diritti Umani (UNHCR). Tuttavia, il Mediatore ha sottolineato che la delega del monitoraggio a terzi non può sostituire una valutazione d’impatto formale e periodica, che garantisca una visione chiara e completa della situazione.

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Tra tribunali e governo chi sta esondando davvero?

C’è qualcosa di poeticamente perfetto nel tempismo con cui il Tribunale di Roma ha rigettato la richiesta di sorveglianza speciale per Giacomo Baggio di Ultima Generazione, proprio mentre il ministro Nordio tuonava contro la magistratura rea di “esondare”. Viene da chiedersi chi stia davvero esondando in questo Paese dove i fiumi tracimano con regolarità tragica mentre il governo si affanna a criminalizzare chi protesta per il clima.

La sentenza del Tribunale è cristallina: le azioni di Baggio non sono espressione di pericolosità sociale ma di appartenenza a un movimento che persegue l’ideale di contrastare il disastro ambientale. Una lezione di diritto e di democrazia servita su un piatto d’argento a chi vorrebbe trasformare il dissenso in reato.

È la terza volta che i tribunali respingono tentativi di applicare la sorveglianza speciale agli attivisti climatici. Tre schiaffi al tentativo grottesco di equiparare la disobbedienza civile nonviolenta alla criminalità organizzata. Ma questo governo preferisce sprecare tempo e risorse per intimidire chi ha il coraggio di alzare la voce mentre il Paese affonda nel fango.

Il DDL sicurezza è l’ultimo atto di questa deriva autoritaria. Un provvedimento talmente “iniquo” e “illiberale” da spingere persino i penalisti allo sciopero. Ma mentre la politica si arrampica sugli specchi della repressione, la magistratura ci ricorda che in uno Stato di diritto la protesta pacifica non può essere silenziata.

La storia insegna che nessuna repressione ha mai fermato le idee giuste. E di giusto, in questa storia, c’è solo chi ha il coraggio di alzarsi in piedi per difendere il futuro di tutti.

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Dal Silos alle strade, Trieste emblema del fallimento sui migranti

Per comprendere il fallimento totale della propaganda basta fare un salto a Trieste. Lì il Silos, un tempo rifugio precario per chi attraversava il buio della rotta balcanica, oggi è solo un moncone recintato. Sgombrato in poche ore, il 21 giugno 2024, dalle forze dell’ordine. E come in uno dei più tragici paradossi italiani a un edificio vuoto corrispondono strade colme di umanità alla deriva. A tre mesi dalla chiusura, Trieste è diventata il simbolo di un fallimento annunciato, una città trasformata in bivacco per migranti che dormono all’aperto, dimenticati da uno Stato che li ha trasformati in un problema da spostare altrove.

Il rapporto “Silos Vuoto, Strade Piene” è la cronaca dei danni della propaganda. A Trieste ogni notte centinaia di persone si riparano sotto i portici della stazione, come ombre che infestano le mura. Secondo i dati del report nei tre mesi successivi allo sgombero più di 5.000 persone sono transitate per la città. Migranti in viaggio, migranti in attesa, migranti lasciati al freddo e alla pioggia, come se la chiusura di quel vecchio edificio avesse potuto cancellare la loro esistenza. Invece l’umanità s’è sparpagliata, ancora più disperata. 

E allora eccoli lì, gli “invisibili” del Silos, ammassati in Piazza Libertà. Un uomo siriano, piegato dalla fatica e dalla disperazione, si racconta così: “Siamo fantasmi. Nessuno ci vede, nessuno ci aiuta”. Eppure sono lì, ogni sera, con il corpo segnato dal freddo e dalla pioggia, bambini infreddoliti e respinti . “Il mio bambino ha la febbre”, dice un padre curdo, “non so più cosa fare. Camminiamo, ci spostiamo, ma non ci accolgono. Il Silos era una speranza, ora non c’è più nulla”. 

Silos vuoto, promesse mancate

Lo sgombero del Silos avrebbe dovuto essere, nelle intenzioni, una soluzione. È il culto dello sgombero propagandato come risolutorio. La realtà è un’altra: chiudere quel rifugio di fortuna ha solo spostato il problema. Era stato promesso l’ampliamento dell’Ostello di Campo Sacro, l’installazione di moduli abitativi per aumentare la capacità di accoglienza. Parole. Perché i posti restano insufficienti, e i lavori si trascinano. Nel frattempo, Piazza Libertà si anima ogni sera come un teatro di disperazione, tra volontari che distribuiscono cibo e vestiti e bambini che dormono sui marciapiedi. 

La retorica del governo Meloni sul “controllo delle frontiere” si scontra contro la cruda realtà di Trieste. Un sistema che espelle, rimuove, e per precisa scelta politica non accoglie. Ogni promessa è un vuoto che si allarga. Mentre Frontex parla di un calo del 77% dei flussi migratori lungo la rotta balcanica i numeri reali dicono altro: solo nei primi otto mesi del 2024, sono arrivati 8.686 migranti a Trieste, quasi 150 persone a settimana. Nonostante i proclami di sicurezza, la gente continua a camminare, disperata, verso un’Europa che si blinda.  

Trieste, specchio di un fallimento nazionale

Ecco il grande tradimento: il Silos vuoto e le strade piene sono la fotografia perfetta del Paese. Trieste non è un caso isolato ma un simbolo della mancanza di una politica di accoglienza efficace in Italia. Il sistema di accoglienza straordinaria (Cas) è saturo, e le strutture di bassa soglia, come i dormitori, non sono sufficienti a coprire i bisogni immediati.

Un uomo siriano che, dopo aver perso la sua famiglia durante il viaggio, si è trovato a dormire all’aperto per settimane, senza un pasto caldo né la possibilità di lavarsi. “Siamo esseri umani, ma qui ci trattano come fantasmi”, dice. “La sera, quando la città dorme, noi ci rifugiamo nei pochi angoli che troviamo. Nessuno ci vede, nessuno ci aiuta”. Lui non lo sa ma è il nemico perfetto per la propaganda. 

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Anche i buoni sul razzismo sono distratti

Se la stampa e il dibattito pubblico non prestassero il fianco alle considerazioni sagraiole di un vicepresidente del Consiglio e ai conseguenti rutti dei suoi tifosi oggi avremmo potuto riflettere con serietà sulle conclusioni della Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza (Ecri) del Consiglio d’Europa. 

Leggendo nel rapporto che in Italia “ci sono numerosi resoconti di profilazione razziale da parte delle forze dell’ordine che prendono di mira in particolare i rom e le persone di origine africana (…) Si tratta di una forma di potenziale razzismo istituzionale” potremmo ricordarci del rapporto Onu di qualche giorno fa che confermava le discriminazioni nel sistema carcerario italiano, evidenziando “il persistente razzismo sistemico contro gli africani e le persone di origine africana”. “In Italia persiste in maniera significativa il razzismo sistemico contro gli africani e le persone di origine africana da parte della polizia e dei sistemi di giustizia penale”, scriveva quindici giorni fa l’Onu nella sua relazione presentata al Consiglio per i diritti umani a Ginevra. 

Qualcuno ne aveva scritto ma in quei giorni il governo non aveva l’urgenza di seppellire la figuraccia internazionale da rimpatrioti che deportano migranti avanti e indietro. Così la notizia – sostanzialmente identica a quella di ieri – era scivolata come una fastidiosa burocrazia umanitaria degli appassionati del genere. 

Viene il lecito dubbio, dunque, che la frastornante propaganda di governo abbia come inconsapevoli alleati anche i presunti giornali progressisti e il Quirinale che si fanno dettare l’agenda dagli strilli più che dai fatti. 

Buon mercoledì. 

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Europa divisa sui migranti, Ursula sotto assedio per il sostegno al modello Albania

Qualcosa si muove nel Parlamento europeo, e Ursula von der Leyen ne avverte il peso. L’avvicinamento della presidente della Commissione Europea alle politiche migratorie del governo Meloni, soprattutto al modello dell’accordo Italia-Albania, ha scatenato un’ondata di dissenso. Iratxe Garcia-Perez, presidente del gruppo Socialisti e Democratici (S&D), è stata esplicita: “No all’esternalizzazione della gestione dei flussi migratori”, una politica che il gruppo socialista considera una palese violazione del diritto internazionale. E questo non è solo un principio astratto, ma una realtà giuridica sancita dai giudici italiani, che hanno messo in discussione la legittimità dell’accordo tra Roma e Tirana.

Scontro sul modello Albania

Quello che emerge è un messaggio chiaro a von der Leyen: se continuerà a inseguire la linea dura sui migranti, potrà dire addio all’appoggio dei socialisti. Il gruppo S&D non tollererà la creazione di centri di espulsione in Paesi terzi come l’Albania, e non sosterrà l’estensione di queste politiche a livello europeo. “Siamo pronti a collaborare per l’applicazione del Patto su migrazione e asilo – ha precisato Garcia-Perez – ma deve essere globale”. E la loro opposizione potrebbe non fermarsi qui: per la prima volta, S&D ha ventilato la possibilità di ritirare il proprio sostegno alla maggioranza di von der Leyen, segnalando che il loro voto sarà legato all’esito delle audizioni parlamentari.

Non sono solo i socialisti a minacciare di rompere l’equilibrio della Commissione. I liberali di Renew Europe, con Valérie Hayer, hanno definito i centri di espulsione in Albania uno “spreco di fondi pubblici”, sottolineando l’assurdità di un costo di 65 milioni di euro per la gestione di soli 12 migranti. La denuncia è chiara: dietro la retorica di gestione responsabile dei flussi migratori si cela una politica fallimentare, un’ossessione che si nutre di demagogia. “L’Europa e i migranti meritano di meglio”, ha dichiarato Hayer, ribadendo che una gestione umana e rispettosa delle frontiere è già prevista dal Patto su asilo e migrazione, che però va implementato, non bypassato.

Anche i Verdi, con Terry Reintke, non si sono trattenuti. La loro critica punta direttamente all’Italia, che secondo loro sta “spingendo i limiti della legalità” con l’esternalizzazione delle procedure d’asilo. Una politica non solo moralmente discutibile, ma anche economicamente insostenibile, che minaccia di trascinare l’Ue in una deriva pericolosa. Reintke ha sottolineato come questo cambio di dinamica rifletta una rottura all’interno del Parlamento: il Partito Popolare Europeo (Ppe), tradizionalmente cauto nelle sue alleanze, ha scelto di schierarsi apertamente con l’estrema destra, rompendo una lunga tradizione di non collaborazione con le forze euroscettiche e anti-europee.

Manon Aubry, co-presidente del gruppo The Left, ha colto l’opportunità per tendere una mano ai socialisti e ai Verdi, proponendo un’alleanza per contrastare l’avanzata della destra estrema. “Da soli non potrete continuare a giocare con il Ppe – ha detto Aubry – perché loro hanno già scelto l’estrema destra come alleato”. Il messaggio è chiaro: o si costruisce una coalizione forte e progressista, o si lascia il campo libero a forze politiche che vogliono fare dell’espulsione e della repressione la colonna portante della gestione migratoria.

Una maggioranza in bilico

Il Parlamento europeo ha già mostrato i segni di questo cambio di equilibri. Un voto sull’ordine del giorno della sessione plenaria ha visto il Ppe allinearsi con l’estrema destra e i sovranisti per bocciare la richiesta di un dibattito sull’accordo Italia-Albania. I numeri parlano da soli: 319 voti contrari alla proposta dei Verdi, 288 contrari a quella di Renew. Il Ppe non si è fatto scrupoli a cercare nuove sponde politiche, consolidando una maggioranza che si delinea sempre più a destra.

E qui si trova il nodo per Ursula von der Leyen. La sua vicinanza alle politiche migratorie di Giorgia Meloni potrebbe costarle caro. La presidente della Commissione, che finora ha mantenuto un difficile equilibrio tra le diverse anime politiche del Parlamento, rischia ora di perdere il sostegno dei socialisti, dei liberali e dei Verdi. La sua maggioranza è in bilico, e la questione migratoria potrebbe essere il tema che farà esplodere definitivamente le tensioni. Il segnale che arriva da Strasburgo è inequivocabile: se von der Leyen insisterà sull’esternalizzazione dei flussi migratori, dovrà trovare una nuova maggioranza, e questa potrebbe essere quella di una destra estrema pronta a portare l’Europa su una strada senza ritorno.

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Soliloquio a mezzo social per spegnere due candeline

La presidente del Consiglio Giorgia Meloni – che da due anni viene chiamata “il presidente” da giornalisti ancora abbagliati dai vestiti nuovi dell’imperatore – festeggia il primo biennio del suo governo. Non c’è bisogno di riportare le iperboli del suo messaggio ufficiale. In un Paese normale la presidente del Consiglio si sarebbe presentata di fronte alla stampa, noi qui ci accontentiamo di un soliloquio sui social. Questo è uno dei risultati di governo: abolite le domande, i giornalisti si riducono a megafoni del potere e chi non ci sta rientra nella schiera dei traditori della patria. 

Nei due anni in cui l’Italia avrebbe dovuto recuperare credibilità internazionale la presidente Meloni è diventata la versione omeopatica dell’autoritarismo in salsa occidentale. Amica di Orbàn ha simulato europeismo in Europa, sovranismo in patria e ha sfoggiato atlantismo a braccetto di Salvini. Alla fine si è svelata messa all’angolo a Bruxelles. 

In due anni di governo ha scritto leggi incagliatesi nei tribunali nazionali e internazionali di ogni ordine e grado. In due anni di Pnrr ,che fatica a rispettare, ha esacerbato la povertà (lo dice l’Istat), s’è rimangiata gli obiettivi e ha un’infrastruttura nazionale che inceppa i treni e supplica Elon Musk per ottenere una connessione decente. 

Dice Meloni che il programma elettorale è stato rispettato. Non mente. La vendetta è una portata quotidiana contro i suoi storici nemici immaginari: poveri, stranieri, gay, studenti, operai, sindacati, giornalisti, donne che non figliano, artisti che non propagandano, magistrati che rispettano le leggi più dei poteri. Ma non finirà bene, no.

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Le “famiglie tradizionali” hanno fame: 1,4 milioni di bambini in povertà assoluta

Mentre il governo Meloni costruisce la sua narrazione sulla difesa della “famiglia tradizionale” e sulla necessità di stimolare la natalità e mentre la ministra della Famiglia Eugenia Roccella si occupa di gravidanza per altri c’è un aspetto che sembra sfuggire dal dibattito pubblico: i figli che ci sono già. E stanno male. L’Italia, come confermano i dati di Openpolis, vede un preoccupante aumento della povertà assoluta tra i bambini e i ragazzi delle famiglie svantaggiate. Tra il 2021 e il 2022, la percentuale di minori in povertà assoluta è passata dal 12,1% al 14,3%, un salto allarmante che significa oltre 1 milione e 400mila bambini che vivono in condizioni di estrema difficoltà.

Un esercito di bambini poveri ignorato dal governo

Mentre si discute di come incentivare nuove nascite nessuno sembra accorgersi che c’è un esercito di bambini già nati che vive in povertà. Le famiglie in condizioni di povertà assoluta sono aumentate da 1,9 milioni nel 2021 a 2 milioni nel 2022. E questi numeri, nonostante i proclami governativi, non fanno che crescere. Nel Mezzogiorno, la situazione è ancora più drammatica: la povertà minorile tocca il 16,1%, più del doppio rispetto al Nord, dove si ferma al 7,2%. Sono cifre che raccontano di un’Italia divisa, non solo tra ricchi e poveri, ma anche tra Nord e Sud, tra chi può dare un futuro ai propri figli e chi lotta per sopravvivere.

Gli effetti della povertà assoluta sui bambini sono devastanti. Non si tratta solo di difficoltà economiche, ma di una condizione che condanna i minori a un futuro di esclusione sociale e di marginalizzazione. La povertà ha conseguenze a lungo termine che si ripercuotono sull’intero ciclo di vita: basti pensare all’alto tasso di abbandono scolastico, che nel 2022 si attestava al 12,7%, con picchi preoccupanti proprio nelle regioni del Sud. Un dato che non lascia spazio a interpretazioni benevole: più povertà significa meno istruzione, e meno istruzione significa un futuro segnato dall’impossibilità di riscatto.

Interventi insufficienti: l’Assegno Unico e la precarietà dei lavoratori

Il problema non si risolve con interventi superficiali né con i proclami. L’Assegno Unico Universale, introdotto nel 2022, non ha avuto l’impatto sperato. Nonostante l’assegno abbia raggiunto molte famiglie la povertà assoluta continua a crescere. Questo suggerisce che i problemi sono più complessi di quanto il governo voglia ammettere, e che non possono essere affrontati solo con trasferimenti monetari. I costi della vita in aumento, la disoccupazione e la carenza di servizi di base nelle aree più svantaggiate del Paese richiedono politiche strutturali.

Anche la condizione professionale dei genitori incide enormemente sulla povertà minorile. Se la persona di riferimento svolge un lavoro da dirigente, quadro o impiegato, la povertà familiare dei nuclei con bambini e ragazzi è del 3,7%. Sale al 19,4% se è operaio e al 23,9% quando è in cerca di occupazione.

Tra il 2022 e il 2023 va sottolineato il peggioramento nella condizione delle famiglie con figli la cui persona di riferimento fa l’operaio. In questi casi l’incidenza passa dal 15,6% al 19,4%. Un peggioramento che testimonia una condizione di vulnerabilità per i nuclei di lavoratori dipendenti in mansioni esecutive; specialmente quando possono contare su un solo reddito e quindi a maggior rischio di finire nell’esclusione sociale in caso di perdita del lavoro.

Mentre il governo si preoccupa di definire chi può essere considerato “famiglia sta perdendo di vista il punto centrale: le famiglie reali, quelle che faticano ogni giorno, non hanno bisogno di nuove definizioni. Hanno bisogno di sostegno concreto, di politiche che le aiutino a uscire dalla povertà, a garantire ai propri figli un futuro. Ma finché la priorità resterà la retorica ideologica, la povertà dei bambini italiani continuerà ad aumentare, silenziosa e inesorabile.

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Delazione di Stato

Delazione di Stato. Oltre al cumulo di violenta disumanità e cultura dello scontro che il governo Meloni sta offrendo in questi ultimi giorni c’è anche la ministra alla Famiglia Eugenia Roccella che delira su medici che dovrebbero denunciare i pazienti. 

«Un pubblico ufficiale, e anche il medico, è tenuto a segnalare i casi di sospetta violazione della legge sulla maternità surrogata alla Procura. E poi si vedrà», ha detto la ministra ospite di una trasmissione televisiva. «Spero che l’applicazione della legge abbia un effetto fortemente dissuasivo», ha aggiunto Roccella, ricordando che «in Italia c’è una procedura che protegge i minori e assicura la possibilità al compagno del genitore biologico di essere riconosciuto come genitore».

A correggerla è stato il presidente della Federazione nazionale degli Ordini dei Medici (Fnomceo) Filippo Anelli: «Il medico ha il dovere di curare. Che il medico sia esonerato dall’obbligo di denuncia nei confronti del proprio paziente lo si desume anche dal capoverso dell’articolo 365 del Codice penale che esime il medico da tale obbligo quando il referto esporrebbe la persona assistita a procedimento penale. Quindi il medico non deve, è vero, ostacolare la giustizia ma non deve, soprattutto, porre in essere atti che mettano a rischio la relazione di cura, limitando la tutela della salute dei cittadini».

La ministra controbatte, insiste. Non capisce che al di là del piano legale la sua richiesta è mostruosa sul piano sociale, dove questi sanno solo coltivare conflitti per provare a rimanere in piedi. In Italia, durante il Fascismo, tra la fine degli anni Venti e l’inizio degli anni Trenta, la pratica della delazione piantò le sue radici nella società, penetrando nell’area del dissenso clandestino, degli ambiti apolitici e finanche dei settori schiettamente fascisti. Eccoci qui. 

Buon martedì.  

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