Dopo il modello di teatro civile “alla Paolini”, oggi il concetto comprende esperienze e modalità espressive diverse. Roberto Saviano, Giulio Cavalli, Belarus Free Theatre, tre esperienze accomunate dal fatto di rinunciare in vario modo alla raffinatezza dello stile per puntare all’evidenza dei contenuti
Della definizione di “teatro civile” si è a tal punto abusato da farla diventare vagamente stucchevole: ed è un vero peccato, perché questa categoria espressiva, che ha di per sé delle risonanze intellettualmente nobili – un’idea antica di polis, di collettività che si raccoglie attorno ai propri riti comunicativi – contiene al suo interno una varietà di forme e di stili diversi, una vasta gamma di possibili e spesso affascinanti declinazioni. C’è un teatro civile praticato da un solo attore monologante e c’è un teatro civile proposto da interi gruppi, c’è un teatro civile incentrato sul puro racconto e c’è un teatro civile che rappresenta delle vicende di senso compiuto costruite su dialoghi, azioni, personaggi.
Anni fa, dopo il successo del Vajont, si era imposta diffusamente – grazie anche alla bravura e al carisma del suo principale interprete – la tipologia preponderante della narrazione “alla Paolini”, che in qualche modo aveva finito per imporre uno schema, un modello costante che aveva dei ritmi, delle intonazioni, degli argomenti quasi fissi a cui ispirarsi: ed è stato quel modello che a un certo punto, applicato da troppi volonterosi epigoni, ha finito col diventare fatalmente ripetitivo, saturando il mercato. Oggi il concetto, per fortuna, si è esteso, comprende esperienze e modalità espressive diverse, unicamente accomunate dal fatto di rinunciare in vario modo alla raffinatezza dello stile per puntare soprattutto all’immediatezza, all’evidenza dei contenuti.
Così, in virtù di questa ritrovata energia creativa, il cosiddetto teatro civile – nelle sue molteplici articolazioni – sta vivendo un momento di grande vitalità, con un gran numero di proposte che lasciano il segno. Ed è un bene che sia così: non perché l’altro teatro, quello dotato di una più ambiziosa costruzione registica e drammaturgica, abbia in sé qualcosa di sbagliato, anzi anch’esso sta sempre più eliminando gli orpelli, riducendosi all’essenziale, ma perché il confronto, la dialettica tra questi due poli opposti del linguaggio scenico li stimola e li arricchisce entrambi. E il pubblico, in questo momento, ha bisogno tanto di suggestioni artistiche quanto di momenti di più ampia riflessione.
Lo si è colto, ad esempio, dalla prolungata standing ovation che ha accolto, al Teatro Studio di Milano, La bellezza e l’inferno, lo spettacolo scritto e interpretato da Roberto Saviano, e prodotto dal Piccolo Teatro. In senso stretto, si tratta di un teatro civile sui generis, perché l’autore di Gomorra, con una scelta che fa altamente onore al suo bisogno di non irrigidirsi in un cliché ormai scontato – di camorra e malavita organizzata parla di fatto pochissimo, e preferisce illustrare il destino di una serie di personaggi che hanno superato e vinto l’inferno di estreme difficoltà fisiche, psicologiche o ambientali in virtù della loro fede nella bellezza della vita, nella pienezza della creazione artistica, nella necessità di testimoniare una condizione di sofferenza e di disagio dei propri simili o del proprio popolo.
Sfiorando il tema delle cosche soltanto a proposito della comunità nigeriana di Castelvolturno, che ha osato sfidare la violenza dei boss con molta più determinazione di quanto non abbia fatto la cittadinanza locale, lo spettacolo – costruito su articoli e interventi vari dello stesso Saviano – si sofferma dunque soprattutto sui casi esemplari di due ragazze iraniane – Neda Soltani e Tarameh Moussavi – che hanno subito una fine atroce in nome della possibilità di esprimere le proprie idee, dello scrittore nigeriano Ken Saro-Wiwa, ucciso in quanto oppositore del governo e delle multinazionali del petrolio, di un altro scrittore, l’amatissimo Varlam Salamov, sopravvissuto ai gulag staliniani, del calciatore Leo Messi, divenuto un campione a dispetto di una grave forma di nanismo, del pianista jazz Michel Petrucciani, che non ha lesinato il proprio talento malgrado una malformazione che rendeva le sue ossa fragili come vetro.
Saviano, diretto con mano leggera da Serena Sinigaglia, dimostra davvero un’insolita misura: non fa il divo, non si atteggia a tribuno, non cerca a tutti i costi di commuovere, di indignare, di suscitare la reazione più viscerale dello spettatore. Si limita a raccontare delle toccanti storie umane, ragionando su di esse pacatamente, lucidamente, sentitamente, senza inseguire l’attualità più sfacciata, senza sfoggiare proteste o recriminazioni. Persino quando, a titolo dimostrativo, fa girare in platea un autentico Kalashnikov, l’arma preferita da killer e terroristi, invitando gli astanti a passarselo di mano in mano, non compie un gesto retorico, non sembra cercare il facile effetto emotivo, come altri farebbero, ma punta semplicemente sulla scarna, oggettiva eloquenza di quella spietata macchina di morte.
Il suo modo di porsi, ovviamente, non è quello di un attore professionista, e si vede da certe piccole incertezze, da certi impercettibili espedienti per riprendere fiato e ritrovare di volta in volta il filo del discorso. Ma l’intensità dello sguardo che egli posa sulle persone e sulle cose non richiede una tecnica particolare: anzi, la naturalezza, l’assoluta assenza di artificio recitativo conferiscono alle sue parole un’ulteriore carica di autenticità, uno spessore di verità che diventa a tratti abbacinante. A garantire la profondità di questa esigenza di interloquire, ove mai ce ne fosse bisogno, c’è la presenza della scorta che deve accompagnarlo fino in palcoscenico. Si torna a casa, dopo averlo visto, con un inusitato senso di commozione e arricchimento (al Teatro Grassi di Milano dal 16 al 20 febbraio).
Un altro attore costretto a esibirsi sotto scorta è Giulio Cavalli, che però ha uno stile e delle finalità completamente diversi. Poco più che trentenne, dotato di una formazione tradizionale e di un’iniziale inclinazione “giullaresca”, forse mediata dal modello di Dario Fo, da un paio d’anni Cavalli persegue un teatro di informazione e di denuncia, che è passato attraverso lo svelamento dei retroscena del disastro di Linate del 2001 e il tema spinoso della pedofilia e del turismo sessuale per approdare, da qualche tempo a questa parte, a un impegno costante ed esclusivo nell’analisi del fenomeno mafioso e della sua penetrazione nel tessuto economico nazionale.
In un certo senso Cavalli, che dirige il Teatro Nebiolo di Tavazzano – una sala del territorio lodigiano trasformata in un centro dello spettacolo di narrazione e documentazione, dove sta anche nascendo un archivio di testi e di copioni – incarna l’evoluzione più recente e più radicale di questo genere di esperienze: il suo lavoro, più vicino alle inchieste della stampa che agli slanci dell’invenzione artistica, avviene a stretto contatto con giornalisti e magistrati, del cui operato è in qualche modo un sostegno e una prosecuzione. Non a caso il suo ultimo spettacolo, A cento passi dal Duomo, ricavato da un saggio di Gianni Barbacetto e presentato poche settimane fa al Teatro della Cooperativa di Milano, è interamente dedicato alle infiltrazioni dei padrini nei progetti per l’Expo del 2015, e in altre mille attività del capoluogo lombardo e dintorni.
Quello di Giulio Cavalli è un teatro dal severo taglio militante, senza mediazioni o concessioni all’intrattenimento. Esso si basa unicamente sulla nuda cronaca, su un’incalzante concatenazione di avvenimenti loschi e sanguinosi che attraversano la nostra storia da una trentina d’anni a questa parte, dall’assassinio di Giorgio Ambrosoli in poi, e non lascia certo spazio a quel tanto di sentimenti personali – come il tifo adolescenziale per le prodezze di Maradona – che comunque Saviano porta in luce. Il suo scopo non è di suscitare un atteggiamento dialettico, ma di togliere il fiato all’ascoltatore. Se ne esce sgomenti, profondamente impressionati. L’attore manipola con sapienza la sua materia, fa collegamenti, trae conclusioni, lascia in sospeso qualche ipotesi più o meno arbitraria: ma poco importa, fosse vera anche solo la metà di ciò che dice, ci sarebbe veramente da aver paura (il 7 novembre a Bolzano, il 12 novembre a Como, il 19 novembre a Varese).
Ancora diversa è l’idea di teatro civile messa in mostra dal Belarus Free Theatre, un gruppo di attivisti bielorussi che vanno in scena unicamente per far conoscere la drammatica mancanza di libertà e democrazia che affligge il loro Paese: in Discover love, lo spettacolo che ho visto al festival “Vie” di Modena, ad esempio, si occupa della piaga degli omicidi politici e dei sequestri di persona misteriosamente orchestrati dal regime. Non c’è traccia di finezze o abbellimenti in questo impianto narrativo che va dritto al cuore del problema: la vicenda, ispirata a un episodio realmente accaduto, procede lungo il filo del racconto con cui la moglie di una vittima eccellente, l’ex capo del comitato elettorale, Anatoly Krasovski, sequestrato e barbaramente ucciso nel 2000, ricostruisce la sorte del marito.
Lo spettacolo, realizzato con mezzi davvero poveri, ha l’andamento di una romantica storia d’amore: si parte dall’infanzia della donna, un’infanzia simile a tante altre, sul cui sfondo si avvertono però, come attutiti, i segni di un potere cupo, autoritario, si prosegue con l’incontro che segna la sua esistenza, preludio a un matrimonio felice e appassionato. Poi, all’improvviso, il brutale epilogo: una notte l’uomo – insieme con l’amico che lo stava accompagnando – viene inghiottito dal nulla, e su di loro calerà un’invalicabile cortina di silenzio. Diventeranno due nomi in più da aggiungere a una lunga lista di cittadini rapiti e scomparsi, per i quali è in corso una campagna dell’Unione Europea, cui il Belarus contribuisce con le proprie rappresentazioni.
Raramente, credo, mi era capitato di vedere un apparato teatrale così ingenuo e dimesso, così assolutamente ridotto ai minimi termini: la scenografia è di una semplicità disarmante, la recitazione un po’ sommaria, e non c’è margine per una qualsiasi sottigliezza d’invenzione: tutto è spoglio, tutto è focalizzato esclusivamente sull’urgenza di comunicare. Ma è chiaro dall’inizio che questo prevalere del contenuto sulla forma non toglie niente all’efficacia del messaggio, anzi lo rende ancora più vibrante.
La rinuncia alla pura dimensione estetica è compensata dallo struggente bisogno di far sentire la propria voce, l’elementarità dello stile si traduce in un’emozionante continuità fra il teatro e la vita: il vero nucleo dello spettacolo non è l’azione in sé, sono le immagini video delle proteste in una qualche città bielorussa, sono i ceri accesi che accompagnano gli spettatori all’uscita, come in un mesto cerimoniale funebre.
Renato Palazzi
DA LINUS L’ARTICOLO QUI