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La sbandierata transizione energetica delle compagnie petrolifere è una farsa – Lettera43

BP ha tagliato di un bel 15 per cento il suo obiettivo di riduzione della produzione di petrolio e gas. Adnoc, il colosso degli Emirati, prevede di aumentare la sua capacità produttiva del 25 per cento entro il 2027. Alla faccia degli impegni contro il cambiamento climatico. Del resto è difficile che il lupo diventi vegetariano.

La sbandierata transizione energetica delle compagnie petrolifere è una farsa

Le compagnie petrolifere non smettono di sorprenderci, ma forse la parola giusta è “deluderci”. L’ultima mossa di BP, che ha tagliato di un bel 15 per cento il suo obiettivo di riduzione della produzione di petrolio e gas, non è certo una sorpresa per chi ha seguito le precedenti promesse con un briciolo di scetticismo. Era il 2020 quando BP, in piena crisi d’immagine dopo il disastro del Golfo del Messico, si era impegnata a ridurre la produzione del 40 per cento entro il 2030. Oggi quella cifra è magicamente scesa al 25 per cento.

Perché ascoltare l’Aie quando si possono trivellare altri miliardi?

Siamo abituati ai ripensamenti delle grandi aziende del settore. Shell, ExxonMobil, BP: nomi diversi ma con lo stesso copione. L’aumento della domanda di energia dopo la crisi ucraina ha fornito una comoda giustificazione per abbandonare gli impegni presi, a favore di un più rassicurante ritorno al fossile. Eppure se leggiamo attentamente i rapporti scientifici e le raccomandazioni dell’Agenzia internazionale dell’energia (Aie), ci viene detto chiaramente che non c’è più spazio per nuovi giacimenti di petrolio e gas se vogliamo davvero rispettare l’obiettivo di mantenere l’aumento della temperatura globale sotto gli 1,5 gradi. Ma perché ascoltare l’Aie quando si possono trivellare altri miliardi?

La sbandierata transizione energetica delle compagnie petrolifere è una farsa
Camion che trasportano stock di petrolio (Getty).

Il metano che si disperde è un potente gas serra

L’analisi del report di Reclaim Finance è illuminante: Adnoc, la compagnia nazionale degli Emirati Arabi Uniti, prevede di aumentare la sua capacità produttiva del 25 per cento entro il 2027. Non solo. La stessa Adnoc ha piani ambiziosi per espandere il suo mercato del gas naturale liquefatto (Lng), con la costruzione di nuovi impianti di esportazione e rigassificazione. A quanto pare, mentre noi discutiamo del cambiamento climatico, qualcuno si prepara a far scorta per i decenni a venire. Il gas naturale, ci raccontano, è il “ponte” verso un futuro pulito. Peccato che anche questo “ponte” sia fatto di fossili. Il metano che si disperde nell’atmosfera durante l’estrazione e il trasporto di gas è un potente gas serra e la sua espansione minaccia di farci restare bloccati in un modello energetico che avremmo già dovuto abbandonare. Ma c’è sempre un modo per renderlo appetibile: basta chiamarlo transizione e il gioco è fatto.

Si rinuncia a un po’ di coscienza, che tanto è un lusso per pochi

Se andiamo a scavare un po’ più a fondo scopriamo che la tanto sbandierata “transizione energetica” delle compagnie petrolifere è, in realtà, una farsa. Prendiamo BP, per esempio. Dei 150 miliardi di dollari previsti per gli investimenti nel periodo 2023-2027, meno del 10 per cento è destinato alle tecnologie a basse emissioni di carbonio. La gran parte del budget va a progetti di espansione per il petrolio e il gas, con una particolare attenzione proprio al gas naturale liquefatto. Sembra quasi che la transizione energetica si faccia ma senza rinunciare a nulla. O meglio, rinunciando solo a un po’ di coscienza, che tanto è un lusso che pochi possono permettersi.

La sbandierata transizione energetica delle compagnie petrolifere è una farsa
Attivisti per il clima protestano contro le compagnie petrolifere (Getty).

La cattura e lo stoccaggio del carbonio? Poco affidabile

E se guardiamo Adnoc, le prospettive sono altrettanto inquietanti. Nonostante il continuo parlare di decarbonizzazione e sostenibilità, il colosso emiratino ha destinato il grosso delle sue risorse all’espansione della produzione di combustibili fossili. Le sue “soluzioni a basse emissioni” rappresentano meno del 10 per cento del budget. Il restante 90 va al petrolio e al gas. Ma con una buona grafica e qualche slogan accattivante, la percezione pubblica si manipola facilmente. Dopotutto, si sa: l’importante è sembrare green, non esserlo. E qui arriva il colpo di scena, ma non quello che ci aspettavamo. Le stesse compagnie che gridano al cambiamento e all’innovazione climatica, puntano ora su una nuova soluzione miracolosa: la cattura e lo stoccaggio del carbonio (Ccs). Sembra quasi che abbiano trovato la scusa perfetta per continuare a trivellare: «Tranquilli, cattureremo tutto il CO₂ che produciamo!». Il problema è che il Ccs, al momento, è una tecnologia non solo costosa, ma anche inaffidabile su larga scala. Basare il futuro del Pianeta su una scommessa tecnologica non sembra esattamente la strategia più prudente.

Le rinnovabili sono un bel tema solo per i convegni

A quanto pare, però, prudenza e responsabilità non sono le parole d’ordine del settore. Adnoc prevede che la sua produzione di petrolio e gas nel 2030 sarà superiore del 20 per cento rispetto ai livelli necessari per allinearsi agli scenari di decarbonizzazione dell’Aie. Il messaggio è chiaro: mentre i governi e le istituzioni internazionali continuano a parlare di transizione, le grandi compagnie energetiche marciano nella direzione opposta. Certo, le rinnovabili sono un bel tema da affrontare nei convegni, ma quando si tratta di investire davvero è meglio non esagerare. Una manciata di parchi solari qua e là può servire a distrarre l’opinione pubblica mentre i bilanci continuano a essere trainati da petrolio e gas.

La sbandierata transizione energetica delle compagnie petrolifere è una farsa
Estrazione del petrolio (Getty).

Queste aziende esistono per massimizzare i profitti

Se c’è una lezione da trarre da tutto questo è che aspettarsi un cambiamento volontario da parte delle compagnie petrolifere è come aspettare che il lupo diventi vegetariano. Queste aziende esistono per massimizzare i profitti, e finché ci sarà domanda di energia fossile loro continueranno a soddisfarla. La vera domanda è: chi ha creduto che sarebbe stato diverso? E soprattutto, per quanto ancora continueremo a credere che possano essere proprio loro a guidare la transizione energetica? Le compagnie petrolifere sono maestre nel confezionare promesse accattivanti, ma i fatti raccontano un’altra storia. Le emissioni continuano a crescere, i loro piani di espansione non accennano a rallentare, e le rinnovabili, al di là degli slogan, restano una parentesi insignificante nei loro bilanci. Il mondo, nel frattempo, continua a bruciare, letteralmente e metaforicamente.

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Commissione Antimafia, tra scontri interni e piste scomode

C’era un tempo in questo Paese in cui l’antimafia era una cosa seria, serissima, che infiammava le discussioni e gli editoriali. Poi è arrivata la normalizzazione della mafia e, di conseguenza, dell’antimafia. Così “fare antimafia” è diventato qualcosa di diverso dal lottare contro la criminalità organizzata, riducendosi a una liturgia di commemorazioni.

La normalizzazione dell’antimafia: tra commemorazioni e silenzi

Il 23 maggio si ricorda Giovanni Falcone, il 19 luglio Paolo Borsellino, e così via, in una stanca sequela di anniversari sempre uguali, accompagnati da dichiarazioni fotocopia dell’anno precedente. La mafia diventa così un “fatto storico”, qualcosa da studiare – o peggio, da evocare vagamente – senza alcun legame con il presente.

Il risultato è che in questa legislatura la Commissione parlamentare Antimafia sembra concentrare tutte le sue energie in uno scontro interno contro l’ex magistrato e senatore del Movimento 5 Stelle, Roberto Scarpinato, sotto attacco da parte dei suoi colleghi della maggioranza, che ne chiedono la rimozione. Stupefacente è il disinteresse funzionale verso la vicenda.

La Commissione: lotte interne e attacchi mirati

Partiamo dall’inizio. La Commissione (guidata dalla meloniana Chiara Colosimo) a maggioranza di centrodestra sta dedicando particolare attenzione a una determinata pista processuale sulla strage di via d’Amelio, in cui perse la vita il giudice Borsellino: la cosiddetta indagine “mafia-appalti”. Da anni, la destra cerca di dimostrare che Borsellino sarebbe stato ucciso per una vecchia inchiesta su Nino Buscemi e Franco Bonura, mafiosi del settore edilizio vicini a Totò Riina e soci della Ferruzzi di Raul Gardini.

L’indagine, archiviata nel giugno 1992, era partita dalla Procura di Massa Carrara, che aveva messo in luce le infiltrazioni mafiose nelle cave di marmo in Toscana. Il ragionamento politico è semplice: se Borsellino fosse stato ucciso per questioni legate agli appalti, decadrebbero improvvisamente tutti gli interessi sui rapporti – comprovati – tra Cosa Nostra e lo Stato. Così svanirebbero anche le responsabilità politiche e il collegamento con la fondazione di Forza Italia di Silvio Berlusconi, riducendo la morte di Borsellino a una questione di “mafia minore”. Ciò ridimensionerebbe le piste battute da altri magistrati come Nino Di Matteo e Luca Tescaroli, che da anni denunciano una pericolosa trattativa tra i vertici dello Stato.

Per questo la Commissione antimafia ha puntato il dito contro Gioacchino Natoli, già Presidente della Corte d’Appello di Palermo ed ex membro del pool antimafia a fianco di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Natoli è indagato dalla Procura di Caltanissetta per favoreggiamento alla mafia e calunnia. La prova principale sarebbe un provvedimento del giugno 1992, quando Natoli, allora sostituto procuratore di Palermo, ordinò la “smagnetizzazione” dei nastri con le registrazioni telefoniche dell’inchiesta e aggiunse a penna l’ordine di “distruggere i brogliacci”.

C’è un piccolo particolare: si è scoperto che in quel periodo in Procura a Palermo quella prassi – anche con aggiunte a penna – era consuetudine. Non solo: fu proprio Natoli a denunciare che le bobine con le intercettazioni dei Buscemi non erano mai state cancellate e si trovano ancora negli archivi del Palazzo di Giustizia di Palermo.

Nei giorni scorsi, il quotidiano La Verità ha accusato il senatore del M5S Scarpinato di essersi accordato con Natoli prima della sua audizione in Commissione antimafia su alcune domande relative a quell’indagine. Peccato che non ci sia stato alcun riscontro.

In compenso, la presidente della Commissione, Colosimo, ha promesso una modifica alla legge che regola l’istituzione della Commissione antimafia, prevedendo una disciplina specifica per i casi di incompatibilità dei singoli commissari rispetto a indagini particolari dell’organo parlamentare. Ma l’antimafia sembra interessare a pochi, quasi a nessuno.

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Processo Open Arms: a Palermo la Lega c’è, ma la piazza resta deserta

A Palermo la difesa di Matteo Salvini ha assunto i contorni di una messinscena senza spettatori. Piazza Politeama, che avrebbe dovuto accogliere una folla di sostenitori, si è presentata desolata: 200 persone a malapena, per lo più parlamentari e ministri della Lega, riuniti per difendere il loro leader dalle accuse di sequestro di persona nel processo Open Arms. Pochi volti noti, bandiere timide, e slogan che, più che infiammare gli animi, sembravano eco di un’epoca in cui il consenso di Salvini riempiva le piazze davvero.

Open Arms, la difesa in aula e l’arringa di Bongiorno

Nell’aula bunker del carcere Pagliarelli, a pochi chilometri, si giocava una partita diversa. Giulia Bongiorno, legale di Salvini, si è prodigata in un’arringa che ha cercato di spostare l’attenzione dal suo assistito alla condotta della nave spagnola Open Arms. Secondo la difesa la Ong avrebbe avuto “innumerevoli, innumerevoli” opportunità per far sbarcare i migranti soccorsi ma avrebbe preferito restare al largo delle coste italiane, rifiutando porti alternativi come quelli spagnoli. Bongiorno ha parlato di un soccorso che non sarebbe stato casuale, suggerendo che Open Arms avesse ricevuto indicazioni precise per “pendolare” vicino a Lampedusa, in attesa di un “appuntamento” con il barcone di migranti.

Mentre l’arringa della difesa veniva trasmessa in diretta dagli altoparlanti piazzati in una piazza più spoglia che mai i ministri presenti tentavano di colmare il vuoto con dichiarazioni di circostanza. Roberto Calderoli ha ribadito che la difesa dei confini italiani è un “dovere sacro”, e che Salvini avrebbe dovuto essere premiato, non processato. Giuseppe Valditara, ministro dell’Istruzione, ha giustificato la sua presenza affermando che, in quanto “cittadino libero”, ritiene giusto manifestare la sua solidarietà a Salvini. Il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, è stato meno loquace: arrivato con i parlamentari leghisti, si è subito defilato in un bar, parlando al telefono lontano dagli sguardi dei cronisti e del pubblico.

Il processo Open Arms, uno dei capitoli più controversi della politica migratoria italiana, ha visto la Procura di Palermo chiedere sei anni di carcere per l’ex ministro dell’Interno, accusato di aver trattenuto illegalmente 147 migranti a bordo della nave spagnola per giorni, negando l’autorizzazione allo sbarco. La vicenda risale all’agosto 2019, quando Salvini, allora al governo, bloccò l’accesso ai porti italiani, lasciando i migranti in condizioni sempre più critiche. Alla fine fu la procura di Agrigento, attraverso un’ispezione a bordo, a rilevare l’urgenza sanitaria e a ordinare lo sbarco immediato. Salvini, tuttavia, ha sempre rivendicato la sua decisione come necessaria per la difesa dei confini italiani, trasformando la questione in una battaglia politica.

Una piazza spoglia e assenze rumorose

Oggi, quel fronte si è ridotto a una piazza semivuota. I parlamentari della Lega, riuniti in piccoli capannelli, indossavano magliette con la scritta “Colpevole” per ironizzare sulle accuse mosse al loro leader. Ma l’ironia non sembra aver risuonato come avrebbero sperato. Le immagini della piazza, quasi spoglia hanno fatto da contrappunto alle parole altisonanti che rimbalzavano dagli altoparlanti. “Matteo-Matteo”, intonano i presenti, ma il coro sembra spento, quasi soffocato dall’assenza di quella massa di sostenitori che, in altri tempi, avrebbe gremito le strade.

Intanto, fuori dai confini italiani, il premier ungherese Viktor Orbán ha inviato un messaggio di sostegno a Salvini, definendolo un “eroe” per aver difeso l’Europa dall’immigrazione incontrollata. Parole che fanno eco a un altro clima politico, quello dei sovranisti europei che vedono nella gestione dei migranti un campo di battaglia cruciale. Ma se l’eco di Orbán arriva fino a Palermo lo stesso non si può dire della piazza, dove le bandiere sono poche e gli slogan suonano stanchi.

Le tensioni non sono mancate: un alterco tra un cittadino e un militante leghista ha animato per un momento la scena. “Volete buttare a mare i disperati”, ha urlato il passante, mentre il militante ha replicato accusando l’opposizione di “sfruttare i migranti per lucrare voti”. Lo scontro si è presto placato, lasciando spazio a un presidio che ha faticato a riempire i vuoti.

La giornata si è conclusa con i ministri e parlamentari leghisti che, dopo le consuete dichiarazioni di rito, hanno abbandonato la piazza. Salvini, dal canto suo, ha affidato ai social il suo commento: “Qui, a testa alta, senza paura, per l’Italia e gli italiani”. Ma le immagini di Palermo raccontano un’altra storia. La difesa di Salvini si è trasformata in una prova di fedeltà per pochi, mentre il processo continua portando con sé le ombre di una stagione politica che sembra ormai lontana.

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Come volevasi dimostrare

Che i Centri rimpatrio in Albania fossero illegali lo sapevano tutti. Lo sapevano i lettori di questo giornale, dove da settimane scriviamo che la sentenza della Corte di giustizia europea sarebbe stata vincolante per i giudici di Roma. Che infatti ieri la hanno applicata. Lo sa chiunque mastichi un minimo di diritto e delle sue gerarchie.

Non potevano non saperlo Giorgia Meloni, Antonio Tajani e il ministro Piantedosi, che negli ultimi giorni hanno insistito nel recitare una farsa utile solo al sensazionalismo, indicando in quei sedici sventurati, quattro dei quali (due presunti minori e due malati)rispediti peraltro subito in Italia, portati avanti e indietro dall’Albania la soluzione finale per gestire l’immigrazione.

La soluzione albanese è illegale, antieconomica e disumana. È illegale perché il diritto europeo è stato scritto basandosi sui principi per cui l’Europa è nata quando aspirava a essere la culla del diritto e dei diritti. Il rispetto della sentenza della Corte Ue, imposto dalla Costituzione italiana, avrebbe dunque dovuto fermare tutto fin dall’inizio, evitando la sceneggiata. È antieconomica perché da giorni discutiamo di sedici persone sottoposte a giudizi risultati fallaci, trasportate da una nave militare che ha raggiunto l’Albania per le foto di rito.

Militari, giudici, prefetti, medici, forze dell’ordine hanno dovuto occupare il loro tempo (e i nostri soldi) per fallire. Senza parlare del conto dei Centri in Albania e dei mostruosi costi di gestione. Roba da Corte dei conti, oltre che da vergogna politica. È disumana perché parte dal presupposto che la strategia della desistenza sia un metodo morale per bloccare le migrazioni. Sventolare la ferocia della Guardia costiera libica, il pugno duro di Frontex, le violenze tunisine o i lager libici per frenare la disperazione di chi parte è un metodo vigliacco e privo di etica. Le proteste e il complottismo del governo sono gli starnazzi di chi sapeva dall’inizio che sarebbe finita così, ma confida nella paziente ingenuità dei suoi elettori. Ora resta da vedere se anche la Commissione von der Leyen vorrà ridicolizzarsi.

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In piazza contro le toghe come ai tempi di Berlusconi

Un partito che assedia un tribunale mentre all’interno si processa il suo leader si era visto l’ultima volta con Silvio Berlusconi. Era il processo Ruby e il codazzo di parlamentari in protesta davanti al Palazzo di Giustizia era capeggiato da Angelino Alfano con i big azzurri al seguito. Undici anni dopo ci hanno pensato i leghisti a riunire deputati e senatori in piazza mentre nel Tribunale di Palermo si svolgeva l’udienza del processo che vede imputato il leader Matteo Salvini per sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio.

Undici anni dopo la scena è – se possibile – ancora peggiore. Intorno al nugolo di parlamentari che recitano le parti imparate a memoria c’è poca gente. La vittimizzazione di Salvini è uno show a cui deputati e senatori, come ragazzetti in gita, partecipano indossando magliette stampate per l’occasione, come quelle giovanili trasferte all’estero per festeggiare un addio al celibato. Il copione è sempre lo stesso.

Un partito – di governo – vorrebbe trasformare un processo penale in una persecuzione politica. Così si assiste all’ecolalia della magistratura brutta e cattiva al servizio dei poteri forti e gli stessi frignii di stampo berlusconiano. “Non è un attacco alla magistratura”, ripetono i leghisti. Sarà per questo che la magistrata Giorgia Righi, una dei pubblici ministeri, è finita ieri sotto scorta per le minacce ricevute sui social. I leghisti rivendicano il diritto di manifestare in piazza. Occhio che non arrivi il manganello del Decreto sicurezza.

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Deportare è la nuova accoglienza: l’Ue verso la svolta a destra sotto la guida di von der Leyen

Il Consiglio europeo ha segnato uno dei momenti più critici per l’Ue in tema di migrazioni. Il pendolo, ormai, si è spostato decisamente a destra, e non è stato per caso. Alla guida di questo cambio di rotta c’è la Commissione von der Leyen, che con la sua presenza e il suo sostegno alle “soluzioni innovative” ha di fatto legittimato politiche di respingimento che in passato erano considerate inaccettabili. Ursula von der Leyen, da presidente della Commissione, non solo ha partecipato attivamente agli incontri con i leader di Paesi come Olanda, Danimarca e Italia, ma ha anche appoggiato apertamente l’idea di esternalizzare il problema migratorio, spostandolo lontano dagli occhi dell’Europa.

L’Olanda e l’idea di deportare in Uganda: quando l’Ue esternalizza i migranti

Tra le proposte che emergono, quella dell’Olanda è la più esplicita. Deportare i migranti respinti in Uganda, in attesa di rimpatrio, è diventata una strategia “seria” e concreta, come ha affermato il primo ministro olandese Dick Schoof. Non è solo una trovata elettorale: il governo olandese sta effettivamente negoziando con Kampala per trasformare l’Uganda in un campo di raccolta dell’Europa. La presidente von der Leyen non ha fatto altro che sostenere questi negoziati, aprendo la strada a un modello che rischia di diventare sistematico.

L’Olanda non è sola. Anche la Danimarca, sotto la guida della socialdemocratica Mette Frederiksen, ha contribuito a rafforzare questa tendenza, dimostrando che lo slittamento a destra è trasversale. La Danimarca sta già lavorando per inviare i detenuti stranieri in Kosovo e ora guarda con favore alla creazione di “hub” in Africa per i migranti respinti. Il sostegno politico è forte, con il Partito Popolare Europeo che vede in queste politiche una risposta all’avanzata delle destre nazionaliste. Antonio Tajani, ministro degli Esteri italiano, ha promosso l’accordo con l’Albania (“Una scelta apprezzata da tutti”), un altro esempio di esternalizzazione del problema, come un modello da seguire.

Difesa dei confini: cosa c’è dietro il cambio di strategia

Ma non si tratta solo di chiudere i confini: si tratta di spostare la responsabilità fuori dall’Europa, in Paesi che non hanno né le risorse né la capacità di gestire questi flussi. Questa non è una strategia nuova, ma sotto la presidenza von der Leyen, ha assunto una dimensione istituzionalizzata. Ciò che era una misura eccezionale è diventato la norma. Le critiche di Paesi come la Germania, dove Olaf Scholz ha dichiarato che gli hub esterni non sono una soluzione praticabile, e del Belgio, con Alexander De Croo che ha definito queste politiche “costose e inefficaci”, vengono messe in secondo piano. La Commissione, ormai, si è allineata alla logica della sicurezza a tutti i costi, ignorando le voci contrarie e i dubbi sulla fattibilità di queste misure.

Le conclusioni del Consiglio europeo parlano chiaro: si deve agire “in modo determinato” per aumentare i rimpatri e controllare i confini esterni, anche attraverso accordi con Paesi terzi. Ma questa determinazione, che von der Leyen ha sposato in pieno, non risolve i problemi strutturali delle migrazioni. Spostare i migranti in Uganda o in Albania non ridurrà la pressione sui confini europei, non risolverà le cause alla radice della migrazione. È un modo per rimandare la questione, per renderla invisibile, almeno agli occhi dei cittadini europei.

Von der Leyen alla guida dell’Europa blindata: la sicurezza sopra tutto, i diritti in secondo piano

L’Europa che si proclamava campione dei diritti umani, che parlava di solidarietà e accoglienza, oggi ha scelto un’altra strada. Ursula von der Leyen ha contribuito a tracciare questa rotta, rendendo accettabile ciò che un tempo sarebbe stato inconcepibile. Il risultato è una politica che non affronta la realtà della migrazione, ma la respinge fisicamente, moralmente e politicamente.

Le prossime settimane saranno decisive per capire se questo modello verrà implementato su larga scala. Se così fosse, l’Unione europea potrebbe trovarsi a gestire un sistema che mina i suoi stessi valori, sacrificando l’umanità sull’altare della sicurezza. Un’eredità che la Commissione von der Leyen lascerà alla storia.

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Un Paese di poveri: la stabilità della miseria, ma tutto va ben

L’Istat ci fa sapere che i poveri nel 2023 erano 5 milioni e 700 mila. In condizione di povertà assoluta erano poco più di 2,2 milioni di famiglie, ovvero l’8,4% sul totale delle famiglie residenti. Il valore è stabile rispetto al 2022. 

La povertà delle famiglie con almeno uno straniero è del 30,4% mentre per le famiglie italiane ci si ferma al 6,3%. È proprio vero, gli stranieri vengono in Italia per fare i lavori che gli italiani non vogliono più fare: i poveri. 

Quasi il 10% degli italiani vivevano l’anno scorso in condizioni di povertà e poiché nulla ci fa pensare che la situazione sia miracolosamente migliorata se ne deduce che una persona su dieci di quelle che incontrate per strada sia al di sotto della soglia della dignità. 

Pensare che questi numeri siano il risultato solo delle politiche del governo Meloni sarebbe superficiale e riduttivo. L’onda lunga della povertà comincia dagli anni 80, quando lo sfiorire del boom economico ha fatto emergere la politica prima condonata dal benessere diffuso. Allora è stato chiaro che i governi che si sono succeduti – chi più, chi meno – hanno avuto come priorità quella di preservare le classi abbienti del Paese, le stesse che esprimono in gran parte la classe dirigente. 

La precarizzazione del lavoro che prometteva libertà e guadagni è stata una delle grandi truffe dei tempi recenti: essere liberi professionisti in un mercato stagnante ha portato come risultato la libertà di azione nello smantellamento del welfare e dei servizi.

La prossima legge di bilancio è innestata sugli stessi binari. E tutto va ben. 

Buon venerdì. 

Nella foto: raccolta alimentare dell’associazione Nonna Roma, 7 giugno 2024 (fb Nonna Roma)

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La gestazione per altri è reato universale, ma solo sulla carta

Il reato universale di gestazione per altri (gpa), trasformato in legge tra l’entusiasmo della maggioranza, è inapplicabile non solo per la sua inconsistenza giuridica ma per l’assurdità logica che lo sorregge. L’Italia ha deciso, da sola, che una pratica perfettamente legale in molti Paesi debba essere trattata come un crimine globale, ignorando il principio di doppia incriminazione che governa il diritto penale internazionale. Questo principio stabilisce che un reato può essere perseguito in Italia solo se è considerato tale anche nel Paese in cui è stato commesso. Ma qui, con la gpa, si fa finta che questo ostacolo non esista.

Un reato senza giustizia: la farsa della doppia incriminazione

Non basta l’enfasi politica di definire “universale” un reato perché diventi realmente tale. La giurisdizione universale, quella vera, riguarda crimini di tale gravità che l’intera comunità internazionale li riconosce e li persegue congiuntamente: genocidio, terrorismo, tortura. Crimini che oltraggiano l’umanità. Ma come si può paragonare la gestazione per altri, legale e regolamentata in Paesi come il Canada, la Gran Bretagna e il Portogallo, a questi orrori? È una forzatura ideologica che non trova alcuna giustificazione giuridica.

In pratica, questa legge richiederebbe la collaborazione di Stati esteri per raccogliere prove e per dare seguito a processi penali contro cittadini italiani che hanno fatto ricorso alla gpa in quei Paesi. Ma quale Stato collaborerà mai a un’inchiesta su una pratica che considera legittima e protetta dalla propria legislazione? Sarebbe come chiedere all’Olanda di processare chi utilizza legalmente la cannabis entro i confini di Amsterdam per poi punirlo al rientro in Italia.

E qui emerge il vero cuore del problema: questa legge non può funzionare perché non ci sono gli strumenti per farla rispettare. Il professor Gian Luigi Gatta lo ha spiegato chiaramente: senza la cooperazione degli Stati dove la gpa è legale, qualsiasi tentativo di perseguire chi la pratica all’estero è destinato a fallire. Si parla di rogatorie internazionali, di indagini che dovrebbero coinvolgere Paesi che non condividono questa criminalizzazione. È una battaglia che l’Italia ha scelto di combattere da sola, senza alleati, in un mondo dove la gestazione per altri è vista in modo molto diverso.

Ma non è solo questo. La legge non tiene conto nemmeno delle persone più vulnerabili: i bambini. Cosa accadrà ai figli nati da gpa Come saranno trattati quando i loro genitori torneranno in Italia Saranno considerati, per assurdo, “frutto di un reato”, pur non avendo alcun ruolo nelle decisioni che li hanno portati al mondo. Questa è una delle preoccupazioni sollevate da Filomena Gallo e dall’Associazione Luca Coscioni: lo stigma che questa legge impone sui bambini nati attraverso una pratica che, nel Paese di nascita, è legale.

Lo stigma dei bambini: quando la legge colpisce gli innocenti

La verità è che questa norma non è stata scritta per essere applicata ma per essere sventolata. È un simbolo ideologico, un’arma politica che non ha lo scopo di proteggere o di regolare ma di punire e discriminare. Il governo italiano sa perfettamente che i tribunali, nazionali e internazionali, impugneranno questa legge ma nel frattempo il messaggio politico sarà arrivato forte e chiaro: il controllo sui corpi delle donne, la criminalizzazione delle famiglie arcobaleno, la riaffermazione di un modello di famiglia che non accetta deviazioni dalla norma.

La legge sul reato universale di gestazione per altri non è solo inapplicabile, è un errore consapevole. Un errore costruito ad arte per fare propaganda, sapendo bene che non avrà mai un vero impatto legale. Nel frattempo, però, alimenterà la discriminazione e rafforzerà un clima di paura e di divisione. Questo è l’unico effetto reale di una legge nata per non funzionare.

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Molla il Consiglio dell’Islam. Troppo immobilismo

Il Consiglio per le relazioni con l’Islam getta la spugna. Dopo oltre un decennio, gli esperti alzano bandiera bianca di fronte all’immobilismo del governo. La lettera di dimissioni è un j’accuse che non lascia spazio a interpretazioni: ogni iniziativa sospesa, ogni progetto congelato, ogni speranza di integrazione mandata in soffitta. Il “Patto per un Islam italiano” del 2017? Carta straccia. I corsi per imam “made in Italy”? Cancellati. Il dialogo interreligioso? Un fastidioso ronzio da silenziare. Qualcuno dalle parti del Viminale deve avere pensato che è meglio chiudere gli occhi: se non vediamo l’Islam, forse sparirà come per magia. Peccato che la realtà sia più testarda degli istinti securitari di chi ci governa. Le comunità musulmane sono qui, sono parte del tessuto sociale italiano. Ignorarle non le farà svanire, ma alimenterà incomprensioni e conflitti.

È la strategia dello struzzo elevata a politica di Stato. Cancellare ogni spazio di dialogo, rendere inoperante un organismo di esperti, ignorare anni di lavoro per l’integrazione. Tutto in nome di un effimero consenso elettorale costruito sulla paura del diverso. La libertà religiosa non è un optional, un vezzo da concedere nei momenti di magnanimità. È un diritto fondamentale, un pilastro della convivenza civile. Ma evidentemente è più comodo cavalcare i fantasmi dell’invasione islamica che affrontare la complessa realtà di un’Italia multiculturale. Il risultato? Un paese più chiuso, più spaventato, più diviso. Complimenti, signor Ministro. Con le sue non-azioni ha ottenuto ciò che nessuno prima è mai riuscito a fare: spegnere il dialogo, soffocare l’integrazione, alimentare la diffidenza.

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Crosetto alle Camere: Il Medio Oriente in fiamme, l’Italia sul filo del rasoio

La giornata del 17 ottobre si apre con l’informativa del ministro Guido Crosetto al Senato. Lo scenario tratteggiato dal ministro della Difesa non è fatto di sfumature: il Medio Oriente è un barile di polvere da sparo, con le linee rosse ormai ampiamente superate e una crisi umanitaria che cresce a ritmi insostenibili. Crosetto non sceglie giri di parole: “Quella creatasi in Medio Oriente è una crisi gravissima, caratterizzata dal superamento di diverse linee rosse”. Parole forti, dirette, che non lasciano spazio all’ambiguità.

Crosetto e l’equilibrio tra difesa e diplomazia

Al centro del suo intervento c’è l’equilibrio precario che si gioca tra la difesa legittima di Israele e il rispetto del diritto internazionale. “Israele ha diritto di difendersi”, ripete più volte, ma subito dopo aggiunge: “Con la stessa forza chiediamo che si attenga alle regole del diritto internazionale e che rispetti le basi Unifil”. Non c’è spazio per concessioni. Il ministro riconosce la delicatezza della posizione italiana, incastrata tra alleanze storiche e il ruolo di mediazione in un conflitto che minaccia di trascinare il mondo in una spirale senza uscita.

Le reazioni in aula non tardano ad arrivare. Stefano Patuanelli, del Movimento 5 Stelle, non usa mezzi termini nel denunciare l’aggressività del governo israeliano, chiedendo di fermare Netanyahu con sanzioni e uno stop alla vendita di armi. “Netanyahu sta portando Israele dalla parte sbagliata della storia”, afferma senza esitazioni, mentre denuncia le condizioni critiche in cui versano i nostri militari in Libano, ridotti a vivere con le razioni da combattimento. Un’accusa pesante, che fa tremare l’aula.

Le reazioni dell’opposizione: critiche e accuse al governo

A sinistra, Peppe De Cristofaro dell’Alleanza Verdi e Sinistra alza il tiro, ma sposta il mirino. “Il silenzio del governo sui crimini di guerra a Gaza è assordante”, afferma, puntando il dito contro l’ipocrisia di un esecutivo che condanna gli attacchi a Unifil ma evita accuratamente di prendere posizione sugli oltre 40mila morti a Gaza. De Cristofaro accusa il governo di giocare a carte coperte sulla vendita di armi a Israele, chiedendo chiarezza e, soprattutto, azioni concrete per fermare l’escalation.

Il Partito Democratico, per bocca di Alessandro Alfieri, tiene un tono diverso. “Riconosciamo al ministro Crosetto di aver tenuto una posizione inappuntabile”, dice Alfieri, lodando la linea ferma ed equilibrata del ministro. Ma le critiche al governo non mancano. L’assenza di una condanna esplicita a Netanyahu e la decisione di astenersi all’assemblea Onu non sono passate inosservate. “L’Italia conta se il multilateralismo funziona”, ricorda Alfieri, sottolineando che l’Unione Europea deve essere compatta, e l’Italia, in questo momento, rischia di restare isolata.

Crosetto, intanto, non indietreggia di un millimetro. Ha già aggiornato i piani di evacuazione per il contingente italiano in Libano e rassicura l’aula: “Siamo pronti a fare la nostra parte”. Aerei e navi sono già allertati per un’eventuale estrazione dei nostri militari, e il ministro chiarisce che ogni mossa è già stata calcolata. Non c’è spazio per l’improvvisazione in uno scenario così fluido e pericoloso.

Crisi in Medio Oriente: il destino di Unifil

Ma è il futuro della missione Unifil a tenere banco nel cuore del suo discorso. Crosetto non si nasconde dietro le parole. “O c’è Unifil o c’è la guerra”, dice con una chiarezza che lascia poco spazio all’immaginazione. Le Nazioni Unite, con tutto il loro bagaglio di contraddizioni e lentezze, rappresentano ancora l’ultimo baluardo contro un conflitto che potrebbe deflagrare in tutta la regione. Rafforzare la missione Unifil è una priorità assoluta, e per farlo, servono nuove regole di ingaggio, regole che permettano ai caschi blu di esercitare una reale deterrenza.

La crisi in Libano, afferma Crosetto, potrebbe diventare persino più grave di quella che sta dilaniando Gaza. Non solo per i numeri impressionanti delle vittime – oltre 40.000 a Gaza – ma per le implicazioni geopolitiche. “Un ulteriore aggravamento sarebbe foriero di conseguenze drammatiche per tutti”, ribadisce, evocando scenari che sembrano sempre più vicini. Non ci sarebbero né vincitori né vinti, solo macerie.

La giornata si conclude con l’informativa alla Camera, dove Crosetto ribadisce la linea tracciata poche ore prima al Senato. Non rinuncerà all’idea di una soluzione pacifica, nonostante tutto. “Dopo il G7 Difesa andrò a Beirut e Tel Aviv”, annuncia, sottolineando l’impegno italiano nel tentare una mediazione che, seppur difficile, resta l’unica via percorribile. La sua missione è chiara: evitare che il conflitto scoppi su larga scala e mantenere l’Italia in una posizione di equilibrio, tra alleanze storiche e il rispetto del diritto internazionale.

In questo momento di altissima tensione, Crosetto tiene il timone fermo. Ma sa bene che ogni parola pesa, ogni decisione ha conseguenze che possono andare ben oltre i confini nazionali. “Non voglio rinunciare all’idea di risolvere in modo pacifico la crisi”, ripete, ma il mondo sembra voler spingere in una direzione diversa.

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