Vai al contenuto

Blog

Come volevasi dimostrare

Che i Centri rimpatrio in Albania fossero illegali lo sapevano tutti. Lo sapevano i lettori di questo giornale, dove da settimane scriviamo che la sentenza della Corte di giustizia europea sarebbe stata vincolante per i giudici di Roma. Che infatti ieri la hanno applicata. Lo sa chiunque mastichi un minimo di diritto e delle sue gerarchie.

Non potevano non saperlo Giorgia Meloni, Antonio Tajani e il ministro Piantedosi, che negli ultimi giorni hanno insistito nel recitare una farsa utile solo al sensazionalismo, indicando in quei sedici sventurati, quattro dei quali (due presunti minori e due malati)rispediti peraltro subito in Italia, portati avanti e indietro dall’Albania la soluzione finale per gestire l’immigrazione.

La soluzione albanese è illegale, antieconomica e disumana. È illegale perché il diritto europeo è stato scritto basandosi sui principi per cui l’Europa è nata quando aspirava a essere la culla del diritto e dei diritti. Il rispetto della sentenza della Corte Ue, imposto dalla Costituzione italiana, avrebbe dunque dovuto fermare tutto fin dall’inizio, evitando la sceneggiata. È antieconomica perché da giorni discutiamo di sedici persone sottoposte a giudizi risultati fallaci, trasportate da una nave militare che ha raggiunto l’Albania per le foto di rito.

Militari, giudici, prefetti, medici, forze dell’ordine hanno dovuto occupare il loro tempo (e i nostri soldi) per fallire. Senza parlare del conto dei Centri in Albania e dei mostruosi costi di gestione. Roba da Corte dei conti, oltre che da vergogna politica. È disumana perché parte dal presupposto che la strategia della desistenza sia un metodo morale per bloccare le migrazioni. Sventolare la ferocia della Guardia costiera libica, il pugno duro di Frontex, le violenze tunisine o i lager libici per frenare la disperazione di chi parte è un metodo vigliacco e privo di etica. Le proteste e il complottismo del governo sono gli starnazzi di chi sapeva dall’inizio che sarebbe finita così, ma confida nella paziente ingenuità dei suoi elettori. Ora resta da vedere se anche la Commissione von der Leyen vorrà ridicolizzarsi.

L’articolo Come volevasi dimostrare sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

In piazza contro le toghe come ai tempi di Berlusconi

Un partito che assedia un tribunale mentre all’interno si processa il suo leader si era visto l’ultima volta con Silvio Berlusconi. Era il processo Ruby e il codazzo di parlamentari in protesta davanti al Palazzo di Giustizia era capeggiato da Angelino Alfano con i big azzurri al seguito. Undici anni dopo ci hanno pensato i leghisti a riunire deputati e senatori in piazza mentre nel Tribunale di Palermo si svolgeva l’udienza del processo che vede imputato il leader Matteo Salvini per sequestro di persona e rifiuto di atti d’ufficio.

Undici anni dopo la scena è – se possibile – ancora peggiore. Intorno al nugolo di parlamentari che recitano le parti imparate a memoria c’è poca gente. La vittimizzazione di Salvini è uno show a cui deputati e senatori, come ragazzetti in gita, partecipano indossando magliette stampate per l’occasione, come quelle giovanili trasferte all’estero per festeggiare un addio al celibato. Il copione è sempre lo stesso.

Un partito – di governo – vorrebbe trasformare un processo penale in una persecuzione politica. Così si assiste all’ecolalia della magistratura brutta e cattiva al servizio dei poteri forti e gli stessi frignii di stampo berlusconiano. “Non è un attacco alla magistratura”, ripetono i leghisti. Sarà per questo che la magistrata Giorgia Righi, una dei pubblici ministeri, è finita ieri sotto scorta per le minacce ricevute sui social. I leghisti rivendicano il diritto di manifestare in piazza. Occhio che non arrivi il manganello del Decreto sicurezza.

L’articolo In piazza contro le toghe come ai tempi di Berlusconi sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Deportare è la nuova accoglienza: l’Ue verso la svolta a destra sotto la guida di von der Leyen

Il Consiglio europeo ha segnato uno dei momenti più critici per l’Ue in tema di migrazioni. Il pendolo, ormai, si è spostato decisamente a destra, e non è stato per caso. Alla guida di questo cambio di rotta c’è la Commissione von der Leyen, che con la sua presenza e il suo sostegno alle “soluzioni innovative” ha di fatto legittimato politiche di respingimento che in passato erano considerate inaccettabili. Ursula von der Leyen, da presidente della Commissione, non solo ha partecipato attivamente agli incontri con i leader di Paesi come Olanda, Danimarca e Italia, ma ha anche appoggiato apertamente l’idea di esternalizzare il problema migratorio, spostandolo lontano dagli occhi dell’Europa.

L’Olanda e l’idea di deportare in Uganda: quando l’Ue esternalizza i migranti

Tra le proposte che emergono, quella dell’Olanda è la più esplicita. Deportare i migranti respinti in Uganda, in attesa di rimpatrio, è diventata una strategia “seria” e concreta, come ha affermato il primo ministro olandese Dick Schoof. Non è solo una trovata elettorale: il governo olandese sta effettivamente negoziando con Kampala per trasformare l’Uganda in un campo di raccolta dell’Europa. La presidente von der Leyen non ha fatto altro che sostenere questi negoziati, aprendo la strada a un modello che rischia di diventare sistematico.

L’Olanda non è sola. Anche la Danimarca, sotto la guida della socialdemocratica Mette Frederiksen, ha contribuito a rafforzare questa tendenza, dimostrando che lo slittamento a destra è trasversale. La Danimarca sta già lavorando per inviare i detenuti stranieri in Kosovo e ora guarda con favore alla creazione di “hub” in Africa per i migranti respinti. Il sostegno politico è forte, con il Partito Popolare Europeo che vede in queste politiche una risposta all’avanzata delle destre nazionaliste. Antonio Tajani, ministro degli Esteri italiano, ha promosso l’accordo con l’Albania (“Una scelta apprezzata da tutti”), un altro esempio di esternalizzazione del problema, come un modello da seguire.

Difesa dei confini: cosa c’è dietro il cambio di strategia

Ma non si tratta solo di chiudere i confini: si tratta di spostare la responsabilità fuori dall’Europa, in Paesi che non hanno né le risorse né la capacità di gestire questi flussi. Questa non è una strategia nuova, ma sotto la presidenza von der Leyen, ha assunto una dimensione istituzionalizzata. Ciò che era una misura eccezionale è diventato la norma. Le critiche di Paesi come la Germania, dove Olaf Scholz ha dichiarato che gli hub esterni non sono una soluzione praticabile, e del Belgio, con Alexander De Croo che ha definito queste politiche “costose e inefficaci”, vengono messe in secondo piano. La Commissione, ormai, si è allineata alla logica della sicurezza a tutti i costi, ignorando le voci contrarie e i dubbi sulla fattibilità di queste misure.

Le conclusioni del Consiglio europeo parlano chiaro: si deve agire “in modo determinato” per aumentare i rimpatri e controllare i confini esterni, anche attraverso accordi con Paesi terzi. Ma questa determinazione, che von der Leyen ha sposato in pieno, non risolve i problemi strutturali delle migrazioni. Spostare i migranti in Uganda o in Albania non ridurrà la pressione sui confini europei, non risolverà le cause alla radice della migrazione. È un modo per rimandare la questione, per renderla invisibile, almeno agli occhi dei cittadini europei.

Von der Leyen alla guida dell’Europa blindata: la sicurezza sopra tutto, i diritti in secondo piano

L’Europa che si proclamava campione dei diritti umani, che parlava di solidarietà e accoglienza, oggi ha scelto un’altra strada. Ursula von der Leyen ha contribuito a tracciare questa rotta, rendendo accettabile ciò che un tempo sarebbe stato inconcepibile. Il risultato è una politica che non affronta la realtà della migrazione, ma la respinge fisicamente, moralmente e politicamente.

Le prossime settimane saranno decisive per capire se questo modello verrà implementato su larga scala. Se così fosse, l’Unione europea potrebbe trovarsi a gestire un sistema che mina i suoi stessi valori, sacrificando l’umanità sull’altare della sicurezza. Un’eredità che la Commissione von der Leyen lascerà alla storia.

L’articolo Deportare è la nuova accoglienza: l’Ue verso la svolta a destra sotto la guida di von der Leyen sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Un Paese di poveri: la stabilità della miseria, ma tutto va ben

L’Istat ci fa sapere che i poveri nel 2023 erano 5 milioni e 700 mila. In condizione di povertà assoluta erano poco più di 2,2 milioni di famiglie, ovvero l’8,4% sul totale delle famiglie residenti. Il valore è stabile rispetto al 2022. 

La povertà delle famiglie con almeno uno straniero è del 30,4% mentre per le famiglie italiane ci si ferma al 6,3%. È proprio vero, gli stranieri vengono in Italia per fare i lavori che gli italiani non vogliono più fare: i poveri. 

Quasi il 10% degli italiani vivevano l’anno scorso in condizioni di povertà e poiché nulla ci fa pensare che la situazione sia miracolosamente migliorata se ne deduce che una persona su dieci di quelle che incontrate per strada sia al di sotto della soglia della dignità. 

Pensare che questi numeri siano il risultato solo delle politiche del governo Meloni sarebbe superficiale e riduttivo. L’onda lunga della povertà comincia dagli anni 80, quando lo sfiorire del boom economico ha fatto emergere la politica prima condonata dal benessere diffuso. Allora è stato chiaro che i governi che si sono succeduti – chi più, chi meno – hanno avuto come priorità quella di preservare le classi abbienti del Paese, le stesse che esprimono in gran parte la classe dirigente. 

La precarizzazione del lavoro che prometteva libertà e guadagni è stata una delle grandi truffe dei tempi recenti: essere liberi professionisti in un mercato stagnante ha portato come risultato la libertà di azione nello smantellamento del welfare e dei servizi.

La prossima legge di bilancio è innestata sugli stessi binari. E tutto va ben. 

Buon venerdì. 

Nella foto: raccolta alimentare dell’associazione Nonna Roma, 7 giugno 2024 (fb Nonna Roma)

L’articolo proviene da Left.it qui

La gestazione per altri è reato universale, ma solo sulla carta

Il reato universale di gestazione per altri (gpa), trasformato in legge tra l’entusiasmo della maggioranza, è inapplicabile non solo per la sua inconsistenza giuridica ma per l’assurdità logica che lo sorregge. L’Italia ha deciso, da sola, che una pratica perfettamente legale in molti Paesi debba essere trattata come un crimine globale, ignorando il principio di doppia incriminazione che governa il diritto penale internazionale. Questo principio stabilisce che un reato può essere perseguito in Italia solo se è considerato tale anche nel Paese in cui è stato commesso. Ma qui, con la gpa, si fa finta che questo ostacolo non esista.

Un reato senza giustizia: la farsa della doppia incriminazione

Non basta l’enfasi politica di definire “universale” un reato perché diventi realmente tale. La giurisdizione universale, quella vera, riguarda crimini di tale gravità che l’intera comunità internazionale li riconosce e li persegue congiuntamente: genocidio, terrorismo, tortura. Crimini che oltraggiano l’umanità. Ma come si può paragonare la gestazione per altri, legale e regolamentata in Paesi come il Canada, la Gran Bretagna e il Portogallo, a questi orrori? È una forzatura ideologica che non trova alcuna giustificazione giuridica.

In pratica, questa legge richiederebbe la collaborazione di Stati esteri per raccogliere prove e per dare seguito a processi penali contro cittadini italiani che hanno fatto ricorso alla gpa in quei Paesi. Ma quale Stato collaborerà mai a un’inchiesta su una pratica che considera legittima e protetta dalla propria legislazione? Sarebbe come chiedere all’Olanda di processare chi utilizza legalmente la cannabis entro i confini di Amsterdam per poi punirlo al rientro in Italia.

E qui emerge il vero cuore del problema: questa legge non può funzionare perché non ci sono gli strumenti per farla rispettare. Il professor Gian Luigi Gatta lo ha spiegato chiaramente: senza la cooperazione degli Stati dove la gpa è legale, qualsiasi tentativo di perseguire chi la pratica all’estero è destinato a fallire. Si parla di rogatorie internazionali, di indagini che dovrebbero coinvolgere Paesi che non condividono questa criminalizzazione. È una battaglia che l’Italia ha scelto di combattere da sola, senza alleati, in un mondo dove la gestazione per altri è vista in modo molto diverso.

Ma non è solo questo. La legge non tiene conto nemmeno delle persone più vulnerabili: i bambini. Cosa accadrà ai figli nati da gpa Come saranno trattati quando i loro genitori torneranno in Italia Saranno considerati, per assurdo, “frutto di un reato”, pur non avendo alcun ruolo nelle decisioni che li hanno portati al mondo. Questa è una delle preoccupazioni sollevate da Filomena Gallo e dall’Associazione Luca Coscioni: lo stigma che questa legge impone sui bambini nati attraverso una pratica che, nel Paese di nascita, è legale.

Lo stigma dei bambini: quando la legge colpisce gli innocenti

La verità è che questa norma non è stata scritta per essere applicata ma per essere sventolata. È un simbolo ideologico, un’arma politica che non ha lo scopo di proteggere o di regolare ma di punire e discriminare. Il governo italiano sa perfettamente che i tribunali, nazionali e internazionali, impugneranno questa legge ma nel frattempo il messaggio politico sarà arrivato forte e chiaro: il controllo sui corpi delle donne, la criminalizzazione delle famiglie arcobaleno, la riaffermazione di un modello di famiglia che non accetta deviazioni dalla norma.

La legge sul reato universale di gestazione per altri non è solo inapplicabile, è un errore consapevole. Un errore costruito ad arte per fare propaganda, sapendo bene che non avrà mai un vero impatto legale. Nel frattempo, però, alimenterà la discriminazione e rafforzerà un clima di paura e di divisione. Questo è l’unico effetto reale di una legge nata per non funzionare.

L’articolo La gestazione per altri è reato universale, ma solo sulla carta sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Molla il Consiglio dell’Islam. Troppo immobilismo

Il Consiglio per le relazioni con l’Islam getta la spugna. Dopo oltre un decennio, gli esperti alzano bandiera bianca di fronte all’immobilismo del governo. La lettera di dimissioni è un j’accuse che non lascia spazio a interpretazioni: ogni iniziativa sospesa, ogni progetto congelato, ogni speranza di integrazione mandata in soffitta. Il “Patto per un Islam italiano” del 2017? Carta straccia. I corsi per imam “made in Italy”? Cancellati. Il dialogo interreligioso? Un fastidioso ronzio da silenziare. Qualcuno dalle parti del Viminale deve avere pensato che è meglio chiudere gli occhi: se non vediamo l’Islam, forse sparirà come per magia. Peccato che la realtà sia più testarda degli istinti securitari di chi ci governa. Le comunità musulmane sono qui, sono parte del tessuto sociale italiano. Ignorarle non le farà svanire, ma alimenterà incomprensioni e conflitti.

È la strategia dello struzzo elevata a politica di Stato. Cancellare ogni spazio di dialogo, rendere inoperante un organismo di esperti, ignorare anni di lavoro per l’integrazione. Tutto in nome di un effimero consenso elettorale costruito sulla paura del diverso. La libertà religiosa non è un optional, un vezzo da concedere nei momenti di magnanimità. È un diritto fondamentale, un pilastro della convivenza civile. Ma evidentemente è più comodo cavalcare i fantasmi dell’invasione islamica che affrontare la complessa realtà di un’Italia multiculturale. Il risultato? Un paese più chiuso, più spaventato, più diviso. Complimenti, signor Ministro. Con le sue non-azioni ha ottenuto ciò che nessuno prima è mai riuscito a fare: spegnere il dialogo, soffocare l’integrazione, alimentare la diffidenza.

L’articolo Molla il Consiglio dell’Islam. Troppo immobilismo sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

Crosetto alle Camere: Il Medio Oriente in fiamme, l’Italia sul filo del rasoio

La giornata del 17 ottobre si apre con l’informativa del ministro Guido Crosetto al Senato. Lo scenario tratteggiato dal ministro della Difesa non è fatto di sfumature: il Medio Oriente è un barile di polvere da sparo, con le linee rosse ormai ampiamente superate e una crisi umanitaria che cresce a ritmi insostenibili. Crosetto non sceglie giri di parole: “Quella creatasi in Medio Oriente è una crisi gravissima, caratterizzata dal superamento di diverse linee rosse”. Parole forti, dirette, che non lasciano spazio all’ambiguità.

Crosetto e l’equilibrio tra difesa e diplomazia

Al centro del suo intervento c’è l’equilibrio precario che si gioca tra la difesa legittima di Israele e il rispetto del diritto internazionale. “Israele ha diritto di difendersi”, ripete più volte, ma subito dopo aggiunge: “Con la stessa forza chiediamo che si attenga alle regole del diritto internazionale e che rispetti le basi Unifil”. Non c’è spazio per concessioni. Il ministro riconosce la delicatezza della posizione italiana, incastrata tra alleanze storiche e il ruolo di mediazione in un conflitto che minaccia di trascinare il mondo in una spirale senza uscita.

Le reazioni in aula non tardano ad arrivare. Stefano Patuanelli, del Movimento 5 Stelle, non usa mezzi termini nel denunciare l’aggressività del governo israeliano, chiedendo di fermare Netanyahu con sanzioni e uno stop alla vendita di armi. “Netanyahu sta portando Israele dalla parte sbagliata della storia”, afferma senza esitazioni, mentre denuncia le condizioni critiche in cui versano i nostri militari in Libano, ridotti a vivere con le razioni da combattimento. Un’accusa pesante, che fa tremare l’aula.

Le reazioni dell’opposizione: critiche e accuse al governo

A sinistra, Peppe De Cristofaro dell’Alleanza Verdi e Sinistra alza il tiro, ma sposta il mirino. “Il silenzio del governo sui crimini di guerra a Gaza è assordante”, afferma, puntando il dito contro l’ipocrisia di un esecutivo che condanna gli attacchi a Unifil ma evita accuratamente di prendere posizione sugli oltre 40mila morti a Gaza. De Cristofaro accusa il governo di giocare a carte coperte sulla vendita di armi a Israele, chiedendo chiarezza e, soprattutto, azioni concrete per fermare l’escalation.

Il Partito Democratico, per bocca di Alessandro Alfieri, tiene un tono diverso. “Riconosciamo al ministro Crosetto di aver tenuto una posizione inappuntabile”, dice Alfieri, lodando la linea ferma ed equilibrata del ministro. Ma le critiche al governo non mancano. L’assenza di una condanna esplicita a Netanyahu e la decisione di astenersi all’assemblea Onu non sono passate inosservate. “L’Italia conta se il multilateralismo funziona”, ricorda Alfieri, sottolineando che l’Unione Europea deve essere compatta, e l’Italia, in questo momento, rischia di restare isolata.

Crosetto, intanto, non indietreggia di un millimetro. Ha già aggiornato i piani di evacuazione per il contingente italiano in Libano e rassicura l’aula: “Siamo pronti a fare la nostra parte”. Aerei e navi sono già allertati per un’eventuale estrazione dei nostri militari, e il ministro chiarisce che ogni mossa è già stata calcolata. Non c’è spazio per l’improvvisazione in uno scenario così fluido e pericoloso.

Crisi in Medio Oriente: il destino di Unifil

Ma è il futuro della missione Unifil a tenere banco nel cuore del suo discorso. Crosetto non si nasconde dietro le parole. “O c’è Unifil o c’è la guerra”, dice con una chiarezza che lascia poco spazio all’immaginazione. Le Nazioni Unite, con tutto il loro bagaglio di contraddizioni e lentezze, rappresentano ancora l’ultimo baluardo contro un conflitto che potrebbe deflagrare in tutta la regione. Rafforzare la missione Unifil è una priorità assoluta, e per farlo, servono nuove regole di ingaggio, regole che permettano ai caschi blu di esercitare una reale deterrenza.

La crisi in Libano, afferma Crosetto, potrebbe diventare persino più grave di quella che sta dilaniando Gaza. Non solo per i numeri impressionanti delle vittime – oltre 40.000 a Gaza – ma per le implicazioni geopolitiche. “Un ulteriore aggravamento sarebbe foriero di conseguenze drammatiche per tutti”, ribadisce, evocando scenari che sembrano sempre più vicini. Non ci sarebbero né vincitori né vinti, solo macerie.

La giornata si conclude con l’informativa alla Camera, dove Crosetto ribadisce la linea tracciata poche ore prima al Senato. Non rinuncerà all’idea di una soluzione pacifica, nonostante tutto. “Dopo il G7 Difesa andrò a Beirut e Tel Aviv”, annuncia, sottolineando l’impegno italiano nel tentare una mediazione che, seppur difficile, resta l’unica via percorribile. La sua missione è chiara: evitare che il conflitto scoppi su larga scala e mantenere l’Italia in una posizione di equilibrio, tra alleanze storiche e il rispetto del diritto internazionale.

In questo momento di altissima tensione, Crosetto tiene il timone fermo. Ma sa bene che ogni parola pesa, ogni decisione ha conseguenze che possono andare ben oltre i confini nazionali. “Non voglio rinunciare all’idea di risolvere in modo pacifico la crisi”, ripete, ma il mondo sembra voler spingere in una direzione diversa.

L’articolo Crosetto alle Camere: Il Medio Oriente in fiamme, l’Italia sul filo del rasoio sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

La notizia sul giornalismo che non leggerete in giro

La notizia che non leggerete è l’inchiesta di IrpiMedia sulle molestie sessuali all’interno delle scuole di giornalismo che apre un sipario inquietante su un mondo che dovrebbe essere simbolo di trasparenza e verità. L’indagine rivela una realtà dove il potere si confonde con l’abuso, mettendo a rischio giovani aspiranti giornalisti, spesso già vulnerabili per la precarietà del settore.

Le testimonianze raccolte mostrano uno schema ripetuto: figure di potere – tutor, professori, giornalisti affermati – che sfruttano la propria posizione per intimidire o manipolare giovani donne. Il confine tra autorità e prevaricazione si dissolve, e le vittime si trovano imprigionate in un silenzio soffocante, in parte per paura di ritorsioni professionali, in parte per un sistema che minimizza e copre. 

Un terzo delle studentesse ha raccontato di aver subito discriminazioni, molestie verbali e sessuali in classe e negli stage. La metà delle persone sentite ha riferito di aver assistito o saputo di molestie sessuali e verbali, tentate violenze sessuali, atti persecutori, stalking, ricatti e discriminazioni di genere.

L’unica ricerca nazionale a disposizione sul tema è stata pubblicata nel 2019 dalla Federazione nazionale della stampa (Fnsi) e ha rilevato che, tra le giornaliste assunte in redazione, l’85% ha dichiarato di avere subito molestie sessuali almeno una volta nel corso della vita professionale.

La riflessione va oltre i singoli fatti: dobbiamo chiederci cosa significhi insegnare giornalismo in un contesto dove il rispetto per gli individui è calpestato. Come possiamo formare professionisti capaci di cercare e raccontare la verità se il primo tradimento avviene all’interno delle aule?

L’articolo proviene da Left.it qui

Dal Ponte sullo Stretto, ai rubinetti a secco

A Nicosia, in provincia di Enna, la signora Cinzia con la sua famiglia vive con un recipiente da mille litri e l’acqua una sola volta alla settimana. “Naturalmente sempre che l’acqua non arrivi gialla e piena di terra, come spesso accade. – racconta il deputato Davide Faraone di Italia viva – Un piccolo appartamento invaso da bidoni pieni e cassette d’acqua minerale”. 

In Sicilia negli invasi regionali ci sono 60 milioni di metri cubi d’acqua. L’anno scorso erano 300 milioni, cinque volte di più. A Caltanissetta e a Enna l’acqua arriva una volta alla settimana. A Palermo i rubinetti funzionano a giorni alterni, ad Agrigento hanno fatto arrivare una nave cisterna della Marina militare. Quando c’è l’acqua è di una giallastro marrone e puzza di fogna. 

Oltre alle case ci sono le attività che soffrono. Ne risente l’agricoltura, ne risente ovviamente il turismo. Il presidente della Regione Renato Schifani propone di dissalare l’acqua del mare, come fanno a Dubai. Dal Pnrr sono in arrivo 61 milioni di euro per “mettere in sicurezza e adeguare gli impianti esistenti e migliorare complessivamente la depurazione delle acque reflue scaricate nelle acque marine e interne”. 

Lo scorso 11 ottobre la Regione ha destinato 350 milioni di euro per “interventi legati all’emergenza siccità” e “per reti idriche, depurazione e rifiuti”. Il sistema però è un colabrodo e servirebbero investimenti strutturali. 

Nel dicembre dell’anno scorso il governo Meloni ha tolto a Sicilia e Calabria 1,6 miliardi di euro dai Fondi di sviluppo e coesione (Fsc) oltre ad altri 718 milioni dai finanziamenti gestiti dai vari ministeri. Perché? Per il progetto da 12 miliardi del Ponte sullo Stretto. 

L’articolo Dal Ponte sullo Stretto, ai rubinetti a secco sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui

L’Unione europea dimentica Khashoggi e riabilita bin Salman

Il giornalista Kashoggi fatto a pezzi nel consolato dell’Arabia Saudita a Instabul il 2 ottobre del 2018? Acqua passata. Le conclusioni della Cia che il 16 novembre di quell’anno scrivono nero su bianche che il mandante dell’omicidio è il principe ereditario bin Salman? Carta straccia. 

Il vertice di oggi a Bruxelles, che segna un incontro storico tra l’Unione Europea e i leader del Consiglio di Cooperazione del Golfo (CCG), evidenzia l’ennesima prova della capacità dell’Europa di adattarsi a ogni scenario, anche quando il protagonista è Mohammed bin Salman, il principe ereditario saudita, grande amico dell’ex premier in Italia Matteo Renzi. È un ritorno in scena senza scosse, senza fronzoli, con una rapidità che lascia riflettere. Solo sei anni fa, bin Salman era considerato un paria nelle cancellerie occidentali dopo l’assassinio di Jamal Khashoggi e ora è accolto con un garbo che ha dell’incredibile.

La memoria corta dell’Europa: quando gli affari contano più dei diritti umani

Il suo passato sembra dissolversi in un presente di dialoghi diplomatici e accordi economici. L’Europa, che solo di recente si è ritrovata a gestire il caos geopolitico tra la guerra in Ucraina e le tensioni in Medio Oriente, accoglie con favore la presenza del principe, simbolo di un Medio Oriente che deve collaborare, che deve contare. La necessità di petrolio e di alleanze strategiche, di equilibri fragili e profitti immediati, sembra far chiudere gli occhi a Bruxelles davanti agli orrori che ancora oggi caratterizzano il regime saudita.

Si parla di “slancio significativo nelle relazioni UE-Golfo”, ma dietro queste parole diplomatiche resta la questione di fondo: l’Europa è davvero disposta a sacrificare i propri principi in nome della realpolitik? Mohammed bin Salman si presenta come il leader di un regno in transizione, impegnato in riforme economiche e sociali sotto l’egida del suo piano Vision 2030. Ma ciò che resta poco discusso nei corridoi del potere è il lato oscuro di questa modernizzazione: la repressione sistematica dei diritti umani, le esecuzioni arbitrarie, la messa a tacere di ogni forma di dissenso.

Lina Alhathloul, sorella dell’attivista saudita Loujain, imprigionata e torturata per aver chiesto il diritto di guidare, ricorda costantemente che l’occidente si sta lasciando incantare da una favola, mentre la realtà in Arabia Saudita è un incubo. Il regno, presentato come una potenza aperta alle donne e alle riforme in verità incarcera attivisti e dissidenti, molti dei quali spariscono senza lasciare traccia. 

Per Alhathloul con bin Salman lo stato dei diritti umani è peggiorato. Nelle sue interviste spiega da tempo come il regno saudita “usa i media occidentali, influencer occidentali, usa qualunque espediente per nascondere i loro crimini”.  “Non è possibile avere alcun accesso al paese. Alle organizzazioni per i diritti umani non è permesso di entrare nel paese. I processi si svolgono tutti a porte chiuse. Non è consentito visitare le prigioni. I carcerati sono tenuti in isolamento, quando non vengono fatti sparire con la forza. La Commissione saudita per i diritti umani creata dal governo è una clamorosa bufala, uno strumento per accreditarsi agli occhi dell’occidente e del mondo intero” diceva ad agosto intervistata da Gariwo Mag. 

Una transizione discutibile: il lato oscuro della modernizzazione saudita

Ma di tutto questo, in Europa, non sembra esserci traccia nelle discussioni politiche di alto livello. Il petrolio, la stabilità regionale e gli investimenti contano più delle sofferenze delle persone comuni. E così l’incontro tra Bruxelles e bin Salman diventa un palcoscenico in cui l’Europa gioca il ruolo del partner pragmatico dimenticando, o fingendo di dimenticare, il passato recente.

Questo vertice segna una nuova era per le relazioni tra l’Europa e il Golfo. Una partnership che si consolida su basi fragili dove i valori democratici si piegano alle esigenze economiche. E mentre Charles Michel, Ursula von der Leyen ed Emmanuel Macron stringono mani e sorridono per le telecamere l’Europa si dimostra, ancora una volta, un continente dallo stomaco forte, capace di digerire qualunque compromesso, senza nemmeno battere ciglio.

L’articolo L’Unione europea dimentica Khashoggi e riabilita bin Salman sembra essere il primo su LA NOTIZIA.

L’articolo proviene da lanotiziagiornale.it qui