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Nave Libra: lo spot pubblicitario più costoso del fascismo moderno

Questa mattina tutti i giornali scrivono di gran cassa dei sedici (16!) migranti deportati in Albania su mezzi italiani dopo essere stati accalappiati in mezzo al mare. Un’operazione che costa un miliardo di euro scippati dalle tasche dei contribuenti mentre il ministro all’Economia Giorgetti rischia l’afonia per il continuo avvisarci che le casse sono vuote e che la situazione è difficilmente raddrizzabile.

Mentre la nave militare Libra scaraventava gli egiziani e bangladesi nei container di Shengjin – un lager di cartapesta come certe facciate finte dei set cinematografici – al porto di Lampedusa sono sbarcate oltre 300 persone. 

In un Paese normale perfino gli xenofobi questa mattina dovrebbero avere il polso dell’enorme presa in giro che stanno subendo dalla loro amata leader. Ora la Giustizia italiana dovrà correre per rispettare il termine di 28 giorni previsto dalle procedure accelerate per sedici persone cannibalizzate dalla propaganda di Stato. 

A dire il vero c’è anche una sentenza della Corte di giustizia europea che potrebbe annullare il meccanismo da un momento all’altro sulla base di una recente sentenza. Comunque di quei sedici chi non riuscirà a ottenere la protezione e farsi mandare in Italia verrà trasferito nel Car Gjader in attesa di un rimpatrio che l’Italia non riesce quasi mai ad ottenere. Nel Bangladesh rientrano solo il 5% di quelli che l’Italia si promette di rimpatriare.

L’operazione è costata almeno quattro volte di più del solito. Quella nave fanfarona che trasborda sedici persone in mezzo al Mediterraneo è lo spot pubblicitario del fascismo. 

Buon martedì. 

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Dal vertice di Dubai a quello di Baku, la Cop29 sul clima resta una farsa

Mentre il mondo si prepara all’ennesima conferenza sul clima, la COP29 in Azerbaigian, viene da chiedersi: a che serve? L’inchiostro della COP28 di Dubai è appena asciugato e già le sue promesse si sgretolano come castelli di sabbia.

L’Agenzia Internazionale per le Energie Rinnovabili (IRENA) ha appena pubblicato un rapporto che suona come una sentenza di condanna per gli impegni presi alla COP28. Quei solenni giuramenti di triplicare la capacità di energia rinnovabile globale e raddoppiare l’efficienza energetica entro il 2030? Poco più che vuote parole, a quanto pare.

Il rapporto che sgretola le promesse: dati impietosi sulle rinnovabili

Il rapporto di IRENA non lascia scampo. I paesi sono sulla buona strada per raggiungere solo la metà della crescita necessaria nelle rinnovabili. Metà. E parliamo di un obiettivo che era già considerato il minimo sindacale per evitare il disastro climatico.

Ma la vera beffa arriva quando si parla di soldi. IRENA stima che per centrare gli obiettivi della COP28 servirebbero investimenti per 31,5 trilioni di dollari entro il 2030. Una cifra astronomica, certo ma non impossibile se ci fosse una vera volontà politica. Il problema è che al momento siamo fermi a investimenti di 570 miliardi di dollari l’anno. Un progresso, dirà qualcuno. Sì, come svuotare l’oceano con un cucchiaino. E così, mentre i leader mondiali si preparano a volare in Azerbaigian (ironia della sorte, un paese che vive di petrolio) per l’ennesima passerella climatica, viene da chiedersi: che senso ha

COP29: l’ennesima passerella o una svolta reale?

La COP29 si preannuncia come l’ennesimo esercizio di retorica verde, dove si parlerà di nuovi obiettivi finanziari per l’azione climatica nei paesi in via di sviluppo. Si discuterà di cifre che vanno dai 100 miliardi attuali fino a ipotetici 1,3 trilioni di dollari all’anno. Numeri che, alla luce del rapporto IRENA, suonano come una barzelletta di cattivo gusto.

Il rapporto IRENA mette in luce una realtà scomoda: l’84% degli investimenti nelle rinnovabili si concentra in Ue, Cina e Stati Uniti. L’Africa, il continente più vulnerabile ai cambiamenti climatici, vede i suoi già miseri investimenti dimezzarsi.

E mentre il solare cresce al ritmo richiesto, altre tecnologie come l’eolico offshore e la geotermia arrancano. Per non parlare dell’efficienza energetica dove secondo il rapporto “sono stati fatti pochi progressi significativi”. Le vendite di pompe di calore, cruciali per ridurre i consumi, sono addirittura in calo in Europa.

I numeri parlano chiaro: per raggiungere l’obiettivo di triplicazione, la capacità di energia rinnovabile installata dovrebbe aumentare da 3,9 terawatt (TW) a 11,2 TW entro la fine del decennio. Ma gli attuali obiettivi nazionali porteranno solo a 7,4 TW entro il 2030. E i piani presentati alle Nazioni Unite nell’ambito dell’Accordo di Parigi? Ancora peggio: solo 5,4 TW.

La spesa per le misure di risparmio energetico deve aumentare di sette volte, da 323 milioni di dollari nel 2023 a 2,2 trilioni di dollari all’anno. Un salto quantico che sembra più fantascienza che realtà. L’eolico onshore deve triplicare la sua crescita, l’eolico offshore e la bioenergia devono aumentare di sei volte. La capacità geotermica Deve crescere 35 volte più velocemente dell’anno scorso.

IRENA sottolinea la necessità di un “importante aumento” del finanziamento pubblico e privato per incrementare la quota di investimenti nei paesi in via di sviluppo. Ma come si fa ad aumentare gli investimenti quando i paesi ricchi faticano già a mantenere gli impegni presi?

La COP29 si trova di fronte a sfide titaniche. Il divario tra gli obiettivi stabiliti e i progressi effettivi è un abisso. E il tempo stringe. I governi sono tenuti a presentare piani aggiornati nel 2025, ma IRENA afferma che questi nuovi piani devono “più che raddoppiare” i loro obiettivi di energia rinnovabile per allinearsi con gli impegni della COP28. Alla luce dei fatti voi vi fidereste?

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“Non siamo un’associazione a delinquere”: De Luca bombarda il Pd

Siamo ancora allo scontro aperto tra Vincenzo De Luca ed Elly Schlein. Il governatore della Campania, noto per la sua verve polemica e la sua capacità di polarizzare l’opinione pubblica, ha lanciato l’ennesima sfida alla segretaria del Partito Democratico. 

Il casus belli questa volta è il commissariamento del Pd campano, una decisione che De Luca considera un affronto personale e un tentativo di minare la sua autorità sul territorio. “In Campania il Partito democratico è commissariato da due anni perché nell’ultimo congresso il 70% non ha appoggiato la mozione di Schlein. Non accade neanche nella Corea del Nord”, tuona il governatore. 

Lo scontro sul commissariamento: “Neanche in Corea del Nord”

Ma De Luca non si ferma qui. Con la sua proverbiale ironia al vetriolo, attacca frontalmente Antonio Misiani, il commissario inviato da Roma: “Misiani avrebbe dovuto dimettersi dopo aver chiesto scusa. Il Pd è un partito, non un’associazione a delinquere”. Parole forti, che gettano benzina sul fuoco di un partito da quelle parti già diviso e in difficoltà.

Il governatore campano, che non ha mai fatto mistero della sua insofferenza verso le logiche di partito, rivendica l’autonomia del Pd regionale: “La vita del Pd della Campania si decide qui, non a Roma“. Un messaggio chiaro alla segreteria nazionale, accusata di voler imporre decisioni dall’alto senza considerare le realtà locali.

De Luca, attacco frontale a Schlein: “Non è cambiato nulla”

Ma l’attacco più duro è riservato proprio a Elly Schlein. De Luca mette in discussione la leadership della segretaria: “Schlein si era proposta come il cambiamento ma in due anni non è cambiato nulla, non si valorizza il merito ma i maggiordomi dei capicorrente”. Il governatore non risparmia critiche nemmeno al gruppo dirigente del Pd nazionale: “Il 90% della segreteria del Pd non rappresenta nulla, né nei propri territori né nella società italiana”.

De Luca, che si considera un “uomo libero, senza correnti e padroni”, vede nel tentativo di impedirgli un terzo mandato alla guida della Regione Campania un’aggressione personale e politica. “La questione del terzo mandato è una grande palla”, afferma, sottolineando come ad altri esponenti del partito sia concesso ciò che a lui viene negato.

Il governatore campano non lesina critiche nemmeno alla gestione complessiva del partito: “Il Pd non è credibile per governare l’Italia. Oggi il Pd ospita tutto quello che è contro natura, contro ragione e contro decenza”. Parole durissime, che dipingono un quadro a tinte fosche del principale partito di opposizione.

De Luca attacca Schlein, ma le riconosce alcuni meriti

Tuttavia, De Luca riconosce alcuni meriti a Schlein, in particolare l’apertura sui temi sociali oltre che sui diritti civili. Ma subito dopo aggiunge: “Per governare un paese come l’Italia serve un programma e una coalizione credibili in grado di parlare alla maggioranza delle famiglie italiane”. Un monito che suona come una sfida aperta alla leadership attuale.

Lo scontro tra De Luca e Schlein sembra destinato a protrarsi, in un braccio di ferro che vede da un lato la volontà di centralizzazione del partito, dall’altro la rivendicazione di autonomia dei territori. Un conflitto che rischia di logorare ulteriormente un Pd già in difficoltà, alla ricerca di una identità chiara e di una strategia efficace per contrastare il governo di centrodestra.

Il futuro del Pd in Campania, e più in generale il rapporto tra centro e periferia all’interno del partito, dipenderà in larga misura dall’esito di questo scontro. Una cosa è certa: con Vincenzo De Luca in campo il dibattito politico non mancherà di colpi di scena e di momenti di alta tensione. Dietro alle quinte Giorgia Meloni sorride. 

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Sulla Libia l’ipocrisia dell’Ue non cambia: a Sabrata la nuova scuola per guardie di frontiera

L’Europa inaugura un nuovo capitolo nella sua saga di complicità con la Libia, questa volta sotto forma di un centro di formazione per guardie di frontiera a Sabrata. Un gioiellino da esibire come trofeo della “cooperazione” italo-libica, frutto avvelenato del programma europeo Sibmmil. Il progetto fa parte del programma europeo “Sibmmil” (Support for Integrated Border and Migration Management in Libya), ed è stato annunciato dall’ambasciatore dell’Ue in Libia, Nicola Orlando.

Solo che mentre l’ambasciatore cinguetta festoso su X della partnership con la Libia “nel rispetto dei diritti umani”, la realtà sul terreno racconta una storia ben diversa. Il progetto Sibmmil, con i suoi 60 milioni di euro stanziati dal 2017, non è altro che l’ennesimo tentativo di esternalizzare le frontiere europee, scaricando sulla Libia il contenimento dei flussi migratori.

Libia, la cooperazione paravento dei diritti umani

Ma chi sono questi “eccezionali ufficiali libici” che, secondo Orlando, “potranno salvare vite”? Sono gli stessi che la missione europea Irini, nel gennaio 2022, ha accusato di “uso eccessivo della forza”.  O forse sono quelli che, stando alle parole di un portavoce della Commissione europea nel marzo 2023, hanno “sostanzialmente ignorato gli addestramenti finora impartiti”. 

Il centro di Sabrata si erge come monumento all’ipocrisia di un’Europa che predica diritti umani ma pratica respingimenti per procura. L’Italia, capofila di questa strategia dal Memorandum del 2017, continua imperterrita sulla strada tracciata da Minniti, incurante delle denunce delle Ong e delle sentenze della Cassazione che definiscono la Libia un paese non sicuro.

I numeri cantano: 30.147 migranti arrivati in Italia dalla Libia nei primi nove mesi del 2024. Un calo del 17,81% rispetto al 2023 che il governo italiano sbandiera come un successo. Ma a quale prezzo? Quanti sono stati intercettati e riportati nell’inferno libico? Quanti hanno subito torture nei famigerati centri di detenzione che l’Europa finge di non vedere?

L’OIM conta 761.322 migranti in Libia tra giugno e luglio 2024, con un aumento del 5% dovuto principalmente all’arrivo di sudanesi in fuga dalla guerra. Ma invece di affrontare le cause profonde delle migrazioni, l’Italia preferisce addestrare guardie di frontiera in un paese frammentato, dove l’autorità del governo di Tripoli è più nominale che effettiva.

Il prezzo del ‘successo’ sull’altare delle statistiche

Il progetto dell’MRCC di Tripoli, il centro di coordinamento per il soccorso marittimo, è l’ennesima chimera inseguita dal 2017. Promesso, rimandato, mai realizzato. Eppure si continua a investire in questa farsa, ignorando le testimonianze delle Ong che denunciano l’aggressività e la scorrettezza della Guardia costiera libica nelle operazioni di “salvataggio”.

Mentre ci si vanta di formare le guardie libiche sui diritti umani si chiudono gli occhi sulle difficoltà di accesso ai servizi essenziali per i migranti, soprattutto in regioni remote come Al Kufra. Si parla di lotta ai trafficanti ma si alimenta semplicemente un sistema che li rende sempre più ingegnosi, come dimostra il recente caso del convoglio camuffato da corteo nuziale.

L’inaugurazione del centro di Sabrata non è un passo avanti, è l’ennesimo chiodo nella bara dei diritti umani nel Mediterraneo. È la prova tangibile di come non investire in una seria politica migratoria. 

Mentre si tagliano nastri e si fanno foto di rito – anche se molto sottovoce rispetto a qualche tempo fa –  migliaia di persone continuano a rischiare la vita in mare o a subire violenze indicibili in territorio libico. Ma finché i numeri degli sbarchi calano, tutto va bene. L’importante è che il problema resti al di là del mare, fuori dalla vista e dalla coscienza dell’Europa. Questa è la vera natura del “pilastro della partnership con l’Ue”: un monumento all’indifferenza, costruito sulle fondamenta della sofferenza umana.

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Dietro la passerella niente, al G7 della disabilità

Il G7 sulla disabilità si apre ad Assisi ma dietro la facciata festosa si cela una realtà ben più cupa. Banda, stand e annulli filatelici non serviranno a mascherare l’inadeguatezza delle politiche governative.

Partiamo dai numeri: il tanto sbandierato “Fondo unico per l’inclusione” ammonta a 552 milioni per il 2024, destinati a ridursi a 231 nel 2025. Una miseria, se si considera che questo fondo accorpa risorse precedentemente separate che superavano tale cifra.

La realtà sul campo è impietosa. Quasi 800mila disabili attendono ancora un’occupazione, iscritti a un collocamento mirato che di “mirato” ha ben poco. Le barriere architettoniche persistono, nonostante leggi mai veramente applicate. I servizi territoriali? Un miraggio in molte parti del Paese.

Il recente decreto legislativo promette una rivoluzione nei criteri di accertamento dell’invalidità. Peccato che manchi qualsiasi dettaglio su come gestire i casi non permanenti. Si parla di “progetti di vita personalizzati”, ignorando la cronica mancanza di servizi sul territorio. 

Ma il colmo è l’esclusione dell’Osservatorio sulla disabilità da questo G7. Un organismo istituito proprio per consultazione e proposta, tenuto all’oscuro dei contenuti in discussione. Quindi a chi serve il G7?

Migliaia di disabili e caregiver lottano quotidianamente contro un sistema che li abbandona. La disabilità resta uno dei principali fattori di povertà ma a Palazzo Chigi sembrano più interessati ai francobolli che a politiche concrete.

La propaganda non abbatte le barriere, non crea posti di lavoro, non garantisce assistenza. E i numeri, impietosi, sono lì a dimostrarlo.

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Meloni e il bancario: anatomia di un complotto immaginario

C’era questo bancario di Bitonto che al mattino navigava su internet, dava una scorsa alle notizie di politica, di sport e di costume e poi ficcava il naso nei conti correnti dei personaggi à la page per farsi i fatti loro e presumibilmente cullarsene con gli amici al bar. 

Il bancario ficcanaso ha compiuto migliaia di accessi illegali, mostrando un’eterogeneità invidiabile tra i vari sport, tra le varie fazioni politiche, tra le diverse squadre. Evidentemente all’impiegato infedele interessava soprattutto essere sulla cresta della notizia, poter essere uno di quelli che ne sa sempre un po’ di più della gente normale. 

La pratica è censurabile e fastidiosa, soprattutto perché nella geografia dei nostri conti correnti vi sono le traiettorie dei nostri comportamenti. E infatti il ficcanaso è stato licenziato e passerà guai grossi nei mesi a venire. 

Tra gli spiati c’è ovviamente anche Giorgia Meloni, insieme a una folta schiera di politici, in virtù delle posizioni apicali raggiunte. Per il capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera Tommaso Foti dietro quell’impiegato «ci sono manine nazionali, e magari anche qualcuna internazionale». Anzi Foti invita a guardare «dove tira il vento di sinistra». «Mi sembra anomalo – dice – che in Italia la sinistra taccia, e che questo scandalo non abbia riverbero in alcun contesto esterno». 

In sostanza una presunta internazionale di sinistra avrebbe mosso un impiegato di Bitonto a spiare migliaia di calciatori e vip per attaccare il governo Meloni. E questo è tutto quello che c’è da dire sulla sindrome del complotto e sulla perdita del senso delle proporzioni. 

Buon lunedì. 

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Così gli Usa per 20 anni sono stati il bancomat del terrore in Iraq – Lettera43

Un sistema fraudolento ha permesso che miliardi di dollari finissero nelle tasche di Isis, regime di Assad e milizie sciite filo-iraniane. Le false fatture emesse da banche irachene e i trasferimenti sospetti avrebbero dovuto far scattare mille campanelli d’allarme. Ma con superficialità e cinismo le autorità americane hanno chiuso gli occhi e nutrito il mostro che stavano combattendo.

Così gli Usa per 20 anni sono stati il bancomat del terrore in Iraq

Un sistema fraudolento che per anni ha permesso di dirottare miliardi di dollari dalle casse della Federal Reserve di New York verso le tasche di gruppi terroristici e milizie anti-americane in Iraq. È quanto emerge da una dettagliata inchiesta del consorzio giornalistico Occrp, che getta una luce inquietante sui meccanismi finanziari che alimentano l’instabilità in Medio Oriente. Il meccanismo è tanto semplice quanto redditizio: banche irachene compiacenti presentano false fatture di importazione per ottenere dollari dalla Banca centrale del Paese, che a sua volta li preleva dal conto presso la Fed di New York dove confluiscono i proventi del petrolio iracheno. Soldi che invece di pagare merci inesistenti finiscono sui conti di società di facciata legate a organizzazioni come lo Stato Islamico o le milizie filo-iraniane.

Il bancomat del terrore ha funzionato per 20 anni sotto gli occhi distratti delle autorità Usa

Un vero e proprio bancomat del terrore, che ha funzionato indisturbato per quasi 20 anni sotto gli occhi distratti delle autorità americane. Nonostante già nel 2012 un rapporto al Congresso Usa denunciasse che l’80 per cento dei fondi ottenuti con questo sistema finiva in «transazioni illegali», Washington ha continuato imperterrita a riversare miliardi di dollari nelle casse di Baghdad. Solo nel gennaio scorso, dopo l’attacco di droni che ha ucciso tre soldati americani in Giordania, il Tesoro si è finalmente deciso a sanzionare la banca Al-Huda e il suo proprietario. Peccato che già nel 2015 una commissione parlamentare irachena avesse dettagliatamente documentato come Al-Huda avesse ottenuto fraudolentemente 6,5 miliardi di dollari in soli tre anni. Ma evidentemente per l’amministrazione Usa la stabilità del dinaro iracheno era più importante del finanziamento di gruppi terroristici. O forse, come ammette candidamente l’ex ambasciatore James Jeffrey, «il riciclaggio di denaro non era qualcosa a cui abbiamo prestato particolare attenzione».

Così gli Usa per 20 anni sono stati usati come bancomat del terrore in Iraq
Milizie sciite in Iraq (Getty Images).

Fatture false, trasferimenti sospetti, società di comodo avrebbero dovuto far scattare campanelli d’allarme

L’inchiesta dell’Occrp ricostruisce minuziosamente il funzionamento del sistema, analizzando migliaia di documenti relativi alle richieste di dollari presentate dalle banche irachene. Emerge un quadro sconcertante di frodi sistematiche, con fatture false, società di comodo e trasferimenti sospetti che avrebbero dovuto far scattare mille campanelli d’allarme. Prendiamo il caso della United Bank for Investment (Ubi): in un solo mese, l’aprile del 2012, ha ottenuto 315 milioni di dollari sulla base di richieste che per il 99 per cento mostravano chiari segni di frode. Fatture gonfiate, documenti doganali mancanti, società esportatrici inesistenti. E soprattutto, i soldi non finivano mai ai presunti fornitori, ma venivano dirottati su conti di cambiavalute in Giordania o di misteriose società offshore. Almeno 28 milioni di dollari sono finiti nelle casse di una società che secondo gli Usa gestiva i fondi di Sa’id Ahmad Muhammad al-Jamal, un finanziere iraniano sanzionato per aver fornito «decine di milioni di dollari agli Houthi» dello Yemen. Altri milioni sono andati direttamente nelle tasche del presidente di Uni e di suo fratello.

https://www.occrp.org/en/investigation/iraqs-dollar-auction-the-monster-funneling-billions-to-fraudsters-and-militants-through-the-us-federal-reserve
Dinari iracheni (Getty Images).

Il fiume di denaro ha alimentato gruppi come l’Isis, le milizie filo-iraniane, il regime di Assad

E non si tratta di casi isolati. L’inchiesta documenta lo stesso modus operandi per decine di banche irachene, che hanno drenato miliardi di dollari dal sistema con la complicità delle autorità di Baghdad. Un fiume di denaro che ha alimentato per anni gruppi come l’Isis, le milizie sciite filo-iraniane, il regime siriano di Assad. «Le milizie che ora gestiscono l’Iraq si sono costruite utilizzando i finanziamenti forniti dalle aste in dollari», sintetizza Michael Knights, esperto del Washington Institute. «Gli Stati Uniti sono stati molto lenti nell’agire». Ma perché Washington ha chiuso gli occhi così a lungo?

La priorità per gli Usa era mantenere stabile il dinaro iracheno 

Le spiegazioni fornite dagli ex funzionari Usa intervistati dall’Occrp sono un miscuglio di miopia strategica, superficialità e cinico realismo. C’è chi ammette candidamente che la priorità era mantenere stabile il dinaro iracheno, chi sostiene che l’attenzione era tutta concentrata sulla lotta all’Isis, chi dice che semplicemente non si erano resi conto della portata del problema. Il risultato è che per quasi 20 anni gli Usa hanno di fatto finanziato indirettamente i propri nemici, riversando miliardi di dollari in un sistema che sapevano essere corrotto fino al midollo. Solo ultimamente la Federal Reserve ha iniziato a escludere alcune banche dall’asta del dollaro, ma il meccanismo di base non è mai stato realmente riformato. D’altronde, conclude sarcasticamente Stuart Bowen, ex supervisore dei fondi Usa per la ricostruzione dell’Iraq, «abbiamo creato il mostro e poi abbiamo detto: non è il nostro mostro!». Peccato che quel mostro continui a mietere vittime, anche americane.

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Via della seta europea, le multinazionali ringraziano

L’Europa si veste da Babbo Natale ma i pacchi li consegna solo alle sue grandi aziende. È questa la fotografia che emerge dall’ultimo rapporto di Oxfam sul Global Gateway, la strategia dell’Ue per gli investimenti e lo sviluppo globale. Lanciata nel 2021 come alternativa “democratica e trasparente” alla Via della Seta cinese, il Global Gateway dovrebbe mobilitare fino a 300 miliardi di euro entro il 2027 per progetti di sviluppo nel Sud del mondo. Peccato che dietro la retorica dei “valori europei” si nasconda una realtà ben diversa.

Secondo l’analisi di Oxfam, oltre il 60% dei progetti finanziati dalla via della Seta europea andrà a beneficio di almeno un’azienda europea. Su 40 progetti esaminati, 25 sosterranno colossi del Vecchio Continente come Siemens, Moller Group o Suez. Solo il 16% degli investimenti riguarderà settori chiave per lo sviluppo come sanità, istruzione e ricerca.

Il volto nascosto del Global Gateway: “Profitti privati con fondi pubblici”

Ma non è tutto. Almeno sette aziende che fanno parte del Global Gateway Business Advisory Group – il gruppo di “esperti” istituito dalla Commissione europea – hanno già firmato contratti finanziati con i fondi del programma. Un bel conflitto di interessi, non c’è che dire.

Il quadro che emerge tradisce le regole europee, dato che la principale fonte di finanziamento del Global Gateway è il budget comunitario per gli aiuti allo sviluppo. Fondi che, sulla carta, dovrebbero essere impiegati per “ridurre ed eliminare la povertà nel lungo termine”. Certamente non per ingrassare i bilanci delle multinazionali europee.

“Esiste il rischio concreto che il bilancio degli aiuti dell’Ue venga destinato più alla difesa degli interessi geopolitici ed economici europei, che alla lotta alla povertà e alla promozione dello sviluppo sostenibile”, denuncia Francesco Petrelli di Oxfam Italia. Insomma, il Global Gateway rischia di “alimentare i profitti delle imprese con i soldi dei contribuenti europei”.

Ma non è solo una questione di soldi. Il rapporto evidenzia anche l’opacità della strategia, con una preoccupante mancanza di informazioni su progetti, finanziamenti e valutazioni d’impatto. Difficile stabilire in che misura il Global Gateway contribuisca davvero allo sviluppo sostenibile.

C’è poi il rischio che questa strategia accresca le disuguaglianze in molti Paesi fragili. In Perù, ad esempio, uno dei progetti individuati incoraggia le famiglie più povere a sottoscrivere mutui per l’acquisto di proprietà agricole, con il rischio di indebitarle ulteriormente e spingerle ancora più in povertà.

Non va meglio sul fronte del debito. L’Ue avvierà progetti del Global Gateway in 29 dei 37 Paesi poveri più indebitati del mondo, privilegiando i prestiti rispetto alle sovvenzioni. Una scelta che rischia di ridurre ulteriormente la capacità dei governi di soddisfare i bisogni della popolazione.

Via della seta europea, sviluppo sostenibile o nuova forma di sfruttamento?

Insomma, dietro la retorica dello “sviluppo sostenibile” si nasconde una strategia che sembra più orientata a creare nuovi mercati per le aziende europee che a combattere povertà e disuguaglianze. Una beffa per i contribuenti europei e soprattutto per le popolazioni dei Paesi destinatari degli “aiuti”.

Per questo Oxfam chiede una revisione radicale del Global Gateway, a partire da una maggiore trasparenza e da un vero coinvolgimento dei Paesi partner e della società civile. Serve un cambio di rotta, per trasformare questa strategia in un reale strumento di sviluppo e non in un’autostrada per i profitti delle multinazionali europee.

Ma siamo sicuri che Bruxelles ascolterà? O continuerà a nascondere dietro nobili intenti una politica di stampo neocoloniale? Ai posteri l’ardua sentenza. Nel frattempo, il Sud del mondo aspetta ancora quegli aiuti promessi. Quelli veri, però.

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La grande paralisi dell’Ue: così l’Europa si è autocongelata nel 2024

L’Unione europea è impantanata in una palude di inazione e attesa. Il 2024 si sta rivelando un anno di stagnazione politica, con Bruxelles che sembra aver dimenticato il significato della parola “urgenza”. Mentre il mondo corre e le crisi si moltiplicano, l’Ue si concede il lusso di fermarsi, paralizzata dalle sue stesse procedure e dal timore reverenziale verso le prossime elezioni tedesche.

La macchina burocratica in stallo: un’Ue in attesa

Le elezioni europee hanno consumato la prima metà dell’anno, con la macchina burocratica di Bruxelles che si è praticamente fermata. Ursula von der Leyen, rieletta presidente della Commissione europea, ha impiegato mesi per ottenere l’approvazione del Parlamento. Ora, con un ritardo imbarazzante, si attende che la sua squadra di 26 commissari prenda finalmente posto il 1° dicembre, giusto in tempo per le vacanze natalizie.

Un diplomatico europeo, celato dall’anonimato, a Politico non ha potuto fare a meno di lamentarsi: “Il minimo che avremmo potuto fare era avere una nuova Commissione europea in carica prima delle elezioni americane”. Intanto le sorti dell’Ucraina e il futuro degli aiuti statunitensi pendono dal filo delle elezioni presidenziali USA di novembre.

Mentre l’Ue si perde in bizantinismi il Cremlino annuncia un aumento del 25% della spesa per la difesa nel 2025, portandola a livelli mai visti dal crollo dell’Unione Sovietica. Kiev, nel frattempo, lotta per trovare uomini e munizioni, con una rete elettrica devastata che richiede una ricostruzione urgente prima dell’inverno.

L’ombra di Berlino: come la Germania tiene in scacco l’Ue

Ma il vero colpo di grazia all’efficienza europea potrebbe arrivare dalla Germania. La locomotiva economica del continente si trova politicamente paralizzata in vista delle elezioni del settembre 2025. Decisioni cruciali sul bilancio dell’Ue e su eventuali emissioni di debito comune sono rinviate sine die, in attesa che Berlino si decida.

La proposta per il prossimo bilancio settennale dell’Ue, che dovrebbe coprire il periodo dal 2028 in poi, rischia di essere posticipata fino a dopo le elezioni tedesche. Un ritardo che potrebbe avere ripercussioni su tutto, dall’agricoltura al sostegno all’Ucraina.

“Tutti sono in modalità di attesa e, proprio quando pensi che possiamo iniziare, l’attenzione si sposterà su Berlino”, dicono a Bruxelles. La Germania, con la sua ossessione per il rigore fiscale, tiene in ostaggio l’intera Unione, incapace di prendere decisioni su un bilancio europeo più ampio o sull’emissione di debito comune.

L’Europa paralizzata: c’è pure il nodo migratorio

Sul fronte migratorio, l’Ue continua a dibattersi tra posizioni contrastanti. Mentre la Spagna di Pedro Sánchez si batte per una politica migratoria più aperta, dichiarando che “noi spagnoli siamo figli della migrazione, non saremo i genitori della xenofobia”, il resto d’Europa sembra muoversi nella direzione opposta. I ministri dell’Interno dell’Ue discutono di una nuova direttiva rimpatri più restrittiva e di “hub di rimpatrio” in paesi terzi, una soluzione che la stessa Commissione europea aveva bocciato nel 2018 come giuridicamente impossibile e contraria al principio di non respingimento. Ma i tempi sono cambiati, e con essi le priorità politiche.

In questo scenario di immobilismo c’è chi si chiede cosa potrebbe mai scuotere l’Ue dall’inazione. Secondo Mujtaba Rahman del gruppo Eurasia, solo un’uscita degli Stati Uniti dalla Nato potrebbe galvanizzare l’Europa a cercare un finanziamento comune per la sicurezza e la difesa europee. “La crisi dovrebbe essere esistenziale”, ha affermato Rahman, sottolineando quanto sia alta la soglia per spingere l’Ue all’azione.

Mentre il mondo cambia a velocità vertiginosa l’Unione Europea sembra intrappolata in un limbo di indecisione e timori. Se l’Ue non troverà presto il coraggio di agire, rischia di diventare un attore irrilevante sulla scena mondiale, condannata a reagire tardivamente agli eventi invece di plasmarli.

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Illegittima difesa

È andata male a coloro che confidavano in una veloce immersione della notizia. Non hanno fatto in tempo a placarsi le polemiche e Israele l’ha fatto nuovo. Le basi italiane della missione Unifil nel sud del Libano sono state nuovamente prese di mira dall’esercito israeliano. Secondo qualificate fonti di sicurezza che seguono il dossier e sono in contatto con i vertici della missione dell’Onu, l’attacco è avvenuto alla base 1-31 – già colpita nei giorni scorsi – e sono stati abbattuti due muri di demarcazione della base. A questo si aggiungono due soldati Unifil feriti in due esplosioni. 

Ora che a rischiare la pelle ci sono i nostri soldati il ministro Crosetto e gli uomini di maggioranza hanno deciso di rinnamorarsi del diritto internazionale. L’esercito di Netanyahu fa quello che gi viene benissimo in tempo di guerra: mente. Nelle ultime 48 ore ha detto di avere colpito la base dei caschi blu perché da quelle parti si anniderebbero i terroristi. Poi ha spiegato alla comunità internazionale di avere compiuto un “errore”. Poi ha vivacemente consigliato all’Onu di lasciare il sud del Libano per avere mano libera. 

L’Idf, il braccio armato del premier israeliano Netanyahu, ritiene il diritto internazionale e la salvaguardia delle vite umane una fastidiosa burocrazia che rallenta la loro vendetta travestita da legittima difesa. Così mentre il Medio Oriente è in fiamme anche ai più sfegatati bellicisti viene il dubbio che la guerra sia pericolosa per quelli che la subiscono, più di quelli che la fanno. 

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