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Da ‘legittima difesa’ a ‘crimine’: il doppio standard dell’opinione pubblica

L’attacco dell’esercito israeliano alle basi Unifil, la missione dell’Onu al sud del Libano, smaschera l’ipocrisia. 

Il fato che Israele abbia aperto il fuoco contro la base UNP 1-31 sulla collina di Labbune, nell’area di responsabilità dell’Italia che nel sud del Libano schiera oltre mille militari non è un’azione diversa dagli irresponsabili colpi che l’esercito di Netanyahu ha sparato in questo ultimo anno, trasformando una presunta legittima difesa in una vendetta utile a un disegno politico che ha radici antiche.

L’indignazione che leggiamo questa mattina sui giornali è figlia dell’empatia sovranista che in tempi di guerra infetta anche alcuni insospettabili: se a rischiare la vita sono soldati “nostri” allora ciò che prima era collaterale, bellicamente ragionevole e difensivo, diventa un crimine di guerra. 

Se a essere colpite sono della basi Onu – dopo gli ospedali, le scuole, le sedi giornalistiche, gli uffici umanitari – il diritto internazionale diventa improvvisamente un comandamento inderogabile. 

Ipocritamente anche la difesa del dissennato attacco è sempre la stessa: pure le basi Onu – come gli ospedali, le scuole, le sedi giornalistiche, gli uffici umanitari – diventano un “nascondiglio dei terroristi”. Quindi i soldati italiani sono il Libano a fiancheggiare i terroristi, secondo Israele. Chissà anche di questo che ne pensa il ministro Crosetto. 

Per molti invece quella di ieri è stata una giornata perfettamente in linea con l’agire dell’esercito israeliano.

Buon venerdì.

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Il Nobel per la pace? Non diamolo a nessuno

Il toto Nobel per la pace è partito. Qualcuno che si atteggia da bene informato sussurra che l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi (UNRWA), la Corte internazionale di giustizia e il segretario generale delle Nazioni Unite Antonio Guterres siano tra i favoriti per il premio Nobel per la pace 2024.

Per la sua attività in favore delle popolazioni colpite dai conflitti buone chance di vittoria sono attribuite all’UNRWA e al suo alto commissario Philippe Lazzarini. Un premio all’Unrwa riaccenderebbe evidentemente gli animi di chi osteggia le accuse di Israele contro l’agenzia, le stesse che avevano bloccato i finanziamenti di molti paesi, poi ripristinati dopo i risultati di inchieste indipendenti.

Un Nobel per l’Onu e al suo segretario Guterres aprirebbe la polemica sulla Corte internazionale di giustizia che ha condannato l’invasione su vasta scala dell’Ucraina da parte della Russia e ha chiesto a Israele di garantire che non venga commesso alcun genocidio a Gaza in un caso presentato dal Sudafrica, ancora in corso, che Israele ha ripetutamente respinto come infondato.

Qualcuno vorrebbe il presidente ucraino Zelensky, altri spingono per un Nobel postumo al dissidente russo Alexei Navalny, morto in una colonia penale artica a febbraio. Tra i papabili ci sarebbero anche l’Unesco e il Consiglio d’Europa.

Le guerre, i massacri, la vigliaccheria internazionale e i morti intanto continuano. Non c’è stata pace in questo 2024 che è l’anno dell’incitamento alla guerra. Anzi, per il Nobel della guerra verrebbero in mente facilmente alcuni nomi.

Allora fate una bella cosa, non assegnatelo il Nobel per la pace. È accaduto altre 19 volte (durante la Prima guerra mondiale, nel primo dopoguerra, durante la Seconda guerra mondiale, negli anni della Guerra fredda e della Guerra del Vietnam). Fatelo ancora.

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Una bambina su cinque vittima di violenze, allarme shock dell’Unicef

L’11 ottobre segna la Giornata mondiale delle bambine e delle ragazze e come accade quando si allarga lo sguardo i numeri messi insieme fanno impressione. I dati emersi dal rapporto InDifesa di Terre des Hommes e dalle stime dell’Unicef fotografano un quadro allarmante, evidenziando come la strada verso la parità di genere sia ancora lunga e impervia.

Secondo il dossier InDifesa 2024, oltre 3,1 miliardi di bambine e ragazze vivono in paesi dove i loro diritti umani non sono adeguatamente tutelati. Questo numero impressionante rappresenta più della metà della popolazione femminile mondiale e sottolinea l’urgenza di interventi mirati e sostanziali.

Le violazioni dei diritti delle bambine assumono forme diverse e spesso sovrapposte. Tra le più gravi emergono i matrimoni forzati, le gravidanze precoci, la violenza sessuale e le mutilazioni genitali femminili. Quest’ultima pratica, nonostante gli sforzi per eradicarla, continua a colpire circa 4 milioni di bambine e ragazze ogni anno. Complessivamente, sono oltre 230 milioni le donne sopravvissute a mutilazioni genitali che ne subiscono le conseguenze, con 144 milioni solo in Africa.

L’istruzione, fondamentale per l’emancipazione femminile, rimane un miraggio per troppe. Sono 122 milioni le bambine e le ragazze che non frequentano la scuola, con più della metà concentrate nell’Africa sub-sahariana. In Afghanistan, la situazione è particolarmente critica, con il divieto imposto alle ragazze di oltre 12 anni di accedere all’istruzione.

Il matrimonio precoce continua a essere una piaga diffusa. Circa 640 milioni di donne tra i 20 e i 24 anni si sono sposate da minorenni, con la metà di questi casi concentrati nell’Asia meridionale. Sebbene si registrino progressi in alcune aree, fattori come la pandemia e i cambiamenti climatici hanno esacerbato le condizioni di vulnerabilità in molti paesi.

La violenza sessuale emerge come una delle violazioni più devastanti. L’Unicef rivela che oltre 370 milioni di ragazze e donne in vita – una su otto – hanno subito stupri o violenze sessuali prima dei 18 anni. Includendo le forme di abuso “senza contatto”, come molestie online o verbali, il numero sale a 650 milioni, ovvero una su cinque.

L’Africa subsahariana risulta la regione più colpita, con 79 milioni di vittime, seguita dall’Asia orientale e sudorientale con 75 milioni. In contesti fragili, caratterizzati da istituzioni deboli o crisi politiche, il rischio per le bambine aumenta drammaticamente, con una su quattro che subisce violenze sessuali durante l’infanzia.

Il fenomeno non risparmia i maschi: si stima che tra 240 e 310 milioni di ragazzi e uomini abbiano subito abusi sessuali da bambini, un numero che sale a 410-530 milioni considerando anche le forme senza contatto fisico.

In Italia, la situazione, seppur migliore rispetto a molti paesi in via di sviluppo, presenta criticità significative. Nel 2023 sono stati registrati 6.952 reati ai danni di minori, con un aumento del 34% rispetto al 2013. Le bambine e le ragazze rappresentano il 61% delle vittime, percentuale che sale nei casi di violenza sessuale e reati correlati.

Preoccupa anche il crescente disagio psicologico tra i giovani, in particolare tra le ragazze. Il 52% delle adolescenti italiane ritiene che la pandemia abbia avuto un impatto negativo sulla propria salute mentale, contro il 31% dei coetanei maschi.

Sul fronte della parità di genere, l’Italia ha peggiorato la sua posizione nella classifica globale, scendendo all’87° posto. Persistono disparità significative nell’ambito lavorativo, con quasi una donna su due che non lavora, e nello sport, dove le ragazze partecipano meno dei coetanei maschi.

Le soluzioni? Le solite. Serve sfidare e cambiare le norme sociali e culturali che permettono il perpetuarsi di queste violazioni, fornire ai bambini gli strumenti per riconoscere e denunciare gli abusi, e garantire servizi di supporto adeguati per le vittime.

Inoltre, è fondamentale rafforzare le leggi a tutela dei minori e investire in sistemi di raccolta dati più efficienti per monitorare i progressi e assicurare una maggiore responsabilità.

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Il generale delle gaffe: Vannacci inciampa sulle leggi per la cittadinanza

Nel circo politico italiano, Roberto Vannacci ancora una volta si distingue per la sua capacità di elevare la gaffe a disinformazione. L’ultimo capolavoro del neo-europarlamentare leghista è andato in scena a Pontida, dove ha regalato al suo pubblico una lezione magistrale su come parlare di leggi sulla cittadinanza senza avere la minima idea di cosa stesse parlando. 

La lezione di geografia creativa di Vannacci

Vannacci, con la solita sicumera, ha dichiarato: “Chi è che vi dà la cittadinanza Il Marocco forse se la chiedete? La Libia Il Bangladesh? La Nigeria No, non ve la concedono, e quindi non c’è motivo affinché noi la regaliamo agli altri”. Un’affermazione che sarebbe stata brillante, se solo Carlo Canepa di Pagella Politica, evidentemente afflitto dalla malsana abitudine di verificare i fatti prima di parlare, non avesse avuto la pazienza di smontare la perla di saggezza vannacciana scoprendo che in tutti i paesi citati dal generale esistono leggi che prevedono la concessione della cittadinanza agli stranieri. Che sorpresa.

In Marocco, ad esempio, un bambino nato da genitori stranieri può ottenere la cittadinanza se i genitori sono nati nel paese. La legge marocchina offre anche una seconda possibilità: chiunque nasca in Marocco da un padre straniero a sua volta nato in Marocco può chiedere la cittadinanza marocchina se il padre proviene da un Paese in cui la maggioranza della popolazione parla l’arabo e in cui la religione più diffusa è l’Islam. Inoltre, uno straniero può ottenere la cittadinanza del Marocco per “naturalizzazione” dopo cinque anni di residenza regolare, dimostrando una sufficiente conoscenza della lingua araba e mezzi di sostentamento adeguati.

La Libia richiede dieci anni di residenza per la naturalizzazione. In Nigeria, la cittadinanza per naturalizzazione richiede 15 anni di residenza, ma questo periodo può ridursi a 12 mesi se nei vent’anni precedenti si è vissuto in Nigeria per un periodo complessivo non inferiore a 15 anni. Il Bangladesh chiede cinque anni di residenza, una buona conoscenza del bengalese e l’intenzione di rimanere nel paese dopo l’ottenimento della cittadinanza. 

I dati evidenziano non solo l’imprecisione delle affermazioni di Vannacci ma anche la complessità delle dinamiche migratorie e delle politiche di cittadinanza. Le leggi sulla naturalizzazione nei paesi citati, lungi dall’essere inesistenti come sostenuto da Vannacci, riflettono una varietà di approcci e requisiti.

L’analisi comparativa rivela anche che questi paesi, pur avendo leggi sulla cittadinanza meno liberali rispetto ad alcuni stati europei, non chiudono completamente le porte agli stranieri. Al contrario, offrono percorsi, seppur talvolta complessi, per l’integrazione legale degli immigrati di lungo periodo.

Numeri che parlano: la realtà contro la retorica

In Italia vivono 415 mila marocchini, 124 mila nigeriani e 174 mila bangladesi. Ma ci sono anche italiani che hanno fatto il viaggio al contrario. In Marocco sono 6.101, in Nigeria 840 e in Bangladesh 531.

Ma Vannacci non è solo in questa crociata contro la realtà. Il ministro Piantedosi, non molto tempo fa, ha dichiarato che nessun paese europeo applica lo ius scholae dimenticando paesi come Grecia, Portogallo, Lussemburgo e Slovenia abbiano forme di ius scholae nelle loro leggi sulla cittadinanza.

Ogni giorno il dibattito (bassissimo) sulla cittadinanza svela il lato peggiore della propaganda. 

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Meloni & C. nel mirino: accesso abusivo ai conti della premier, della sorella e di altri politici, magistrati e vip

Il quotidiano Domani ha svelato l’ennesimo caso di dossieraggio che coinvolge i vertici delle istituzioni italiane. Questa volta a finire sotto la lente d’ingrandimento sono i conti correnti della premier Giorgia Meloni, di sua sorella Arianna e di numerosi altri esponenti politici e istituzionali di primo piano.

Secondo quanto emerso, un dipendente di una banca avrebbe effettuato migliaia di accessi abusivi ai conti correnti di politici, magistrati, imprenditori e personaggi dello spettacolo. L’ex bancario, ora licenziato, è al centro di un’indagine della Procura di Bari che potrebbe avere sviluppi clamorosi.

Lo scandalo in numeri: migliaia di accessi abusivi ai conti dei potenti

I numeri forniti da Domani sono impressionanti: quasi 7.000 accessi non autorizzati realizzati tra il febbraio 2022 e l’aprile 2024, per un totale di oltre 3.500 clienti “spiati” in 679 filiali sparse su tutto il territorio nazionale. Un’attività sistematica e capillare, dunque, che solleva interrogativi sulle reali finalità di questa massiccia raccolta di informazioni riservate.

Tra i nomi eccellenti finiti nel mirino del funzionario infedele figurano, oltre alla premier Meloni e a sua sorella Arianna, il ministro della Difesa Guido Crosetto, la ministra del Turismo Daniela Santanchè, il presidente del Senato Ignazio La Russa e l’ex compagno della Meloni, Andrea Giambruno. Ma la lista comprende anche governatori regionali come Michele Emiliano e Luca Zaia, alti magistrati come il procuratore nazionale antimafia Giovanni Melillo, oltre a imprenditori, sportivi e militari di cui non sono stati resi noti i nomi.

L’inchiesta è partita quasi casualmente grazie alla segnalazione di un correntista di Bitonto (Bari) che aveva notato anomalie negli accessi al proprio conto. Da lì sono scattati gli accertamenti interni di Intesa Sanpaolo, che hanno portato al licenziamento del dipendente l’8 agosto scorso e alla successiva denuncia alle autorità competenti.

Ora gli inquirenti baresi stanno cercando di far luce sui reali obiettivi di questa imponente attività di spionaggio finanziario. Al momento non è chiaro se il funzionario abbia agito per mera curiosità personale o se dietro ci siano finalità più complesse, come la ricerca di informazioni sensibili da utilizzare per scopi non ancora identificati.

La vicenda solleva nuovamente l’attenzione sulla sicurezza dei dati sensibili dei cittadini, dopo i recenti casi di accessi abusivi alle banche dati delle forze dell’ordine e della magistratura. Un problema che sembra assumere dimensioni sempre più ampie, mettendo in evidenza potenziali vulnerabilità nei sistemi di protezione delle informazioni riservate.

Reazioni e indagini: la risposta delle istituzioni e della banca

La reazione della premier Meloni non si è fatta attendere. Con un post sui social ha commentato: “Dacci oggi il nostro dossieraggio quotidiano”, a sottolineare come episodi del genere stiano diventando sempre più frequenti. Una battuta che evidenzia la preoccupazione per un fenomeno che sembra aver preso di mira in modo particolare gli esponenti dell’attuale governo.

Dal canto suo, l’istituto bancario ha precisato in una nota di aver “tempestivamente adottato le opportune iniziative disciplinari” nei confronti del dipendente, sottolineando come il comportamento anomalo sia stato individuato grazie ai sistemi di controllo interni della banca. Ed ha inoltre assicurato il proprio impegno a “evolvere i sistemi nell’ottica di garantire la massima protezione dei dati della clientela”.

Il caso si inserisce in un contesto già caratterizzato dalle polemiche sui presunti dossieraggi ai danni di politici ed imprenditori, oggetto di diverse inchieste giudiziarie. Tra queste, spicca l’indagine in corso a Perugia per accesso abusivo alle banche dati, legata a operazioni sospette della Uif (Unità di Informazione Finanziaria). Una vicenda complessa che ha visto recentemente l’audizione del ministro Crosetto al Copasir, dopo la sua denuncia sulla pubblicazione di notizie coperte da segreto a suo carico.

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85, bastano per tornare a discuterne?

Forse il giornalismo – quello che si promette di raccontare il suo tempo – oltre a sfrucugliare nel sacchetto dell’umido per darci in pasto i particolari macabri dalla bocca di Filippo Turetta potrebbe dirci dello squarcio nei figli di Eleonora Toci. Loro ieri hanno dovuto mostrare alla zia il cadavere della madre strangolata dal padre, con il telefono in mano. 

Oppure potrebbero concentrarsi sullo strazio di Maria Arcangela Turturo, 60 anni, che quattro giorni fa ha usato gli ultimi respiri per raccontare a sua figlia di essere stata bruciata e poi soffocata dal marito Giuseppe Lacarpia, 65 anni lì belli in mostra a smentire il testosterone come movente. 

Cinque giorni fa è stata ammazzata Letizia Girolami, 72 anni, trovata morta in un casolare spettrale. È stata uccisa dall’ex compagno della figlia, un altro uomo incapace di fare i conti con la fine di una relazione. 

Il 26 settembre il corpo senza vita di Maria Campai, 42 anni, è stato trovato a Viadana, un comune della provincia di Mantova.‍ Il ragazzo che l’ha uccisa si è lamentato per una prestazione sessuale che non valeva i soldi pattuiti. Quello stesso giorno a Tarzo, nei pressi di Treviso, è stata ammazzata Cesira Bianchet. 

Due ammazzate anche il giorno prima, il 25 settembre, Giusi e Martina Massetti erano madre e figlia. Roberto Gleboni, 52 anni, ha sparato a tutti i membri della sua famiglia prima di uccidersi. Morto anche il figlio Francesco e un vicino di casa. 

Tra il 22 e il 24 settembre ne sono state ammazzate tre: Loretta Levrini, Antonella Lopez e Rosa Nabi. Sono 85 donne uccise dall’inizio dell’anno, secondo il Viminale 65 sono femminicidi. Bastano per tornare a discuterne?

Buon giovedì. 

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Tagli al lavoro in carcere, altro che rieducazione

Da quando è diventato ministro della giustizia Carlo Nordio ha ripetuto che il lavoro in carcere è fondamentale per il reinserimento sociale delle persone detenute e per abbassare il tasso di recidiva. Essendo ministro ci si aspetterebbe quindi che nel corso del suo mandato abbia agito alla stregua delle sue parole. Dovrebbe accadere così: chi governa illustra le sue priorità e poi agisce di conseguenza. Dovrebbe essere semplice, lineare. E invece no. In una nota del Provveditorato Regionale del Piemonte, Liguria e Valle D’Aosta si legge infatti come il fabbisogno rilevato per mantenere i tassi di occupazione fosse di 2 milioni di euro, mentre dal Ministero della Giustizia è stato erogato meno del 50% di questo fabbisogno. Per questo, il Prap, ha invitato le direzioni degli istituti a tagliare il numero di persone lavoranti o comunque di ridurre le ore di lavoro che le stesse svolgono.

Questi tagli potranno colpire peraltro categorie specifiche di lavoratori: quelli che prestano assistenza ad altri detenuti disabili o non pienamente autosufficienti, o quelli a supporto dell’area pedagogica (bibliotecari e scrivani). A lavorare in carcere è solo circa il 30% delle persone detenute e la maggior parte di esse lavora alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria, peraltro in molti casi già per pochi giorni o poche ore alla settimana. Il guadagno che si ottiene serve a garantire un ritorno in libertà dove si abbiano a disposizione un minimo di risorse per far fronte alle spese, comprese quelle del mantenimento che ogni persona detenuta deve versare allo Stato a fine pena. Quelli dell’associazione Antigone si chiedono come il ministro possa smentirsi facendo tutto da solo. È una buona domanda.

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Generazione in crisi: il crollo della salute mentale dei giovani italiani

Il 10 ottobre ricorre la Giornata mondiale della salute mentale, un’occasione per esaminare i dati sul benessere psicologico delle nuove generazioni. L’analisi di Openpolis offre un quadro dettagliato della situazione in Italia.

L’indice di salute mentale tra gli adolescenti italiani (14-19 anni) è sceso a 71 nel 2023, rispetto al 72,6 dell’anno precedente. Questo calo evidenzia come i livelli pre-Covid non siano ancora stati recuperati. Il dato è particolarmente significativo se confrontato con la media della popolazione: il divario emerso durante la pandemia non sembra colmarsi.

Il divario di genere: una ferita aperta nella salute mentale giovanile

Il report mette in luce un marcato divario di genere: tra le adolescenti l’indice di salute mentale si attesta a 67,4, circa 7 punti in meno rispetto ai coetanei maschi (74,3). Questa differenza, sebbene presente in tutte le fasce d’età, risulta particolarmente accentuata tra i più giovani.

Il contesto familiare gioca un ruolo cruciale. Openpolis riporta che solo il 42% delle ragazze in Veneto ed Emilia-Romagna dichiara di ricevere un elevato supporto familiare, una percentuale ben al di sotto della media nazionale. Al contrario, oltre due terzi degli studenti maschi della provincia autonoma di Bolzano (71,7%), della Valle d’Aosta (66,5%) e della Puglia (66,2%) dichiarano di sentirsi fortemente supportati dalla famiglia.

Scuola e social media: i nuovi fronti della crisi

La scuola rappresenta un altro fattore chiave. Circa il 60% degli studenti intervistati dichiara di sentirsi molto o abbastanza stressato dall’ambiente scolastico, una percentuale in aumento rispetto alla rilevazione del 2017/18. Il picco si raggiunge tra le ragazze 15enni: quasi l’80% riporta livelli elevati di stress legato alla scuola.

L’uso dei social media emerge come un altro aspetto critico. Il 13,5% degli adolescenti mostra un uso problematico di queste piattaforme, con punte del 20,5% tra le ragazze di 13 anni e del 18,5% tra quelle di 15. La Campania guida questa classifica, con il 16% degli adolescenti che fa un uso problematico dei social, seguita da Calabria e Puglia con quote poco inferiori al 15%.

Openpolis sottolinea l’importanza di una rete sociale e di servizi su cui fare affidamento. Durante la pandemia, la presenza di reti sociali, sanitarie ed educative capaci di collaborare in modo sinergico ha rappresentato un fattore protettivo per il benessere dei ragazzi.

Tuttavia, il sistema attuale mostra diverse criticità. I centri di assistenza di neuropsichiatria infantile e adolescenziale non sono presenti in tutte le regioni. Nel 2022, questi centri erano articolati in 58 strutture residenziali e 53 semiresidenziali. Inoltre, a fronte di un fabbisogno stimato di 700 posti letto nei reparti di neuropsichiatria dell’infanzia e dell’adolescenza, attualmente ne sono disponibili solo circa 400.

Il fenomeno dei giovani neet (Not in Education, Employment or Training) è un altro indicatore significativo. Nel 2020, l’Italia ha registrato il 23,3% di neet nella fascia 15-29 anni, il dato più alto nell’Unione Europea. Questo fenomeno è particolarmente accentuato nelle regioni del mezzogiorno: Sicilia (37,5%), Calabria (34,6%) e Campania (34,5%) mostrano le percentuali più elevate.

L’indagine sui comportamenti collegati alla salute in ragazzi di età scolare (HBSC), promossa dall’OMS e condotta in Italia dall’Istituto Superiore di Sanità, fornisce ulteriori dati. Nel 2022, sono state campionate oltre 6.000 classi in tutte le regioni italiane, offrendo una panoramica dettagliata su vari aspetti della salute e del benessere dei giovani.

I dati mostrano che al crescere dell’età, diminuisce la facilità con cui ragazze e ragazzi riescono ad aprirsi con i genitori. Tra i 15enni, solo il 51,8% delle ragazze dichiara di ricevere un elevato supporto familiare, contro il 60,7% dei coetanei maschi.

Per quanto riguarda la scuola, il 61,8% dei 15enni si sente accettato dagli insegnanti, ma solo il 35,4% percepisce un interesse da parte dei docenti. Due su tre (66,6%) si sentono accettati per come sono dai compagni di classe.

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Dazi sul brandy, cosa c’è dietro la nuova guerra fredda economica tra Ue e Cina

Nell’escalation di tensioni commerciali che sta assumendo i contorni di una vera e propria guerra economica, la Cina ha sferrato un colpo diretto al cuore dell’industria europea del lusso. Il ministero del Commercio cinese ha annunciato che dall’11 ottobre imporrà dazi anti-dumping sulle importazioni di brandy dall’Unione europea, in quella che appare come una chiara ritorsione dopo la decisione di Bruxelles di imporre tariffe sui veicoli elettrici made in China.

Le bottiglie di Martell, Remy Martin, Hennessy e Nonino si troveranno improvvisamente gravate da un’aliquota che oscilla tra il 30,6% e il 39% al loro ingresso nel mercato cinese. Un colpo basso che mira dritto al portafoglio dei produttori europei ma soprattutto un messaggio inequivocabile: la Cina non ha intenzione di subire passivamente le politiche protezionistiche dell’Ue.

La Cina alza i calici: una mossa strategica oltre l’alcol

Il cambio di azione di Pechino, che solo poche settimane fa aveva rassicurato sul fatto che non avrebbe imposto dazi sul brandy europeo, segna un punto di non ritorno nelle relazioni commerciali sino-europee. Ma c’è di più: il dragone non sembra intenzionato a fermarsi qui. Il Ministero del Commercio ha già fatto sapere che, per “proteggere i legittimi diritti delle industrie e delle aziende cinesi” potrebbe estendere la sua rappresaglia ad altri settori chiave dell’export europeo, come l’automotive, la carne suina e i prodotti lattiero-caseari.

Dieci paesi dell’Ue hanno votato a favore dei dazi sulle auto cinesi, tra cui Paesi Bassi, Italia e Polonia, e ora rischiano di essere più esposti alle ritorsioni della Cina. Germania e Ungheria, d’altra parte, erano tra i cinque paesi che hanno votato contro l’iniziativa europea. 

Bruxelles in hangover: la risposta tiepida dell’Ue

Di fronte a questa escalation la reazione di Bruxelles appare sorprendentemente tiepida. Il commissario agli Affari economici, Paolo Gentiloni, ha dichiarato con nonchalance: “Non siamo mai preoccupati”. Una frase che suona più come un wishful thinking che come una reale valutazione della situazione. Gentiloni ha poi aggiunto: “Abbiamo preso decisioni appropriate e molto proporzionate. Non penso che ci sia alcuna ragione di reagire a questa decisione proporzionata con una ritorsione”. Parole che sembrano ignorare la portata della sfida lanciata da Pechino.

La Commissione europea ha annunciato che ricorrerà all’Organizzazione Mondiale del Commercio contro i dazi cinesi su brandy e cognac, dichiarando di essere “determinata a difendere l’industria dell’Ue contro l’abuso degli strumenti di difesa commerciale”. Una mossa che, seppur necessaria, rischia di apparire come un mero esercizio burocratico di fronte alla rapidità e all’incisività dell’azione cinese.

La guerra dei dazi sul cognac non è solo una questione di alcolici di lusso. È il sintomo di un conflitto più profondo che vede contrapposte due visioni del commercio internazionale: da un lato, l’approccio pragmatico e aggressivo della Cina, dall’altro, l’ideale europeo di un mercato globale regolato e “fair”. Il rischio è che, mentre l’Ue si attarda in discussioni su regole e procedure, la Cina continui a guadagnare terreno, imponendo di fatto le proprie condizioni.

In questo contesto, l’Unione europea si trova di fronte a un bivio: continuare sulla strada di un approccio conciliante, rischiando di vedere erosa la propria competitività, o sviluppare una strategia geoeconomica più assertiva, capace di tutelare gli interessi europei in un mondo sempre meno incline al compromesso.

La guerra dei dazi potrebbe essere solo l’inizio di una sfida molto più ampia che richiederà all’Ue una profonda riflessione sul suo ruolo nel mondo e sugli strumenti necessari per affermare i propri interessi. E non basterà rinchiudersi nel sovranismo economico. 

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600 gigatonnellate di ghiaccio svanite nel nulla: il 2023 anno nero per l’acqua

Il 2023 per le risorse idriche globali è stato il peggiore degli ultimi tre decenni per le risorse idriche globali. Il rapporto “State of Global Water Resources 2023” dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale (OMM) fotografa uno scenario allarmante, caratterizzato da fiumi in secca, ghiacciai in rapido scioglimento e una siccità senza precedenti che ha colpito vaste aree del pianeta.

I dati presentati dall’OMM sono inequivocabili: oltre il 50% dei bacini fluviali monitorati ha registrato portate inferiori alla media storica. Emblematici i casi del Mississippi e dell’Amazzonia, che hanno toccato i livelli più bassi mai osservati. Il 26 ottobre 2023, il livello dell’acqua nel bacino amazzonico presso il porto di Manaus ha raggiunto il minimo storico di 12,70 metri, il più basso registrato dal 1902. In Europa, bacini come quello del Danubio hanno mostrato condizioni di sofferenza idrica.

Fiumi in secca e ghiacciai in fuga: il volto della crisi dell’acqua globale

Il rapporto evidenzia come le condizioni di siccità abbiano interessato vaste regioni del globo. In Nord America, l’intero territorio ad eccezione dell’Alaska ha sperimentato condizioni di portata fluviale da inferiori a molto inferiori alla norma. La situazione è stata particolarmente grave in America Centrale e Meridionale, con il Messico che ha registrato l’anno più secco di sempre, con precipitazioni del 21% inferiori alla media.

Ma è sui ghiacciai che si registra il dato più allarmante. Nel 2023 hanno perso oltre 600 gigatonnellate di massa, il valore più alto degli ultimi 50 anni. Questo fenomeno ha contribuito per 1,7 millimetri all’innalzamento del livello del mare, segnando una accelerazione preoccupante del processo. Il rapporto sottolinea come sia il secondo anno consecutivo in cui tutte le regioni glaciali del mondo hanno registrato una perdita di ghiaccio.

La causa principale di questa crisi idrica globale è stata identificata nel caldo record che ha caratterizzato il 2023, l’anno più torrido mai registrato con temperature medie 1,45°C sopra i livelli preindustriali. Le temperature estreme hanno provocato siccità prolungate in molte regioni, dalla California al Corno d’Africa.

Dall’economia all’ambiente: gli impatti multidimensionali della crisi idrica

Le conseguenze non sono solo ambientali ma anche economiche e sociali. In Argentina, la prolungata siccità ha causato una perdita del 3% del PIL. In Libia, le inondazioni seguite a un periodo di grave aridità hanno provocato oltre 4.700 vittime e 8.000 dispersi, colpendo il 22% della popolazione del paese.

Il rapporto dell’OMM sottolinea anche l’importanza cruciale del monitoraggio delle risorse idriche. Nonostante i progressi registrati nell’ultimo anno, con un aumento significativo delle stazioni di misurazione della portata fluviale (da 273 in 14 paesi nel 2022 a 713 in 33 paesi nel 2023), ampie aree del pianeta rimangono prive di sistemi di osservazione adeguati, soprattutto in Africa e Sud America.

Il documento evidenzia anche come le anomalie nella disponibilità idrica non si limitino alle acque superficiali. L’analisi dei livelli delle acque sotterranee, basata su dati provenienti da oltre 35.000 pozzi in 40 paesi, ha rivelato situazioni critiche in diverse regioni. In particolare, vaste aree del Nord America, del Cile centrale e meridionale, dell’Europa meridionale e dell’Australia occidentale e meridionale hanno registrato livelli di falda inferiori o molto inferiori alla norma.

L’analisi delle aree sotto diverse condizioni di portata fluviale dal 1991 al 2023 mostra una tendenza crescente verso condizioni di siccità nel tempo, con il 2023 che risulta l’anno più secco degli ultimi 33 anni, seguito dal 2021 e dal 2015.

Il “State of Global Water Resources 2023” dell’OMM sottolinea l’importanza di migliorare i sistemi di monitoraggio, condividere i dati e sviluppare strategie di adattamento per affrontare le sfide poste dai cambiamenti climatici sul ciclo idrologico globale. Magari iniziando a non negare l’innegabile. 

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