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Von der Leyen contro Orbán: “Non protegge l’Europa, scarica i problemi sui vicini”

In Europa ci si abitua presto alla retorica del “troppo poco, troppo tardi”. Eppure, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha deciso di scuotersi e rispondere a Viktor Orbán. Finalmente, verrebbe da dire. Lo scontro si consuma in plenaria del Parlamento europeo a Strasburgo, e fotografa la Commissione e il premier ungherese su posizioni inconciliabili.

Se Orbán ha usato il suo intervento all’Eurocamera sulle priorità della presidenza ungherese dell’Ue per difendere il suo operato e presentare l’Ungheria come l’alfiere di un’Europa che deve cambiare, von der Leyen ha finalmente smesso di usare guanti di velluto. E, anche se l’assalto verbale arriva con anni di ritardo, il messaggio è chiaro: basta tollerare un’Unione Europea che tradisce sé stessa.

Ursula contro Viktor: lo scontro a Strasburgo

Dalla presidente della Commissione non ci si aspetta un linguaggio che morde ma questa volta ha rinunciato all’aplomb. “Per la guerra in Ucraina c’è ancora qualcuno che dà la colpa non all’invasore ma all’invaso. Mi domando: qualcuno ha mai incolpato gli ungheresi per l’invasione sovietica del 1956?”, ha incalzato von der Leyen, sferzante. Un colpo diretto al premier ungherese che, dopo mesi di ambiguità e strizzatine d’occhio verso Mosca.

Le parole della presidente sono risuonate come un atto d’accusa verso il tradimento dell’Europa da parte di Orbán. Un leader che gioca al sovranismo sul filo della provocazione ma che è ancora aggrappato ai vantaggi economici e politici dell’Unione. Un Orbán che, come von der Leyen ha sottolineato, fa a pezzi il Mercato Unico, imponendo barriere alle imprese europee e sovvenzionando le proprie.

Von der Leyen contro Orbán: inizia la resa dei conti

È chiaro: il dibattito di oggi non è stato solo uno scambio acceso. È stato l’inizio di una resa dei conti. Orbán ha sfidato Bruxelles ripetendo la sua solita litania anti-migranti, dipingendo un’Europa che rischia il collasso a causa della crisi migratoria e sottolineando la necessità di chiudere le frontiere. Le sue soluzioni? Costruire hotspot esterni all’Unione e ripristinare un “vero” sistema Schengen, esclusivo e selettivo.

La realtà però è ben diversa: lo stesso governo ungherese ha liberato trafficanti di esseri umani prima che scontassero la loro pena. Non ha esitato a lasciarli andare, gettando benzina sul fuoco della crisi migratoria. Von der Leyen ha colto al volo l’occasione, pungendo senza remore: “Questo non significa proteggere l’Unione, significa buttare i problemi verso i vicini”.

Lo scontro si infiamma: von der Leyen abbandona la diplomazia

Le tensioni si sono elevate ancora quando la presidente della Commissione ha ricordato che l’Ungheria, sotto la guida di Orbán, si sta allontanando dal Mercato Unico. “Come può un governo attrarre investimenti europei se impone restrizioni e colpisce arbitrariamente le imprese?”, ha domandato von der Leyen, lasciando Orbán senza replica. E non è finita qui: la presidente ha rimarcato come il Pil pro capite dell’Ungheria sia stato superato da quello dei suoi vicini dell’Europa centrale. Un chiaro affondo sul fallimento economico di un regime che si è presentato come il salvatore della nazione e del continente.

La reazione di Orbán e il cambio di equilibri nell’Ue

Ma se l’affondo di von der Leyen è stato la scossa, la reazione di Orbán non si è fatta attendere. Forte del sostegno (quasi incondizionato) del suo gruppo, ha ribadito che la presidenza ungherese del Consiglio Ue sarà il catalizzatore del cambiamento. Un cambiamento che, a suo dire, deve coinvolgere tutti i membri e riportare l’Unione a un passato (forse mai esistito) di sovranità nazionale e di rigida chiusura contro l’immigrazione.

In questo gioco delle parti, c’è stato un elemento che ha cambiato l’equilibrio. Manfred Weber, leader del Ppe, si è presentato al fianco di Peter Magyar, leader dell’opposizione ungherese, definendolo “la vera voce dell’Ungheria”. “Orbán è il passato, Magyar lo batterà”, ha dichiarato Weber, segnando un punto di rottura tra il Ppe e il Fidesz. E quando un leader come Weber arriva a fare un passo così netto, qualcosa sta davvero cambiando.

Ungheria nel mirino: finito il tempo del “laisser faire”

Sarà sufficiente? Difficile dirlo. L’Unione europea, in tutte le sue ramificazioni, ha tollerato troppo e troppo a lungo. Orbán non si è fatto scrupoli a proseguire sulla sua linea, consapevole che i richiami della Commissione spesso si traducono in poco più che dichiarazioni di principio.

Ma se la presidente della Commissione ha scelto questo momento per alzare il tiro è perché ha intuito che il tempo del “laisser-faire” è scaduto. Anche se le parole di oggi rischiano di rimanere un fuoco di paglia in questa partita Bruxelles non può permettersi di tornare indietro.

Tridico (M5S): “Da Orbán, propaganda e zero soluzioni”

Il capo delegazione a Bruxelles del M5s Pasquale Tridico spiega che “la propaganda di Orban è ormai un disco rotto”. L’eurodeputato sottolinea come Orbàn “nel suo intervento al Parlamento europeo non ha avanzato proposte, soluzioni o ricette per portare fuori l’Unione europea dal pantano in cui attualmente galleggia, incapace di imporre la pace in Ucraina e Medio Oriente, sottomessa ai giganti USA e Cina e ai loro potentati economici, miope davanti all’esigenza impellente di nuovi strumenti per combattere la stagnazione, le diseguaglianze, i tagli a sanità e istruzione”. Sulla stessa linea Nicola Zingaretti, capo delegazione eurodeputati Pd, secondo cui “Orban a Bruxelles conferma una cosa: il populismo ha slogan non soluzioni. Non ha una idea di Europa, la vuole solo distruggere”.

Insomma, è l’inizio di una guerra dialettica e politica in cui l’Unione, per una volta, sembra aver deciso di non fare più sconti a chi la tradisce dall’interno. Ma la domanda che resta è: Bruxelles avrà davvero il coraggio di spingersi fino in fondo?

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Il ministro tutto patina e distintivo

«Con la quarta rivoluzione epocale della storia delineante un’ontologia intonata alla rivoluzione permanente dell’infosfera globale, il rischio che si corre è duplice e speculare». E poi: «l’entusiasmo passivo, che rimuove i pericoli della iper-tecnologizzazione e per converso l’apocalittismo difensivo che rimpiange un’immagine del mondo trascorsa, impugnando un’ideologia della crisi che si percepisce come processo alla tecnica e al futuro intese come una minaccia». 

C’è da sperare che il testo con cui si è presentato il neo ministro alla Cultura Alessandro Giuli sia stato scritto da un suo fidato e scarso collaboratore. Avremmo almeno una spiegazione sul suo incespicare in un discorso che avrebbe voluto essere un manifesto culturale e invece si incaglia nel genere delle supercazzole. Il ministro avrebbe potuto, almeno, ripeterlo un paio di volte davanti a uno specchio nella sua camerata. Si sarebbe accorto dell’effetto tragico che fa l’ampollosità quando viene sfoderata per fingere di sapere. Si sarebbe accorto, forse, anche della citazione sbagliata su Hegel. 

Al di là del niente mischiato con il niente però Giuli ci fa sapere di essere perfettamente in linea con la premier nel neocolonialismo del cosiddetto Piano Mattei («mettere a disposizione dei Paesi africani le nostre capacità») e nel panpenalismo del Decreto Caivano («interessarsi delle periferie senza considerarle tali», dice). 

Il ministro tutto patina e distintivo è pronto per iniziare.

Buon mercoledì. 

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Il massacro dimenticato, a Gaza uccisi 167 cronisti

Eccoci qua, primo anniversario del 7 ottobre. Tutti a commemorare, piangere, gridare. Ma c’è un massacro di cui nessuno parla. Un massacro che continua, giorno dopo giorno. Silenzioso, metodico, spietato. Il “giornalisticidio” palestinese. Dietro alla parola ci sono 167 cadaveri. Giornalisti. Ammazzati come mosche da chi evidentemente ha qualcosa da nascondere. E non parliamo di “effetti collaterali della guerra”. No, qui si tratta di esecuzioni mirate. Articolo 21 ce lo racconta nero su bianco: 167 cronisti uccisi, 62 arrestati, 88 uffici distrutti. La più grande mattanza di giornalisti della storia. Sono palestinesi che cercavano di fare il loro lavoro. Li ammazzano a tavola, nel letto. Insieme alle loro famiglie. Perché evidentemente un giornalista è pericoloso pure quando dorme. E il giubbotto con su scritto “Press”? Un bersaglio, ecco cos’è diventato.

L’Occidente tace. I paladini della libertà di stampa si sono presi una vacanza. E intanto a Gaza si continua a morire. Di bombe, di fame, di sete. Ma guai a raccontarlo. Chi prova a farlo finisce sei piedi sotto terra o in galera. Perché la verità, si sa, è la prima vittima della guerra. Il Sindacato dei giornalisti palestinesi grida al mondo: “Fermate questo massacro!”. Ma il mondo ha le cuffie alle orecchie. Non sente, non vede, non parla. Così, mentre celebravamo il 7 ottobre, c’è chi festeggiava un anno di censura perfetta. Un anno di bugie non smentite, di crimini non documentati. Un anno di “giornalisticidio”. Ecco, la prossima volta che sentite parlare di libertà di stampa, ricordatevi di loro. Di quei 167 colleghi ammazzati per aver fatto il loro mestiere. Di quei 62 che marciscono in galera. Degli 88 uffici rasi al suolo.

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Migranti, schiaffo dei giudici Ue ai Paesi membri. Le donne afghane sono perseguitate, il diritto d’asilo è automatico

In una sentenza che potrebbe ridisegnare il panorama del diritto d’asilo in Europa, la Corte di Giustizia dell’Unione Europea ha emesso il 4 ottobre 2024 una decisione cruciale riguardante lo status di rifugiate delle donne afgane. Il caso, che ha attirato l’attenzione internazionale, riguarda due donne afgane a cui l’Austria aveva negato lo status di rifugiate, concedendo loro solo la protezione sussidiaria.

La vicenda ha le sue radici nel rifiuto delle autorità austriache di riconoscere la gravità della situazione delle donne in Afghanistan dopo il ritorno al potere dei talebani nel 2021. Nonostante le evidenti restrizioni imposte alle donne dal regime, l’Austria aveva sostenuto che le richiedenti asilo non fossero esposte a un rischio “effettivo e specifico” di persecuzione. 

La svolta: essere donna afgana è già persecuzione

La sentenza della Corte getta nuova luce sulla definizione di “persecuzione” ai sensi della Convenzione di Ginevra sui rifugiati, particolarmente nel contesto afgano. Secondo la Corte, la somma delle misure discriminatorie adottate dai talebani contro le donne costituisce di per sé un atto di persecuzione. Queste misure, che la Corte ha dettagliatamente esaminato, vanno dalla privazione di protezione giuridica contro la violenza di genere e domestica, all’obbligo di coprirsi completamente, passando per le severe limitazioni all’accesso all’istruzione, al lavoro e alla partecipazione politica.

La Corte ha sottolineato come queste restrizioni, nel loro insieme, violino la dignità umana garantita dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Ue. È significativo notare come la sentenza stabilisca che non è necessario dimostrare un rischio individuale e specifico di persecuzione per le donne afgane. Il solo fatto di essere donna e afgana, nelle attuali condizioni del paese, è considerato sufficiente per presumere un rischio di persecuzione.

La decisione non è arrivata nel vuoto. La Corte ha basato il suo giudizio anche su rapporti autorevoli dell’Agenzia dell’Unione Europea per l’Asilo e dell’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati. Questi organismi avevano già evidenziato il timore fondato di persecuzione per le donne e le ragazze afgane, suggerendo una presunzione di riconoscimento dello status di rifugiate.

La sentenza fa riferimento anche a importanti trattati internazionali come la Convenzione sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione nei confronti della donna e la Convenzione di Istanbul. Questi documenti sottolineano l’importanza della parità di genere e il diritto delle donne alla protezione contro ogni forma di violenza, principi che la Corte ha ritenuto fondamentali nella sua decisione.

Oltre l’Austria: le implicazioni per l’Europa

Ovviamente le implicazioni di questa sentenza vanno ben oltre i confini austriaci.  Si stabilisce un precedente significativo per l’interpretazione di cosa costituisca persecuzione nel contesto dei diritti delle donne, soprattutto in paesi dove le libertà fondamentali sono sistematicamente negate. Potrebbe portare a una revisione delle politiche di asilo in vari paesi europei, in particolare per quanto riguarda le donne provenienti da contesti dove i loro diritti sono gravemente violati.

Resta ora da vedere come l’Austria e altri Stati membri dell’Ue adatteranno le loro procedure di asilo alla luce di questa decisione. Ancora una volta il diritto pone una sfida significativa alle politiche di asilo restrittive, sottolineando la necessità di un approccio più sensibile alle questioni di genere nella valutazione delle richieste di asilo.

Non si  tratta quindi solo di una vittoria legale per le donne afgane ma un monito per tutti gli Stati membri sull’importanza di riconoscere e proteggere i diritti delle donne nel contesto del diritto d’asilo. Chissà se l’Europa che si fregia di essere patria del diritto riconoscerà il dovere di rispettarlo. 

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La Corte Ue salva la canapa (e la Cannabis Light) e manda in… fumo i piani del governo

Ancora una volta l’Europa smentisce l’Italia. La recente sentenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea sulla coltivazione della canapa ha messo in luce un divario sempre più ampio tra le visioni progressiste di Bruxelles e l’approccio restrittivo del Belpaese.

L’Europa apre, l’Italia chiude: il paradosso della canapa

La Corte di Lussemburgo ha decretato che gli Stati membri non possono vietare la coltivazione della canapa in sistemi idroponici in ambienti chiusi, a patto che il contenuto di THC non superi lo 0,2%. Una decisione che suona come una fanfara per gli agricoltori europei ma che in Italia riecheggia come un campanello d’allarme per un governo che sembra voler tornare all’epoca del proibizionismo.

Mentre l’Ue apre le porte a nuove tecniche di coltivazione, riconoscendo i benefici dell’agricoltura idroponica per la Politica Agricola Comune (PAC), l’Italia si barrica dietro il Ddl sicurezza del governo Meloni, che ha dato uno stop alla cannabis light. Un passo indietro che fa stridere i denti non solo agli imprenditori del settore ma anche a chi crede in un’Europa unita e progressista.

La sentenza della CGUE è chiara come l’acqua di un sistema idroponico ben funzionante: la coltivazione indoor della canapa è possibile, anzi, auspicabile. Si parla di incremento della produttività, progresso tecnico, migliore impiego dei fattori di produzione. Concetti che sembrano essere incomprensibili dalla parti di Palazzo Chigi. 

Canapa, voci dal settore: un grido inascoltato per il progresso

Mattia Cusani, Presidente dell’Associazione Nazionale Canapa Sativa Italia, non usa mezzi termini: “Questa sentenza rafforza la necessità di basare le politiche nazionali su dati scientifici e sul rispetto delle normative europee”. Un invito al governo italiano a riconsiderare le misure proposte nell’Articolo 18, per evitare di danneggiare un settore che offre lavoro a circa 15 mila persone e genera un fatturato annuo di 500 milioni di euro. Numeri che, evidentemente, non fanno abbastanza rumore nei corridoi del potere.

Il governo Meloni difende la sua posizione sostenendo che le limitazioni servano per evitare il commercio illegale di infiorescenze e derivati per uso ricreativo. Un argomento che suona come una scusa mal congegnata, soprattutto alla luce della sentenza europea che sottolinea come l’unica limitazione possibile sia quella basata sull’evidenza empirica di rischi per la salute pubblica.

Le associazioni di filiera invocano una riconsiderazione dell’articolo 18 del Ddl sicurezza, chiedendo una regolamentazione basata su evidenze scientifiche e lo sviluppo sostenibile del settore. Ma le loro voci sembrano perdersi nel vuoto di una politica sorda alle istanze di modernità e progresso.

Dalla Corte Ue un segnale chiaro

La sentenza della CGUE è un monito chiaro: non sarà più possibile limitare il commercio e la coltivazione di canapa sativa L in modo arbitrario, ma solo se effettivamente sussistono rischi per la salute pubblica. Un principio che dovrebbe essere ovvio in uno stato di diritto, ma che in Italia sembra essere considerato come una provocazione.

Il contrasto tra l’approccio europeo e quello italiano sulla questione della canapa è emblematico di una divergenza più ampia. Da un lato, un’Unione europea che cerca di bilanciare innovazione, sviluppo economico e tutela della salute pubblica. Dall’altro, un’Italia che sembra voler rimanere aggrappata a vecchi pregiudizi e paure infondate.

La domanda che sorge spontanea è: quanto ancora potrà l’Italia permettersi di andare controcorrente rispetto alle direttive europee? La canapa appare essere solo la punta dell’iceberg di un disallineamento più profondo tra le politiche nazionali e quelle comunitarie. La strategia di Meloni di voler pesare in Europa facendo la sovranista in Italia è uno sgretolamento continuo a suon di sentenze. 

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Carceri, dall’Onu una doccia fredda per l’Italia: razzismo endemico dietro le sbarre

Un nuovo rapporto dell’Onu conferma le discriminazioni nel sistema carcerario italiano, evidenziando una realtà che molti fingono di ignorare: il persistente razzismo sistemico contro gli africani e le persone di origine africana. Il documento, presentato al Consiglio per i diritti umani a Ginevra, è il risultato di un’indagine condotta da tre esperti indipendenti che hanno visitato l’Italia tra il 2 e il 10 maggio, toccando le città di Roma, Milano, Catania e Napoli.

Il quadro che emerge è tutt’altro che lusinghiero per il nostro Paese. Nonostante l’esistenza di un contesto normativo che sulla carta prevede protezioni contro la discriminazione razziale la realtà dietro le sbarre racconta una storia diversa. Gli esperti dell’Onu hanno rilevato abusi delle forze dell’ordine contro gli africani e le persone di discendenza africana, frutto di un razzismo radicato e sistemico che permea non solo le carceri, ma l’intero sistema di giustizia penale.

Il volto oscuro della giustizia: discriminazione, razzismo e abusi dietro le sbarre

Il rapporto dice testualmente: “In Italia persiste in maniera significativa il razzismo sistemico contro gli africani e le persone di origine africana da parte della polizia e dei sistemi di giustizia penale”. Il “razzismo sistemico” si manifesta in molteplici forme: dalla profilazione razziale nelle forze dell’ordine, alla difficoltà per le donne di origine africana di ottenere aiuto e protezione, fino alla separazione delle donne migranti dal resto della famiglia. Un aspetto particolarmente allarmante è la mancanza di dati disaggregati su base etnica che impedisce di valutare appieno il livello di discriminazione e di sviluppare politiche adeguate per contrastarla.

Il rapporto non si limita a denunciare, ma punta il dito anche sulle condizioni di detenzione. Nei Centri di Permanenza per i Rimpatri (CPR), come quello di Milano, sono stati segnalati maltrattamenti allarmanti: “Privazione di cibo e acqua per lunghi periodi, oltre a preoccupazioni per la qualità del cibo”. A Roma, nel CPR di Ponte Galeria, gli esperti hanno notato una “visibile angoscia nei detenuti maschi”, sintomo di un sistema che sembra aver perso di vista il concetto di dignità umana.

Ma il problema non si limita ai CPR. Il rapporto cita casi eclatanti come quello di Santa Maria Capua Vetere, dove “105 agenti di polizia e funzionari del carcere sono imputati per presunte torture e altri abusi, tra cui la morte di un detenuto algerino nel 2020”. Non mancano menzioni ad altri episodi simili in diversi penitenziari italiani, da San Gimignano a Reggio Emilia, fino all’IPM “Cesare Beccaria” di Milano.

Particolarmente critica appare la situazione dei minori stranieri non accompagnati, vittime di “pratiche illegali di detenzione e refoulement che violano i loro diritti umani”. A Milano, molti di questi minori finiscono per strada, in condizioni di povertà estrema e facile preda di dinamiche di sfruttamento.

Il rapporto non risparmia critiche nemmeno al recente decreto Caivano, esprimendo preoccupazione per gli effetti negativi che potrebbe avere sui minori in conflitto con la legge, in particolare quelli di origine africana. Il timore è che queste misure possano “contribuire alla discriminazione e alla marginalizzazione sociale dei minori stranieri, favorendo l’applicazione di misure più restrittive rispetto ai loro coetanei italiani, senza considerare adeguatamente il principio del miglior interesse del minore”.

Verso il cambiamento: le raccomandazioni dell’Onu per un sistema più equo

Di fronte a queste accuse, cosa può e deve fare l’Italia Il rapporto suggerisce diverse strade: dalla raccolta sistematica di dati disaggregati per comprendere meglio l’impatto della discriminazione, all’adozione di un approccio basato sui diritti umani nell’attività di polizia. Si raccomanda inoltre la creazione di un organo di controllo indipendente per indagare sulle denunce contro le forze dell’ordine e l’adozione di misure concrete per combattere il razzismo sistemico.

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Berlusconi santo subito? La verità affoga nel Mediterraneo

Il corrispondente di Radio radicale Sergio Scandura ha il brutto vizio di avere la memoria lunga. Abituato a tenere gli occhi fissi sul Mediterraneo che in molti vorrebbero sguarnito ieri ha piantato un chiodo nella memoria dell’aberrante percorso che ci ha portato al processo Open arms contro Matteo Salvini, a Cutro e alle nefandezze giuridiche di questo governo. 

Lo spunto è la doppia manovra di Forza Italia che punta a ripassare il fondotinta liberale sul partito e contemporaneamente a santificare (per assolvere) la figura del suo fondatore Silvio Berlusconi. “Berlusconi non avrebbe commesso una brutalità” come quella di Salvini con Open Arms, ha detto in un’intervista a La Stampa Francesca Pascale.

E invece è falso. Nel 2009, ricorda Scandura, Berlusconi fu precursore dei respingimenti illegali consegnando con navi italiane 200 naufraghi tra le fauci del colonnello Gheddafi. Fu una delle nove operazioni di restituzione all’inferno che condannarono l’Italia come fiancheggiatrice degli orrori libici.

Furono senza dubbio i prodromi dei sanguinari accordi con la Libia del ministro Minniti e poi a scendere fino al sabotaggio dei salvataggi in mare. La greve situazione attuali ha molti padri e converrebbe ricordarseli tutti. C’è quel Luigi Di Maio che oggi annuncia il suo possibile ritorno in politica, colui che nel 2017 parlò di “taxi del mare”. Ci sono ministri e governi di ogni colore. Piantedosi è solo il risultato di una lunga e dolorosa involuzione politica a cui hanno partecipato diversi attori, incluso “l’amante delle libertà” Silvio Berlusconi. 

Buon martedì. 

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Elezioni farsa in Tunisia nel silenzio dell’Europa

La farsa elettorale tunisina si è conclusa come previsto: Kais Saied ha “vinto” con l’89% dei voti. Una vittoria schiacciante, degna dei migliori regimi autoritari. Ma chi è il vero vincitore di questa pantomima democratica Certamente non il popolo tunisino, che ha disertato le urne in massa, con un’affluenza misera del 27,7%. Il trionfo di Saied è quello di un uomo solo al comando, che ha spazzato via ogni parvenza di opposizione. I suoi sfidanti? Un imprenditore in carcere e un candidato fantoccio che lo sosteneva. Una competizione degna delle migliori barzellette politiche, se non fosse tragicamente vera.

Ma la vera vergogna è l’imbarazzante silenzio dell’Unione Europea, troppo impegnata a lodare Saied come baluardo contro l’immigrazione per preoccuparsi di dettagli come la democrazia. E che dire dell’Italia La nostra Premier Meloni, sempre pronta a dipingersi come paladina dei valori occidentali, tace di fronte all’amico Saied che imprigiona oppositori e giornalisti. Questo è il prezzo che l’Europa è disposta a pagare per il controllo dei flussi migratori: legittimare un autocrate che ha smantellato sistematicamente le istituzioni democratiche tunisine, nate dalle ceneri della Primavera Araba Saied promette di “ripulire il paese dai corrotti”.

Resta da vedere chi ripulirà la Tunisia da un presidente che ha trasformato la democrazia in una farsa e chi ripulirà la coscienza dell’Europa, complice silenziosa di questo declino democratico. La Tunisia di Saied è lo specchio delle nostre ipocrisie. Un monito che ci ricorda come sia facile sacrificare i principi sull’altare della realpolitik. Ma attenzione: quando si semina autoritarismo, si raccoglie instabilità.

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Un anno di guerra, zero soluzioni: l’Ue alla prova del fuoco (e del fallimento)

Nel giorno in cui il mondo commemora il primo anniversario degli attacchi di Hamas contro Israele, l’Unione europea è la solita orchestra senza direttore, dove ogni musicista suona la propria partitura. È questo il quadro che emerge a un anno di distanza da quel tragico 7 ottobre 2023, con l’Ue incapace di trovare una voce comune su una delle crisi più complesse e durature del nostro tempo.

Mentre Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, partecipa alla cerimonia commemorativa per le 1.200 vittime israeliane e i 250 ostaggi, il Medio Oriente ribolle. Gaza continua a sanguinare sotto i bombardamenti, il Libano trema per gli scontri tra Israele e Hezbollah e l’Iran viene minacciato di rappresaglie. In questo scenario da polveriera, l’Ue si dimostra incapace di offrire una risposta unitaria e coerente.

L’Europa: un coro di voci stonate

L’Unione si presenta come un mosaico di posizioni contrastanti. Da un lato, Austria e Ungheria si ergono a paladini di Israele. Dall’altro, Irlanda, Spagna e Belgio alzano la voce in difesa dei palestinesi. In mezzo, una vasta gamma di sfumature diplomatiche che rendono impossibile qualsiasi azione comune efficace. Le tensioni non si limitano alle capitali europee. L’Irlanda, con i suoi 347 caschi blu in Libano, respinge con fermezza la richiesta israeliana di ritirare i peacekeepers, definendola “oltraggiosa”. La Francia di Macron, invocando un embargo sulle armi verso Israele, si attira le ire di Netanyahu che risponde con un video al vetriolo.

Silenzio assordante: il vuoto diplomatico dell’Ue

Mentre von der Leyen ribadisce la condanna di Hamas e la solidarietà a Israele, pur esprimendo preoccupazione per Gaza, Josep Borrell, Alto Rappresentante per la Politica Estera dell’Ue, brilla per il suo silenzio. Un’assenza di comunicazione che parla più di mille dichiarazioni, evidenziando la paralisi decisionale ai vertici dell’Unione.

In una dichiarazione domenicale, von der Leyen ha affermato: “Non ci può essere alcuna giustificazione per gli atti di terrore di Hamas. Condanno ancora una volta, e nei termini più forti possibili, quegli attacchi barbari”. Ha inoltre ribadito la speranza dell’Ue per un cessate il fuoco immediato e il rilascio degli ostaggi rimanenti, deplorando la “terribile” situazione umanitaria a Gaza e mettendo in guardia contro una “spirale di violenza” in tutta la regione.

L’incapacità dell’Ue di parlare con una sola voce ha effetti devastanti sulla sua credibilità internazionale. Sul piano diplomatico, l’Europa si riduce a spettatore passivo di eventi che la riguardano da vicino. La sua autorevolezza come attore geopolitico viene minata alla radice, mentre gli sforzi umanitari, urgenti e necessari, vengono ostacolati dalla mancanza di coordinamento. Non da ultimo, le fratture interne all’Unione si allargano, minacciando la coesione su altri dossier cruciali. La posta in gioco non è solo la pace in Medio Oriente, ma la stessa credibilità dell’Unione come attore globale.

In Europa e nel mondo, migliaia di persone hanno partecipato a manifestazioni. Alcune si sono riunite in solidarietà con Israele, chiedendo il rilascio degli ostaggi rimanenti ma molte di più sono scese in piazza per protestare contro le operazioni militari israeliane. Le manifestazioni riflettono la divisione dell’opinione pubblica che si rispecchia nella frammentazione delle posizioni politiche all’interno dell’Ue. 

L’anniversario degli attacchi del 7 ottobre mette a nudo non solo la tragedia del conflitto israelo-palestinese ma anche l’inadeguatezza dell’Ue di fronte alle sfide geopolitiche del nostro tempo. In un mondo sempre più polarizzato e instabile l’Europa non può più permettersi il lusso di parlare con voci discordanti. Il risultato è una riduzione a un’appendice marginale nelle grandi partite geopolitiche, condannata all’irrilevanza proprio quando il suo ruolo sarebbe più necessario che mai.

La posta in gioco è alta: non solo il futuro del Medio Oriente ma anche il ruolo dell’Europa nel mondo del XXI secolo.

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Cittadinanza per caso: quando un bisnonno vale più di 18 anni di vita italiana

Ogni volta che si parla di cittadinanza c’è chi tira fuori il sangue, chi il cuore, chi le tradizioni ma la burocrazia è la fotografia del tilt. 

Come riporta un illuminante articolo di Davide Leo per Pagella Politica, l’Italia mostra due facce quando si tratta di concedere la cittadinanza: una generosa e accogliente per chi può vantare un lontano avo emigrato, l’altra arcigna e diffidente per chi è nato e cresciuto sul suolo patrio.

Il paradosso dello ius sanguinis: quando un bisnonno vale più di una vita in Italia

Immaginate la scena: da una parte abbiamo Mario, nato a Buenos Aires, che non ha mai messo piede in Italia e non sa distinguere una carbonara da una amatriciana. Dall’altra c’è Fatima, nata e cresciuta a Milano, che mastica Dante a colazione e si nutre di Costituzione a cena. Indovinate chi ha più possibilità di ottenere il passaporto italiano? 

Ebbene sì, il nostro Mario, armato di documenti ingialliti che attestano la sua discendenza da un bisnonno partito per l’Argentina nel lontano 1890, ha praticamente la cittadinanza in tasca. Fatima, invece, dovrà aspettare i 18 anni e dimostrare di aver vissuto ininterrottamente in Italia, come se i suoi 18 anni di vita, scuola e cultura italiane non fossero sufficienti.

È il trionfo dello ius sanguinis, il principio che fa scorrere la cittadinanza nelle vene come un’eredità genetica, indipendentemente da quanto quel sangue si sia diluito nei decenni o nei secoli. Un principio che, come ci ricorda Leo, affonda le sue radici in un’Italia di emigranti, cristallizzata in leggi che sembrano ignare del fatto che il mondo, nel frattempo, è cambiato.

Nel caso di Mario bisogna scavare negli archivi, setacciare documenti, dimostrare che nessun antenato abbia mai osato rinunciare alla sacra cittadinanza italiana. Un’impresa che, come racconta l’avvocata Giuditta De Ricco a Pagella Politica, spesso si trasforma in una vera e propria odissea burocratica, con tanto di ricorsi al tribunale.

Cittadinanza, l’odissea burocratica: tribunali in tilt e la nuova ondata di italiani sulla carta

E qui si apre il sipario sul secondo atto della commedia: i tribunali italiani, già oberati da processi infiniti e fascicoli polverosi, si trovano sommersi da migliaia di richieste di riconoscimento della cittadinanza. Il Tribunale di Venezia ad esempio è alle prese con oltre 18mila pratiche pendenti, che potrebbero interessare fino a centomila oriundi.

Ma chi sono questi novelli italiani? Secondo De Ricco, principalmente giovani studenti in cerca di un passaporto comodo per girare l’Europa, e pensionati desiderosi di godersi la dolce vita italiana. Niente di male, per carità. Ma viene da chiedersi se sia questo il criterio giusto per definire l’italianità.

Intanto, nel 2022, ben 41mila persone hanno ottenuto la cittadinanza italiana per ius sanguinis, la maggior parte proveniente dall’America Latina. Un esercito di nuovi italiani che, ironia della sorte, in molti casi non metterà mai piede nel Bel Paese, se non per sbrigare le pratiche burocratiche.

E qui si giunge all’apice del paradosso: questi neo-italiani, pur non conoscendo la lingua, la cultura o le tradizioni del paese, avranno diritto di voto. Potranno decidere le sorti politiche di un paese che conoscono solo attraverso i racconti sbiaditi di qualche avo lontano. Potrebbero persino votare contro un referendum che propone di facilitare l’ottenimento della cittadinanza per gli stranieri residenti in Italia da lungo tempo.

L’assurdità della situazione non è sfuggita a tutti. Il presidente della Regione Veneto, Luca Zaia, ha invocato una “riflessione” sulla questione. Forza Italia ha annunciato una proposta di legge per restringere le concessioni per ius sanguinis. Ma per ora, il sipario resta aperto su questa tragicommedia all’italiana.

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