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Fondi dell’Unione europea usati per il partito, Le Pen a processo

La giustizia francese si prepara a mettere sotto i riflettori la leader dell’estrema destra Marine Le Pen, in un processo che promette di essere spettacolare nel senso più greve dl termine. La protagonista, accompagnata da un cast di tutto rispetto composto da figure di spicco del Rassemblement National, si troverà a recitare la parte dell’imputata in un’aula di tribunale parigino, accusata di aver orchestrato un elaborato schema di frode ai danni del Parlamento Europeo.

Il copione? Un classico: soldi pubblici usati per finanziare carriere private. L’accusa sostiene che Le Pen e i suoi compari abbiano trasformato il Parlamento Europeo in un bancomat personale, assumendo assistenti parlamentari che, guarda caso, lavoravano esclusivamente per il partito. Una sorta di “Prendi i soldi e scappa” in salsa europea, con la differenza che qui nessuno è scappato, almeno per ora.

Il prezzo della gloria: i rischi di una condanna

Le cifre in ballo farebbero impallidire persino i contabili più creativi: si parla di circa 3 milioni di euro sottratti dalle casse dell’Ue. Una somma che, ironia della sorte, potrebbe costare a Le Pen molto più di quanto valga. Se condannata, rischia fino a 10 anni di reclusione, una multa da 1 milione di euro e, ciliegina sulla torta, l’interdizione dai pubblici uffici per 5 anni. Un tris che metterebbe ko le sue ambizioni presidenziali per il 2027, anno in cui sperava di coronare il suo sogno di diventare la prima donna presidente della Repubblica francese.

Ma Le Pen, da canto suo, non si lascia intimidire. Ha già annunciato che sarà presente in aula “il più possibile”, quasi fosse un’opportunità di campagna elettorale fuori stagione. D’altronde, chi meglio di un’ex avvocatessa potrebbe difendersi in un processo? Sarà come tornare alle origini, ha dichiarato un suo fedelissimo, dimenticando forse che questa volta il banco degli imputati non è esattamente la posizione migliore per arringare.

Il processo, che si protrarrà fino al 27 novembre, promette colpi di scena degni delle migliori serie TV. Tra i co-imputati figura anche il padre di Marine, Jean-Marie Le Pen, patriarca novantaseienne del partito, che però non si presenterà in aula per motivi di salute. Una assenza che priva il pubblico di quello che sarebbe stato un confronto generazionale degno di un dramma shakespeariano.

Dalla persecuzione al martirio: la strategia difensiva del Rassemblement National

Ma il vero spettacolo potrebbe essere fuori dall’aula. Il Rassemblement National, fedele alla sua retorica anti-establishment, ha già etichettato l’intera vicenda come una “persecuzione” politica, un complotto ordito dal sistema per fermare l’ascesa inarrestabile di Le Pen. Una narrazione che, paradossalmente, potrebbe rafforzare il sostegno dei suoi elettori, sempre pronti a vedere complotti dietro ogni angolo.

E qui sta il genio perverso della situazione: in un’epoca in cui la vittimizzazione paga più dei dividendi in borsa, essere sotto processo potrebbe rivelarsi un’accelerazione elettorale inaspettato. Le Pen potrebbe uscire dal tribunale più forte di prima, indipendentemente dal verdetto. Se assolta, griderà al trionfo della giustizia. Se condannata, al martirio politico.

Intanto, all’orizzonte si profila già l’ombra di Jordan Bardella, il giovane delfino di Le Pen, pronto a raccogliere lo scettro del partito in caso di condanna della sua mentore. A soli 29 anni, Bardella rappresenta il futuro dell’estrema destra francese, un futuro che potrebbe arrivare prima del previsto se Le Pen dovesse inciampare nelle aule di giustizia.

In tutto questo, l’ironia della sorte vuole che proprio l’Unione Europea, tanto vituperata da Le Pen, possa essere l’artefice della sua caduta. Gli stessi fondi europei che il suo partito ha sempre criticato potrebbero rivelarsi il tallone d’Achille della sua carriera politica.

La narrazione del martirio giudiziario, che qui da noi interpreta Salvini, è solo all’inizio. 

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La siccità spiegata da Lollo, ma lo smentiscono tutti

L’attuale ministro nonché ex cognato (di Fratelli) d’Italia Francesco Lollobrigida sabato a Siracusa ci ha spiegato che “la siccità non è una emergenza, è un fenomeno ciclico. Il problema – ha detto il ministro – è che le infrastrutture che sono state dimenticate e non realizzate negli anni hanno impedito di tenerci l’acqua piovuta in questi anni. Insomma, – ha aggiunto – è mancata una strategia seria, non solo in Sicilia ma in tutta Italia. Dobbiamo recuperare le acque reflue”. In un documento della Commissione europea si legge che a “causa dei cambiamenti climatici, molte regioni europee devono già far fronte a siccità più frequenti, gravi e prolungate” e che “con un aumento della temperatura media globale di 3ºC, gli episodi di siccità potrebbero diventare due volte più frequenti e le perdite annuali assolute dovute alla siccità in Europa aumentare a 40 miliardi di euro l’anno, con gli impatti più gravi nelle regioni del Mediterraneo e dell’Atlantico”.

Il rapporto Onu in occasione della Cop 28 del dicembre dell’anno scorso spiega che “la siccità aggravata dal riscaldamento globale è un’emergenza senza precedenti su scala planetaria, che porta a penuria di cibo e carestia” aggiungendo che “mentre altri impatti climatici come le ondate di caldo, gli incendi e le inondazioni spesso occupano i titoli dei giornali, la siccità è per lo più un disastro silenzioso”. Persino Enel scrive a proposito di siccità che “purtroppo, questa non è una condizione eccezionale, quanto il segno di una tendenza del cambiamento climatico globale in atto, con conseguenze anche sul fronte energetico”. Forse la vera emergenza è avere un ministro così.

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Milano, la Champions League della malavita: ultras arrestati tra estorsioni e spaccio

La malavita organizzata e il tifo calcistico: un binomio che si ripete ciclicamente nella cronaca italiana. L’operazione condotta questa mattina dalla Procura di Milano ne è l’ennesima conferma, svelando ancora una volta gli intrecci tra criminalità e curve degli stadi.

Diciotto arresti hanno decapitato i vertici delle tifoserie organizzate di Inter e Milan. L’indagine, condotta dalla Squadra Mobile di Milano e dalla Guardia di Finanza, ha fatto emergere un sistema consolidato di estorsioni, violenze e affari illeciti gravitanti attorno al mondo del calcio. Dalla vendita dei biglietti al controllo dei parcheggi, passando per il merchandising e la gestione dei punti ristoro allo stadio: nulla sfuggiva al controllo delle organizzazioni criminali infiltrate nelle curve.

Le mani della ‘ndrangheta sulle curve: il sistema criminale svelato

Nel caso degli ultras interisti, l’accusa è di associazione a delinquere con l’aggravante di aver favorito la cosca di ‘ndrangheta dei Bellocco. Tra gli arrestati figurano Andrea Beretta, Marco Ferdico, Renato Bosetti, Matteo “Chuck” Norrito e Mauro Nepi. Le indagini hanno rivelato come il gruppo avesse il controllo totale sulle attività economiche legate alla curva, ottenuto attraverso minacce ed estorsioni.

Particolarmente rilevante il ruolo di Antonio Bellocco, rampollo dell’omonima cosca calabrese, ucciso un mese fa in un regolamento di conti interno alla curva interista. Secondo gli investigatori, Bellocco aveva acquisito un potere crescente all’interno della tifoseria, fino allo scontro mortale con Andrea Beretta fuori da una palestra a Cernusco sul Naviglio.

Le intercettazioni hanno rivelato l’esistenza di un “patto di non belligeranza” tra le due tifoserie, finalizzato alla spartizione degli affari illeciti. In una conversazione, Luca Lucci, capo ultras del Milan, discute con Fedez (a quanto risulta non indagato, ndr) della possibilità di distribuire la bevanda energetica del rapper allo stadio: “Dovrei parlare con il responsabile che c’ha tutti i bar dentro allo stadio, che lo conosco bene!! Eh… è una persona perbenissimo… guarda, con i bar mi posso muovere eeh… già in settimana mi muovo!”.

Violenza e affari: il lato oscuro del tifo organizzato

L’indagine ha anche fatto luce su episodi di violenza, come il pestaggio del personal trainer Cristian Iovino, avvenuto nell’aprile 2024. Secondo le ricostruzioni, l’aggressione sarebbe stata compiuta da un gruppo di ultras milanisti, tra cui Christian Rosiello e Islam Hagag, bodyguard di Fedez. Un testimone ha riferito di aver sentito la frase: “Chiedi scusa…devi chiedere scusa, noi torniamo e ti ficchiamo una pallottola in testa…”.

Per quanto riguarda la curva del Milan, l’accusa è di associazione a delinquere finalizzata a estorsioni, aggressioni e resistenza. Tra gli arrestati figurano Luca Lucci, suo fratello Francesco, Christian Rosiello, Alessandro “Shrek” Sticco, Fabiano Capuzzo e Islam “Alex Cologno” Hagag. Il gruppo è accusato di aver gestito con metodi violenti il controllo della curva e delle attività economiche ad essa collegate.

Luca Lucci, già noto alle cronache per precedenti arresti legati al traffico di droga, emerge come figura centrale dell’organizzazione. Le intercettazioni lo ritraggono mentre discute di affari illeciti usando il nickname “Belva Italia” su chat criptate. In una conversazione, Lucci parla della possibilità di rilevare la discoteca Old Fashion con Fedez: “Come introduco la tua figura”, chiede il rapper, al che Lucci risponde: “Non la introduci”.

Dalla curva alla città: l’infiltrazione criminale oltre lo stadio

L’indagine ha anche rivelato l’esistenza di una rete di attività commerciali, come barberie e negozi di tatuaggi, utilizzate come copertura e per il riciclaggio di denaro. La “Kobayashi srl”, società di Lucci per l’organizzazione di eventi, viene indicata come uno dei veicoli per gli affari illeciti del gruppo.

Gli investigatori hanno documentato diversi episodi di violenza, come l’aggressione a un tifoso a Motta Visconti nell’aprile 2024, con tanto di filmato del pestaggio. Un altro incidente violento è avvenuto dopo una partita Milan-Cagliari, quando un giovane romeno è stato ferito a coltellate.

L’ordinanza del gip Domenico Santoro descrive San Siro come una “terra sottratta al controllo di legalità”, dove il sodalizio criminale “muove gli uomini per gli scontri violenti, determina la rarefazione delle forme di contrasto, creando le condizioni per il successivo controllo di ogni iniziativa economica che allo stadio sia connessa”.

Le indagini hanno anche fatto emergere i legami tra le curve e figure di spicco della criminalità organizzata. Oltre al già citato Antonio Bellocco, viene menzionato Pino Caminiti, calabrese di Taurianova, descritto come vicino allo ‘ndranghetista Giuseppe “Dutturicchiu” Calabrò e ai Fidanzati, famiglia di Cosa Nostra.

L’inchiesta ha rivelato come il controllo delle curve fosse anche un affare economico di notevole portata. Gli introiti derivanti dalla vendita di biglietti, dal merchandising e dal controllo dei parcheggi ammontavano a cifre considerevoli. In un’intercettazione, si fa riferimento a un accordo tra le due curve per la spartizione al 50% degli introiti legati alle partite di Champions League, indipendentemente da quale squadra si qualificasse per la finale.

Torna al centro del dibattito anche la legittimazione del tifo criminale di personaggi pubblici. Il caso più eclatante è quello di Matteo Salvini, immortalato nel 2018 in una stretta di mano con Luca Lucci durante una festa per i 50 anni della Curva Sud. Nonostante le successive smentite di legami personali, l’episodio ha sollevato interrogativi sul rapporto tra politica e ambienti ultras.

L’operazione ha rivelato una complessa rete di relazioni che si estendeva ben oltre il mondo del calcio. Le intercettazioni hanno documentato contatti con figure del mondo dello spettacolo, della politica e dell’imprenditoria, mostrando come l’influenza dei gruppi ultras si estendesse in diversi ambiti della società.

Un aspetto particolarmente inquietante emerso dall’inchiesta è il livello di omertà che circondava le attività delle curve. Il gip Santoro ha sottolineato come questa omertà fosse “paragonabile a quella che le organizzazioni di tipo mafioso sono in grado di ingenerare nel territorio dalle stesse controllato”.

L’indagine ha anche fatto luce sulle dinamiche interne alle curve, caratterizzate da lotte di potere e repentini cambi al vertice. Nel caso della curva interista, ad esempio, è emerso come dopo l’omicidio di Vittorio Boiocchi nel 2022 si sia scatenata una “guerra” per la successione, che ha portato all’espulsione del gruppo degli “Irriducibili” guidati da Domenico Bosa.

Le attività illecite non si limitavano al contesto dello stadio. L’inchiesta ha rivelato come i gruppi ultras fossero coinvolti in traffici di droga su larga scala. In particolare, Luca Lucci è accusato di aver gestito importazioni di hashish e marijuana dal Marocco, con carichi bisettimanali di cinquanta chili, e di aver tentato di importare una partita di dieci chili di cocaina dal Brasile.

L’ordinanza descrive in dettaglio il modus operandi dei gruppi criminali, che utilizzavano software di crittografia come Encrochat per comunicare e pianificare le attività illecite. Questo livello di sofisticazione tecnologica ha reso particolarmente complesse le indagini, richiedendo l’impiego di tecniche investigative avanzate.

L’operazione di oggi rappresenta un duro colpo alle organizzazioni criminali che controllavano le curve di San Siro, ma gli investigatori sono consapevoli che il fenomeno è profondamente radicato e richiederà un impegno continuo per essere definitivamente sradicato.

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Camerati d’Europa uniti a Verona: il raduno che l’Italia finge di non vedere

Come racconta per La Stampa Andrea Palladino nel Paese in cui non dovrebbe esistere nessun pericolo fascismo si sono radunati nei giorni scorsi i neonazisti provenienti da tutto il mondo per commemorare il fondatore della rete neonazista Blood and Honour (B&H).

A Sona, in provincia di Verona, in un’area agricola si son esibiti i Gesta Bellica, famosi per una canzone dedicata al boia nazista delle Fosse Ardeatine Eric Priebke. Il ritornello della canzone fa così: “Lui non risponde alle vostre menzogne / Lui non si spiega non lo farà mai / La sua fedeltà è più forte del Fuoco / Liberate il capitano!”.

“Mille camerati, venuti da tutta Europa / Sono qui con me, sacrificando la propria vita” è invece il ritornello di un’altra canzone che fa riferimento alla Waffen-SS, la legione straniera del corpo di élite di Adolf Hitler, con lui nel bunker di Berlino. 

La scelta di Verona non è casuale. Nella città veneta proliferano i gruppi musicali di estrazione nazista sotto l’ala protettrice del Veneto Fronte Skinheads, che qui in Italia viene allegramente tollerato come un pittoresco gruppo di nostalgici. 

Collegati ala rete internazionale ci sono circoli tranquillamente aperti come quello del movimento “Dodici raggi” di Arzate, dove sul bancone del bar appare una svastica in ferro. L’antisemitismo come bandiera, il nazismo come ispirazione e ovviamente il ritorno del fascismo come aspirazione. 

Di quell’incontro non ne ha scritto quasi nessuno. Non ne ha dibattuto politicamente nessuno. Palladino scrive che un’auto delle forze dell’ordine vigilava all’esterno del concerto. 

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Il popolo parla ma nessuno lassù lo ascolta

Perché la disuguaglianza sia un tema poco appetibile per giornali e discussione politica è facilmente comprensibile: un Paese diseguale è il fallimento generale della sua classe dirigente – non solo politica – nei confronti della Costituzione. 

Sarà per questo che è passata molto sotto traccia l’indagine dell’Istituto Demopolis per Oxfam che racconta come l’85% degli italiani ritenga iniquo il nostro sistema fiscale e come il 71% ritenga che le disuguaglianze in Italia sono aumentate negli ultimi 5 anni. Disuguaglianze di natura per lo più economica ma anche di accesso ai servizi, soprattutto quelli sanitari, specifica il rapporto. 

Del resto la maggioranza assoluta ricorda anche quanto pesino i divari nelle opportunità di accesso al mondo del lavoro (55%) e nelle disponibilità patrimoniali (51%). 

Dalla rilevazione emerge inoltre con chiarezza la consapevolezza dei cittadini sugli impatti negativi delle disuguaglianze in termini di affievolimento della vita democratica (71%), ostacolo alla crescita economica (79%), sfaldamento della coesione sociale (86%) e fioche prospettive di futuro per le nuove generazioni (86%).   
Le percentuali evidenziate dal sondaggio sono ben diverse dalle proporzioni abituali su temi divisivi per sentimento politico. Quell’80% degli italiani significa che l’iniquità percepita non sia roba di destra o di sinistra. Che 7 cittadini su 10 siano d’accordo con una tassa patrimoniale significa che “l’esproprio proletario” lo vedono solo certi miopi dirigenti di partito. Facile tirare le somme. 

Buon lunedì. 

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L’emergenza dimenticata dei Comuni sciolti per infiltrazioni mafiose – Lettera43

Nel 2023 nove enti sono stati commissariati per questo motivo. E in tutto erano 33 le realtà sotto una gestione amministrativa non scelta dai cittadini. Situazioni in cui la democrazia è sospesa. Ma che non fanno più notizia né suscitano indignazione. E l’indifferenza è il favore più grande che si possa fare alla criminalità organizzata.

L’emergenza dimenticata dei Comuni sciolti per infiltrazioni mafiose

In un’Italia che si dibatte tra mille emergenze ce n’è una che passa sistematicamente sotto silenzio: lo scioglimento dei Comuni per infiltrazioni mafiose. Un fenomeno che rappresenta un allarme democratico che corrode le fondamenta stesse dello Stato di diritto. Nel 2023 nove Comuni italiani sono stati commissariati per infiltrazioni mafiose. Un numero che, preso isolatamente, potrebbe sembrare rassicurante, essendo il più basso dal 2016. Ma fermarsi a questa cifra sarebbe un errore. La realtà, infatti, è ben più complessa e preoccupante.

La durata media di questi commissariamenti è di 26 mesi

Nel corso dello stesso anno, come sottolinea un recente report di Openpolis, erano 33 i Comuni sotto gestione commissariale. Questo significa che in 33 realtà locali italiane la democrazia era di fatto sospesa. Luoghi in cui non erano i cittadini a scegliere i loro rappresentanti, ma commissari nominati dallo Stato a gestire l’amministrazione. La durata media di questi commissariamenti è di 26 mesi, oltre i 18 mesi previsti dalla legge, con una possibile proroga fino a 24. In pratica per più di due anni i cittadini di questi Comuni hanno vissuto (o ancora vivono) in una sorta di limbo democratico, privati del diritto fondamentale di scegliere da chi essere governati.

Non solo al Sud: le mafie hanno da tempo varcato il Rubicone

La distribuzione geografica di questo fenomeno racconta una storia che molti preferirebbero non sentire. La Calabria guida la triste classifica con 10 Comuni commissariati, seguita da Campania, Puglia e Sicilia con sette ciascuna. Un quadro che sembrerebbe confermare il vecchio stereotipo di un Sud in balìa della criminalità organizzata. Si tratta però di un’altra lettura superficiale. Negli anni passati, infatti, casi di commissariamento sono stati registrati anche in regioni insospettabili del Nord, come Valle d’Aosta, Lombardia, Piemonte ed Emilia-Romagna. Un dato che dimostra come le mafie abbiano da tempo varcato il Rubicone, infiltrandosi capillarmente in tutto il tessuto nazionale.

Solo piccole realtà? No, c’è Foggia che ha oltre 150 mila abitanti

Sarebbe un altro sbaglio pensare che il problema riguardi solo piccoli centri sperduti. Certo, la maggior parte dei Comuni coinvolti ha meno di 50 mila abitanti, ma non mancano casi di città più grandi. Foggia, capoluogo di provincia con oltre 150 mila cittadini, è stata governata da un commissario per 27 mesi. Un caso che dimostra come le mafie non si facciano problemi a puntare anche a prede più grosse e visibili. L’andamento storico del fenomeno racconta di un problema tutt’altro che risolto. Nel 1991, quando la legge introdusse la possibilità di sciogliere i Comuni per infiltrazioni mafiose, si registrarono 21 casi. Il picco si raggiunse nel 1993 con 34 Comuni sciolti. Negli anni successivi, il numero è oscillato notevolmente: si è passati dai tre episodi del 1995 ai 24 del 2012, con nuovi picchi di 23 nel 2018 e 21 nel 2017 e nel 2019. Questa ciclicità suggerisce che le organizzazioni criminali si adattano, trovando sempre nuove strategie per infiltrarsi nelle amministrazioni locali.

L'emergenza dimenticata dei Comuni sciolti per infiltrazioni mafiose
La città di Foggia (Getty).

Il vero pericolo è quello dell’indifferenza generale

Lo scioglimento di un Comune non è un atto indolore. Comporta la sospensione degli organi elettivi e la nomina di una commissione straordinaria che gestisce l’ente per un periodo che, come abbiamo visto, supera spesso i due anni. Il commissariamento spesso porta a un rallentamento dell’attività amministrativa, con conseguenze negative sui servizi ai cittadini. Inoltre, può generare un senso di sfiducia nelle istituzioni, alimentando quel distacco tra elettori e politica che è già una delle piaghe del nostro sistema. Il vero pericolo, tuttavia, non è solo l’infiltrazione mafiosa in sé, ma l’indifferenza generale con cui viene accolta questa notizia. Il fatto che 33 Comuni commissariati per mafia non facciano più scalpore è un segnale preoccupante. Indica che la società italiana ha iniziato a considerare normale ciò che normale non è. Questa assuefazione è il miglior alleato delle mafie. Perché un fenomeno che non fa più notizia è un fenomeno che non suscita più indignazione. E senza indignazione non c’è lotta.

Appalti, concessioni, rapporti oliati: perché i Comuni fanno gola

Ma perché le mafie puntano così tanto sui Comuni? Le ragioni sono molteplici. Controllare un’amministrazione locale significa avere accesso ad appalti, concessioni, licenze. Significa poter orientare le scelte urbanistiche, influenzare l’assegnazione di alloggi popolari, gestire i servizi di raccolta rifiuti. In altre parole, vuol dire avere il controllo del territorio e delle sue risorse. In questo modo le mafie costruiscono quel sistema di relazioni e connivenze che è il vero carburante del loro potere. Un sindaco o un assessore colluso può aprire porte, facilitare contatti, garantire protezioni ben oltre i confini del suo Comune.

Misura pensata per essere straordinaria ma che ormai è la normalità

La legge che permette lo scioglimento dei Comuni per infiltrazioni mafiose è stata introdotta, come detto, nel 1991, all’indomani di una stagione di sangue che aveva visto le mafie sfidare apertamente lo Stato. Era pensata come una misura straordinaria, un bisturi per recidere i legami tra criminalità organizzata e politica locale. Dopo 30 anni, quella misura straordinaria è diventata ordinaria amministrazione. Un dato che, da solo, dovrebbe far riflettere sull’efficacia di questo strumento. Se dopo tre decenni siamo ancora qui a contare i Comuni sciolti, forse è il caso di chiedersi se non sia necessario un approccio diverso. E forse un Paese che accetta passivamente che 33 dei suoi Comuni siano gestiti da commissari per infiltrazioni mafiose non è un Paese in salute. Normalizzare è il più grande favore che si possa fare alle mafie.

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L’innocenza bombardata: in Libano muoiono più bambini che nella guerra del 2006

A Gaza ora si aggiunge anche il Libano tra le catastrofi umanitarie della guerra in Medio Oriente. Le recenti operazioni militari israeliane hanno portato a un’escalation di violenza che ha colpito duramente la popolazione civile, in particolare i bambini, aggiungendosi a una serie di crisi preesistenti che hanno messo in ginocchio il paese.

Secondo i dati forniti dall’Unicef, il numero di bambini uccisi quotidianamente in Libano questa settimana ha superato di gran lunga quello registrato durante il conflitto del 2006. Se durante quei 33 giorni di guerra persero la vita circa 12 bambini al giorno, per un totale di 400 vittime, solo lunedì e martedì di questa settimana sono stati uccisi 50 minori. Il Ministero della Sanità libanese teme che molti altri siano rimasti sepolti sotto le macerie degli edifici distrutti in tutto il paese.

L’escalation della violenza: in Libano un bilancio drammatico

L’intensificarsi delle ostilità ha causato migliaia di morti e feriti, sfollamenti di massa e danni ingenti alle infrastrutture. Edouard Beigbeder, Rappresentante dell’UNICEF in Libano, ha descritto la situazione come una “tragedia che si accumula su altra tragedia”, sottolineando come gli attacchi stiano devastando ogni senso di sicurezza per centinaia di migliaia di bambini in tutto il paese.

Il conflitto del resto si innesta su un tessuto sociale già profondamente provato. Negli ultimi anni, il Libano è stato colpito da una serie di crisi concatenate: la massiccia esplosione del porto di Beirut, l’impatto della pandemia da Covid-19 e un crollo economico che dura da cinque anni, che ha fatto impennare i tassi di povertà. Un’indagine condotta dall’Unicef nel novembre 2023 ha rivelato che più dell’80% delle famiglie libanesi ha dovuto ricorrere a prestiti o crediti per acquistare generi alimentari di prima necessità, con un aumento di 16 punti percentuali in soli sei mesi.

Un paese già in ginocchio: le crisi si sommano

La situazione è particolarmente critica nel Governatorato del Sud, dove il 46% delle famiglie ha dichiarato che i propri figli soffrono di ansia e il 29% di depressione. Gli sfollamenti di massa hanno raggiunto proporzioni allarmanti: si stima che nelle ultime 72 ore centinaia di migliaia di persone siano state costrette a lasciare le proprie case, con oltre 70.000 individui che hanno trovato rifugio in strutture d’emergenza.

Le infrastrutture civili hanno subito danni ingenti. Le stazioni di pompaggio dell’acqua nei Governatorati della Bekaa e del Sud sono state danneggiate, privando 30.000 persone dell’accesso all’acqua potabile. In risposta a questa emergenza, l’Unicef , in collaborazione con il governo libanese, ha avviato una massiccia operazione di aiuti umanitari, fornendo beni di prima necessità come acqua potabile, kit per l’igiene, materiale didattico e ricreativo per i bambini, coperte, sacchi a pelo e aiuti nutrizionali.

L’organizzazione ha inoltre mobilitato 20 unità sanitarie mobili per fornire cure mediche e vaccinazioni, e ha consegnato 100 tonnellate di forniture mediche d’emergenza agli ospedali che si trovano ad affrontare gravi carenze. Altre 25 tonnellate di aiuti sono in arrivo e 53 tonnellate sono in fase di approvvigionamento.

Beigbeder ha definito la situazione in Libano come passata “dalla crisi alla catastrofe”, sottolineando che l’unica soluzione per porre fine alla sofferenza dei bambini è una de-escalation immediata. L’Unicef ha lanciato un appello urgente a tutte le parti coinvolte affinché rispettino gli obblighi previsti dal diritto internazionale umanitario, garantendo la protezione delle strutture civili e dei civili, compresi i bambini, gli operatori umanitari e il personale medico.

Quanto tutto questo possa essere una semplice difesa, per di più legittima, dello stato di Israele è facile da intuire. 

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Dati nascosti, diritti negati: la strategia del governo sull’aborto

Non potendo cancellare il diritto all’interruzione di gravidanza dalle parti del governo devono avere pensato che non ci sia niente di meglio che sabotarlo. In Italia il dibattito sull’aborto si scontra da sempre con un muro di silenzio istituzionale. La legge 194 del 1978, che regola l’interruzione volontaria di gravidanza (IVG), prevede la pubblicazione annuale di una relazione dettagliata sull’applicazione della norma. Tuttavia, come riporta Micol Maccario per Pagella Politica, questi dati cruciali sono sistematicamente in ritardo e, quando vengono rilasciati, risultano incompleti e poco utili.

Il governo Meloni è campione nel perpetuare questa tradizione di opacità. A sette mesi dalla scadenza legale, fissata a febbraio, la relazione del 2024 è ancora assente. Questo ritardo non è un’eccezione ma si inserisce in un sistema consolidato che attraversa diverse amministrazioni. L’ultimo report pubblicato nei tempi previsti risale al periodo pre-pandemico, smentendo l’alibi dell’emergenza sanitaria.

Diritto all’aborto, pochi dati aggiornati e la questione obiezione di coscienza

La carenza di dati aggiornati e dettagliati non è un mero problema burocratico. Rappresenta un ostacolo concreto per le donne che cercano di accedere all’IVG e impedisce una valutazione accurata dell’effettiva applicazione della legge 194 sul territorio nazionale. Le informazioni fornite sono aggregate per regione, rendendo impossibile conoscere la situazione specifica di ogni struttura ospedaliera.

L’obiezione di coscienza, diritto garantito dalla legge 194, si trasforma spesso in un’arma a doppio taglio. Secondo i dati del 2021, il 63,5% dei ginecologi in Italia è obiettore. Questa percentuale sale drammaticamente in alcune regioni del Sud, raggiungendo l’85% in Sicilia. Tuttavia, questi numeri non riflettono la realtà completa. Come evidenziato nel libro “Mai Dati” di Chiara Lalli e Sonia Montegiove, esistono “non obiettori” che di fatto non praticano aborti, distorcendo ulteriormente il quadro.

La mobilità del personale non obiettore, prevista dalla legge per garantire il servizio, rimane un’area grigia. La relazione ministeriale si limita a dichiarazioni vaghe, senza fornire dati concreti su come questa mobilità venga effettivamente implementata.

Il metodo farmacologico per l’IVG, introdotto in Italia nel 2009 e ampliato nel 2020, rappresenta un’opportunità importante. Nel 2021, il 45,3% degli interventi è stato effettuato con questo metodo. Tuttavia, l’accesso non è uniforme: in Liguria la percentuale sale al 72,5%, mentre nelle Marche si ferma al 19,6%.

La mancanza di trasparenza non si limita ai dati sull’obiezione di coscienza. Informazioni cruciali come la disponibilità dell’aborto farmacologico o chirurgico nelle singole strutture non sono accessibili al pubblico. Il vuoto informativo costringe le donne a navigare in un sistema opaco, affidandosi spesso a reti informali e associazioni per ottenere informazioni basilari.

I tentativi inascoltati

Di fronte a questa situazione, diverse organizzazioni come Pro-choice, Obiezione Respinta e l’associazione Luca Coscioni stanno cercando di colmare il gap informativo creando guide pratiche e canali di comunicazione diretti per assistere le donne nel processo di IVG.

Nel 2021, Lalli e Montegiove, insieme all’associazione Luca Coscioni e alla campagna “Dati bene comune”, hanno formalmente richiesto al ministero della Salute la pubblicazione di dati aperti, aggiornati e disaggregati per singola struttura. La richiesta, ad oggi inascoltata, mira a garantire una trasparenza che va oltre la semplice statistica, toccando il cuore del diritto all’autodeterminazione delle donne.

Il silenzio del governo Meloni su questo tema non può essere considerato neutrale. In un contesto in cui l’accesso all’aborto è già ostacolato da numerose barriere pratiche e culturali la mancanza di dati trasparenti e accessibili si configura come una strategia de facto per limitare l’applicazione della legge 194. 

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Il G7 agricoltura è un lunghissimo aperitivo

Siracusa, perla del Mediterraneo, si veste a festa per accogliere i grandi della Terra al G7 sull’Agricoltura. Tra degustazioni, sfilate di moda e manifestazioni equestri, sembra quasi di essere finiti in una sagra di paese anziché a un vertice internazionale. Dietro questa facciata pittoresca si cela un vuoto abissale.

Mentre i ministri del G7 si affannano a discutere di sviluppo agricolo in Africa, sovranità alimentare e pesca sostenibile, c’è un elefante nella stanza che nessuno sembra voler vedere: la natura. È paradossale, se non fosse tragico, che in un vertice dedicato all’agricoltura si ignori completamente il rapporto tra le pratiche agricole e i sistemi naturali. Come se potessimo coltivare in un vuoto, senza terra fertile, senza biodiversità, senza un ecosistema che ci sostiene.

E mentre il ministro Lollobrigida si affanna a dipingere gli agricoltori come “custodi dell’ambiente”, i dati dell’Ispra ci raccontano una storia ben diversa: l’agricoltura è la prima causa di perdita di biodiversità e responsabile di un quarto delle emissioni globali di gas serra.

Intanto, fuori dalla bolla dorata del G7, il mondo reale brucia. Letteralmente. Alluvioni, siccità, peste suina: le emergenze si susseguono a ritmo serrato ma i nostri leader preferiscono brindare con un bicchiere di vino locale piuttosto che affrontare i veri nodi della questione.

La verità è che senza un serio impegno per la transizione ecologica, senza politiche che promuovano l’agroecologia e pratiche agricole rigenerative, stiamo solo mettendo una pezza su un sistema già al collasso. Il G7 sull’agricoltura è una fiera, un lungo aperitivo. Dell’agricoltura nemmeno l’ombra. 

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Lacrime renziane

Il termometro dello stato di salute del cosiddetto campo largo sta sotto l’ascella della Liguria che si prepara alle prossime elezioni regionali per sostituire l’ex presidente dimissionario, l’innocente Giovanni Toti che ha deciso di patteggiare. La temperatura ieri ha segnato un picco di indisposizione, qualcosa di simile alla febbre, per la rottura dei pochi renziani rimasti in Italia Viva che hanno deciso di farsi da parte.

L’hanno fatto, com’era prevedibile, secondo le modalità del loro leader Matteo Renzi, uno convinto da anni di essere il mazziere nonostante in molti non lo vogliano nemmeno nei paraggi del tavolo. Dicono quelli di Italia Viva che ci sono rimasti molto male perché dalle parti del Movimento 5 stelle hanno ribadito che non hanno intenzione di spartire nulla con loro. Non hanno torto: a non fidarsi di Renzi c’è l’intero Movimento, metà del Partito democratico e tutti quelli che stanno in Sinistra italiana.

Ieri sostanzialmente non è quindi successo nulla di nuovo. Semplicemente Renzi e la sua ciurma sono convinti che la politica si muova allo schioccare di un’intervista del senatore fiorentino e invece, spiace per loro, non funziona esattamente così. Il tentativo di autoinvitarsi nel cosiddetto campo largo infilandosi di soppiatto nelle elezioni liguri come certi non invitati ai matrimoni non è stata una geniale strategia. Quelli se ne sono accorti e così ieri semplicemente Renzi ha dovuto fare i conti con la realtà. E lui, quando non gli piace la realtà, si lamenta fragorosamente.

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