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Dal canto dei bambini alle urla degli studenti: la giornata torinese di Valditara

Ieri il ministro dell’Istruzione si è recato a Torino per intervenire alla cerimonia del ventennale «Piazza dei Mestieri» in via Durandi. Il ministro era circondato da scorta e un cordone di forze dell’ordine. 

Poco prima era stato tutto più semplice. Alle 15 il ministro si era presentato in pompa magna all’Istituto comprensivo Turoldo alle Vallette dove i bambini l’hanno accolto ben ammaestrati con l’inno nazionale e tanta felicità di cortesia.

Torniamo in via Durandi. Qui niente bambini. C’erano studenti che contestano la riforma sugli istituti tecnici e professionali. «Una riforma che muove un’ulteriore passo verso la tendenza complessiva che da decenni piega ancora di più l’istruzione pubblica agli interessi delle aziende, iniziata dal governo Renzi con la riforma della Buona Scuola», ha spiegato la presidente della Consulta studentesca di Torino Caterina Mansueto.

Mentre il ministro svolge il suo intervento uno studente riesce a superare la barriera delle forze dell’ordine e compie un gesto pericoloso di questi tempi: dissente. «Valditara, lei si deve vergognare», urla il giovane al ministro prima di essere portato via con la forza. 

«Tu adesso lascia parlare, altrimenti sei un intollerante e antidemocratico, lascia parlare e abbi rispetto – ha risposto il ministro -. Io conosco meglio di te gli studenti, tu non sei uno studente, sei solo un provocatore».

Ha ragione Valditara: la democrazia secondo il governo di cui è parte consiste nell’obbligo e la buona educazione di essere sempre e solo d’accordo. Forse la democrazia secondo Valditara consiste nell’esercitare il diritto del potere di non avere contraddittorio. Tra poco arriveranno le leggi giuste per zittire il ragazzo. Il ministro intanto è uscito dal retro. 

Buon giovedì. 

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Boom di firme per la cittadinanza, destre alla carica sul referendum

Era fin troppo facile da prevedere. Il comitato promotore del referendum abrogativo che propone di cambiare la legge sulla concessione della cittadinanza italiana è riuscito a raccogliere le 500 mila firme richieste sulla piattaforma digitale del Ministero della Giustizia e nella maggioranza si comincia a mettere in discussione il sistema di raccolta.

In testa c’è il ministro per gli Affari regionali e le Autonomie Roberto Calderoli che lamenta la soglia “troppo bassa” delle 500 mila firme. “Forse andrebbero ripensate anche le soglie minime delle adesioni per avviare referendum o proposte di legge di iniziativa popolare”, disse già ad agosto in un’intervista a Il Sole 24 ore ancora frastornato dal referendum che promette di sgretolare la sua decantata autonomia differenziata. In queste ore nella maggioranza sono in molti a essere tentati dal colpo di mano per rendere più disagevole la raccolta firme. 

La storia si ripete: il dibattito sulle firme referendarie

La storia dei tentativi di modificare le regole referendarie è lunga quasi quanto la Repubblica stessa. Già nel 1947, durante i lavori dell’Assemblea Costituente, si discusse animatamente sulla soglia delle firme. Costantino Mortati, padre costituente democristiano, propose inizialmente una soglia pari a un “ventesimo degli elettori”, che all’epoca equivaleva a circa 1,4 milioni di firme. La proposta fu oggetto di un acceso dibattito: alcuni la ritenevano troppo alta, altri troppo bassa. Alla fine, si giunse al compromesso delle 500 mila firme, inserito nell’articolo 75 della Costituzione.

Da allora, il tema è riemerso ciclicamente nel dibattito politico. Nel 2005, alcuni parlamentari sostenevano che il numero più giusto sarebbe stato 750 mila elettori. Nel 2003, si parlava di un milione o 700 mila firme. Durante la quindicesima legislatura (2006-2008), il senatore Cosimo Izzo di Forza Italia suggerì addirittura una soglia di 2 milioni di firme.

La digitalizzazione ha riacceso il dibattito. La possibilità di raccogliere firme online ha reso il processo più rapido ed efficiente, come dimostrato nel 2021 dalla campagna referendaria sulla cannabis, che raggiunse le 500 mila firme in una settimana. Questo successo ha allarmato parte della classe politica, che ha iniziato a invocare nuove regole.

La reazione del governo: eludere il merito, cambiare le regole

Di fronte al recente successo della raccolta firme per il referendum sulla cittadinanza, la reazione della maggioranza sembra seguire un copione già visto. Invece di confrontarsi sul merito della proposta, si mette in discussione il metodo. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni, da New York, ha dichiarato: “Penso che il termine dei dieci anni sia congruo, penso che l’Italia abbia un’ottima legge sulla cittadinanza”. Una posizione che sembra ignorare la volontà espressa da mezzo milione di cittadini.

Meloni ha anche preso le distanze dall’iniziativa degli alleati di Forza Italia, che propongono di concedere la cittadinanza a chi ha studiato in Italia per almeno dieci anni. “Non conosco la proposta”, ha affermato la premier, mostrandosi fredda verso qualsiasi apertura sul tema.

L’atteggiamento della maggioranza, divisa tra chi vuole cambiare le regole e chi preferisce non affrontare l’argomento rivela la difficoltà nel gestire il dibattito sulla cittadinanza. Un tema che evidentemente mette in luce contraddizioni all’interno della coalizione di governo.

Il successo della raccolta firme ha colto di sorpresa una classe politica abituata a dettare l’agenda. Ora, di fronte a una chiara manifestazione di volontà popolare, la reazione sembra essere quella di alzare muri o spostare l’attenzione su questioni procedurali. L’importante, come sempre con questo governo, è svicolare dal merito delle questioni. 

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Duecento over 65 ogni 100 giovani: cronaca di un suicidio demografico

L’Italia invecchia, si sa, e lo fa a un ritmo che lascia poco spazio all’immaginazione. I dati di Openpolis raccontano di un Paese in rapida trasformazione demografica dove il rapporto tra anziani e giovani sta raggiungendo livelli senza precedenti. Le conseguenze non saranno facili da gestire. 

Oggi, per ogni 100 ragazzi sotto i 14 anni, ci sono quasi 200 over 65. Un dato che fa riflettere soprattutto se confrontato con la situazione di appena vent’anni fa, quando il rapporto era di 138 a 100. In termini assoluti, parliamo di 14,3 milioni di anziani contro 7,2 milioni di giovani. È come se intere città fossero popolate solo da nonni, con pochi nipoti a correre per le strade.

Ma non è solo una questione di numeri nazionali. L’invecchiamento della popolazione sta ridisegnando la geografia sociale dell’Italia. Tra il 2014 e il 2021, l’indice di vecchiaia è aumentato nel 92% dei comuni italiani. In alcune regioni, come la Puglia, questa percentuale raggiunge addirittura il 98,8%. Veneto e Toscana non sono da meno, con percentuali che superano il 97%.

Ci sono città che sembrano aver perso completamente il contatto con la gioventù. Carbonia, in Sardegna, detiene il triste primato con 330,8 anziani ogni 100 bambini. Cagliari la segue a ruota, superando quota 300. E non sono casi isolati: Oristano, Ascoli Piceno e Biella superano tutte i 275 anziani per 100 giovani.

Lo squilibrio demografico inevitabilmente sta creando paradossi sociali. Da un lato abbiamo il 14% dei minori che vive in povertà assoluta. Dall’altro “solo” il 6,2% degli over 65 si trova nella stessa condizione. Sembrerebbe che i nostri anziani stiano meglio dei giovani ma attenzione: il 9,2% di loro deve arrangiarsi con pensioni sotto i 500 euro al mese.

La geografia della povertà anziana è altrettanto variegata. Nella provincia di Crotone, la percentuale di pensionati con redditi bassi raggiunge il 16,8%. Agrigento, Barletta-Andria-Trani e l’area metropolitana di Napoli superano tutte il 15%. Sempre a proposito della disparità economica di un Paese già differenziato. 

L’invecchiamento della popolazione sta mettendo alla prova il sistema di welfare italiano. I nonni, tradizionalmente figure di supporto per molte famiglie, si trovano ora in una posizione ambivalente. Le famiglie con almeno un anziano presentano un tasso di povertà assoluta del 6,4%, nettamente inferiore al 12% delle famiglie con minori. Ma questo dato nasconde una realtà più complessa.

La crescente popolazione anziana richiede sempre più risorse e servizi. Chi si prenderà cura di loro quando non saranno più autosufficienti? E chi si occuperà dei pochi bambini quando i nonni non potranno più farlo? Sono domande che richiedono risposte urgenti.

La denatalità, unita all’allungamento della vita media, sta creando un cortocircuito demografico che richiede interventi strutturali. Non si tratta solo di garantire pensioni dignitose ma di ripensare l’intero sistema di welfare in funzione di una società che invecchia.

I dati di Openpolis fotografano uno spaccato impietoso ma necessario della realtà. L’Italia che invecchia è un’Italia che rischia di perdere la sua vitalità, la sua capacità di innovare e di crescere. Ma è anche un’Italia che ha l’opportunità di reinventarsi valorizzando l’esperienza degli anziani e investendo sui giovani.

Il futuro dell’Italia passa inevitabilmente per un nuovo equilibrio generazionale. Un equilibrio che non può essere trovato ignorando i numeri, e che non si risolve con un poi di propaganda bassa sui figli da sfornare per il bene della Patria. Le leggi che governavano gli equilibri demografici vent’anni fa non funzionano più. Quell’Italia non c’è più. 

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Dall’Assemblea Onu: “Siamo in un purgatorio di polarità”

Il discorso di Antonio Guterres all’Assemblea generale delle Nazioni Unite fotografa questo tempo.

«Nonostante tutti i suoi pericoli, la Guerra Fredda aveva delle regole», afferma Guterres, contrapponendo quel periodo al caos odierno. «Ci stiamo muovendo verso un mondo multipolare, ma non ci siamo ancora arrivati, siamo in un purgatorio di polarità».

Il Segretario generale denuncia un’impunità dilagante: «Possono calpestare il diritto internazionale, possono violare la Carta dell’Onu. Possono invadere un altro Paese, portando distruzione ad intere società o non rispettando interamente il benessere del proprio popolo. E non succede nulla».

Guterres non si limita a generalizzazioni, ma cita specifici teatri di crisi: l’Ucraina, Gaza, il Sudan. «La guerra in Ucraina si sta diffondendo senza segni di cedimento», osserva, mentre descrive Gaza come «un incubo permanente che minaccia di portare tutta la regione con sé».

Il suo j’accuse non risparmia nessuno: «Il livello di impunità nel mondo è politicamente indifendibile e moralmente intollerabile». Un’accusa che risuona in ogni angolo del globo, dal Medio Oriente al cuore dell’Europa, dal Corno d’Africa e oltre.

La diagnosi di Guterres è impietosa: «sfide mai viste prima» si scontrano con «divisioni geopolitiche [che] continuano ad approfondirsi». Il risultato? «Il pianeta continua a riscaldarsi. Le guerre infuriano senza sapere come finiranno. E le posizioni nucleari e le nuove armi gettano un’ombra oscura».

«Non possiamo continuare così», dice. Se l’avesse scritto in un editoriale qui in Italia per molti sarebbe un «pacifinto» se non addirittura un antisemita.

Buon mercoledì.

Nella foto: il Segretario generale dell’Onu, 20 settembre 2022

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Abbasso Soros, viva Musk. Questione di stati d’animo

C’era un tempo in cui Giorgia Meloni era a capo di un nugolo di politici, Salvini incluso, che tutti i giorni sparavano contro George Soros. La colpa di Soros sarebbe di essere ricco ma soprattutto di utilizzare i suoi soldi per condizionare le democrazie. I soldi che condizionano le democrazia sono un tema serissimo, in effetti. Non avevano torto. Non si capisce però perché Giorgia Meloni qualche mese dopo, a capo del governo italiano, abbia deciso di fare la valletta di un altro ricchissimo: Elon Musk. Musk come Soros è tra gli uomini più ricchi del pianeta. Musk a differenza di Soros si è intestato la missione di condizionare le elezioni Usa e di indirizzare la politica europea.

Par di capire quindi che per Meloni (e compagnia cantante) il problema non siano i condizionamenti della politica ma siano più banalmente i condizionamenti contrari alle politiche che vorrebbero. Sembrava una questione etica e invece è una malinconica zuffa tra tifosi. Peccato. Non è l’unica inversione. Meloni in gita a New York per ritirare il premio della sagra dei sovranisti ha inscenato con il capo di Tesla anche un simpatico siparietto su nazione e patriottismo che secondo la premier significherebbero “uno stato d’animo a cui si appartiene”. Sarà per questo che il sudafricano bianco Elon Musk non le suscita le stesse preoccupazioni di quelli più poveri e scuri. Questioni di stato d’animo, non di Stati con la maiuscola. Meloni ha anche parlato di un “esercito di troll stranieri e maligni che è impegnato a manipolare la realtà e sfruttare le nostre contraddizioni”. Musk si sarà sentito chiamato in causa, pensando che la presidente si riferisse al suo X ex Twitter. Invece era solo uno stato d’animo.

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La lezione degli italiani alla politica

Ieri sono state raggiunte le 500mila firme richieste per convocare la prossima primavera il referendum di modifica sulla legge di cittadinanza. Il quesito propone di dimezzare la residenza legale (da 10 a 5 anni) necessaria per ottenere la cittadinanza italiana, fermi restando tutti gli altri obblighi di legge come la conoscenza della lingua italiana, il possesso negli ultimi anni di un consistente reddito, l’incensuratezza penale, l’ottemperanza agli obblighi tributari, l’assenza di cause ostative collegate alla sicurezza della Repubblica. Abbiamo trascorso l’estate a veder sbandierare il diritto alla cittadinanza dal leader di Forza Italia Antonio Tajani con gli altri della maggioranza. Un dibattito utile a “passa’ ‘a nuttata” e fingere progressismo in una maggioranza conservatrice.

Abbiamo trascorso gli ultimi anni ad ascoltare i partiti politici di destra ripetere che la questione della cittadinanza non interessa agli italiani (sono circa due milioni e mezzo le persone per cui sarebbe decisivo il referendum). Abbiamo ascoltato i partiti di centrosinistra promettere in campagna elettorale per poi timidamente ritirarsi quando ne avevano l’occasione. Quel mezzo milione di firme indica che il Paese è molto più avanti della politica che lo rappresenta. Non è il Paese descritto da Meloni e Salvini a braccetto con Musk e non è nemmeno il Paese timoroso sospettato dal centrosinistra. La società è molto meno doma di quanto appaia l’opposizione, è molto meno sparsa ed è molto più veloce nella mobilitazione.

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L’ombra dei giganti: così Amazon, Tesla, Meta & C. manipolano i processi democratici

In un’era in cui il potere economico sembra spesso eclissare quello politico emergono inquietanti verità sul ruolo delle grandi aziende nel plasmare – e talvolta minare – i fondamenti stessi della democrazia globale. Un recente rapporto dell’International Trade Union Confederation (Ituc) getta luce su pratiche di cui forse la politica dovrebbe occuparsi con più coraggio. 

Al centro di questa rete di influenza troviamo nomi che quotidianamente entrano nelle nostre vite: Amazon, Tesla, Meta, ExxonMobil, Blackstone, Vanguard e Glencore. Giganti dell’economia mondiale che, secondo l’ITUC, non si limitano a dominare i mercati ma estendono i loro tentacoli fino a toccare le corde più sensibili della politica e della società.

Multinazionali e regole democratiche

Amazon, il colosso dell’e-commerce guidato da Jeff Bezos, si distingue non solo per la sua posizione dominante nel mercato ma anche per le sue pratiche aggressive nei confronti dei sindacati. L’azienda, quinta maggiore datore di lavoro al mondo, è stata accusata di violare i diritti dei lavoratori su più continenti, di eludere le tasse e di esercitare una pressione lobbistica senza precedenti a livello nazionale e internazionale. La sua influenza si estende fino al punto di sfidare la costituzionalità del National Labor Relations Board negli Stati Uniti e di tentare di sovvertire le leggi sul lavoro in Canada.

Non meno controverso è il ruolo di Tesla e del suo eccentrico fondatore, Elon Musk. L’azienda automobilistica, simbolo dell’innovazione tecnologica, si trova al centro di accuse di violazioni dei diritti umani nella sua catena di approvvigionamento e di feroci opposizioni alle organizzazioni sindacali in Stati Uniti, Germania e Svezia. Musk stesso è finito sotto i riflettori per il suo sostegno a figure politiche controverse come Donald Trump, Javier Milei in Argentina e Narendra Modi in India, sollevando interrogativi sul ruolo dei magnati tech nella formazione dell’opinione pubblica e nelle dinamiche politiche globali.

Meta, l’impero dei social media di Mark Zuckerberg, si trova al centro di un ciclone di critiche per il suo ruolo nell’amplificare la propaganda dell’estrema destra e nel facilitare la crescita di movimenti antidemocratici. La piattaforma, che raggiunge miliardi di utenti in tutto il mondo, è accusata di essere un veicolo per la diffusione di disinformazione e odio, minando le basi stesse del dibattito democratico in numerosi paesi.

Multinazionali della finanza e dell’energia

Il rapporto dell’ITUC non risparmia nemmeno i giganti della finanza e dell’energia. Blackstone, guidata dal miliardario Stephen Schwarzman, noto sostenitore di Donald Trump, è accusata di finanziare movimenti politici di estrema destra e di investire in progetti fossili e di deforestazione nell’Amazzonia. ExxonMobil, dal canto suo, è citata per il suo ruolo nel finanziare ricerche anti-climatiche e per le sue aggressive attività di lobbying contro le regolamentazioni ambientali.

Le aziende, con le loro vaste risorse finanziarie e la loro influenza capillare, sembrano in grado di plasmare l’agenda politica globale a loro vantaggio, spesso a discapito dei diritti dei lavoratori, dell’ambiente e della stessa sovranità degli Stati nazionali.

La sfida che si presenta è titanica. Come sottolinea Todd Brogan, direttore delle campagne e dell’organizzazione dell’ITUC, “si tratta di potere, di chi ce l’ha e di chi stabilisce l’agenda”. In un mondo in cui le corporazioni multinazionali spesso superano il potere degli Stati, e in cui non esiste alcuna responsabilità democratica, è fondamentale che i lavoratori e i cittadini si organizzino per contrastare questa deriva.

Il 2024 si preannuncia come un anno cruciale, con 4 miliardi di persone chiamate alle urne in tutto il mondo. In questo contesto, l’ITUC sta spingendo per un trattato internazionale vincolante che possa finalmente rendere le corporazioni transnazionali responsabili ai sensi del diritto internazionale sui diritti umani. Anche da noi Meloni aveva promesso di fare “la guerra alle multinazionali”. Per ora l’abbiamo solo ricevere un premio da Musk. 

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Ndrangheta, sei arresti in Piemonte. C’è anche D’Onofrio: tra le accuse al boss anche quella di aver infiltrato un sindacato edile

Questa mattina all’alba Moncalieri si è svegliata con l’arresto di Franco D’Onofrio, 60 anni, originario di Mileto (Vibo Valentia), ritenuto dagli investigatori il vertice della ‘Ndrangheta in Piemonte. 

L’operazione, condotta dal Gruppo d’investigazione sulla criminalità organizzata (Gico) della Guardia di Finanza di Torino, ha portato all’arresto di altre cinque persone. Gravi le accuse: associazione di stampo mafioso, estorsione aggravata dal metodo mafioso, traffico di armi. 

Ndrangheta in Piemonte: l’organizzazione

Secondo gli investigatori l’organizzazione criminale ha infiltrato profondamente il tessuto economico della provincia torinese, con particolare attenzione al carmagnolese. Il modus operandi dell’organizzazione si basa su intimidazione, assoggettamento e omertà, permettendo il controllo di attività economiche strategiche: edilizia, immobiliare, trasporti, ristorazione. 

Non solo: le cosche avrebbero esteso la loro influenza anche su una sigla sindacale degli edili. Un membro eletto nella locale segreteria di un sindacato del settore edilizio sarebbe stato fondamentale per l’operatività dell’associazione criminale. Questa infiltrazione, se confermata, rappresenterebbe un grave attacco alle istituzioni che dovrebbero tutelare i lavoratori e un salto di qualità della penetrazione della ‘Ndrangheta nell’ambito lavorativo. 

Il nome di Franco D’Onofrio era emerso anche nelle indagini sull’omicidio del procuratore Bruno Caccia, ucciso a Torino nel 1983: secondo le dichiarazioni di Domenico Agresta, giovane pentito di ‘Ndrangheta, suo padre lo avrebbe indicato come uno degli esecutori materiali del delitto. D’Onofrio era comunque uscito dal procedimento con un’archiviazione definitiva disposta dal Gup di Milano nel dicembre 2023. La decisione aveva suscitato perplessità nella famiglia Caccia, convinta che ci fossero ancora molti aspetti da chiarire su quell’omicidio.

La storia di D’Onofrio è complessa e intrecciata con vicende di criminalità organizzata e terrorismo. Prima di essere coinvolto con la ‘Ndrangheta, D’Onofrio militò nei Colp (Comunisti organizzati per la liberazione proletaria), un’organizzazione nata per far evadere i brigatisti dalle carceri. Il passato nel terrorismo aggiunge un nuovo tassello alla già complicata ricostruzione dell’omicidio Caccia.

Nel 1986 fu arrestato in Svizzera dopo un conflitto a fuoco e successivamente estradato in Italia. Nel 2011 il suo nome apparve nell’operazione Minotauro, un’indagine sulla presenza delle ‘ndrine in Piemonte. Il pentito Rocco Varacalli lo descrisse come appartenente alla ‘Ndrangheta, mentre i Pm lo indicarono come membro del “crimine di Torino” con la dote di “padrino”.

Ndrangheta in Piemonte: le carte del Gico

Dalle indagini del Gico di Torino sarebbe emerso che “la ‘Ndrangheta ha fornito sul territorio di Carmagnola protezione a imprenditori nel corso di dissidi con altri operatori economici. Tale servizio di protezione veniva remunerato con somme di denaro riscosse e successivamente destinate agli associati”. 

D’Onofrio sarebbe stato “il riferimento per appartenenti alla criminalità organizzata comune che intendevano ottenere avallo per la propria attività delittuosa. Egli risulta aver esercitato il proprio ruolo anche sovraintendendo alle attività dei partecipi del sodalizio carmagnolese nel settore dell’edilizia, e poi aver assicurato i sostentamenti finanziari per le spese legali degli associati e le loro famiglie”. 

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Con la favola del “mai visto prima” Fratelli d’Italia ribalta la realtà

Ogni giorno riescono a superarsi. Giovanni Donzelli, responsabile dell’organizzazione di Fratelli d’Italia, ha recentemente offerto un esempio lampante di come l’entusiasmo politico possa facilmente trasformarsi in un boomerang quando è del tutto sconnesso dalla realtà storica dei fatti.

Il 17 settembre, intervistato da Radio Radicale, Donzelli ha commentato la nomina di Raffaele Fitto come vicepresidente esecutivo della Commissione europea. Con toni trionfalistici, ha dichiarato: “Fitto avrà due importanti deleghe e sarà un vicepresidente esecutivo, risultato che l’Italia non aveva mai raggiunto”. Una frase che suona come un inno alla grandezza del governo Meloni, ma che in realtà si scontra con la storia recente dell’Italia in Europa.

La gaffe storica: quando l’entusiasmo supera la conoscenza

Come riportato da Pagella Politica, che ha fatto una verifica puntuale delle sue affermazioni, la dichiarazione di Donzelli è, per usare un eufemismo, esagerata. Sì, è vero che Fitto è il primo italiano a ricevere la nomina di vicepresidente esecutivo della Commissione europea. Ma il motivo è semplice: questo ruolo è stato creato solo nel 2019. Un dettaglio non trascurabile che Donzelli sembra aver dimenticato o, peggio, ignorato.

Ma non è tutto. La sua affermazione lascia intendere che l’Italia non abbia mai avuto ruoli di primo piano nell’Unione Europea. La realtà è ben diversa: in 12 delle 17 precedenti Commissioni Ue, l’Italia ha avuto un vicepresidente. Un record tutt’altro che trascurabile, che smentisce clamorosamente la narrativa del “risultato mai raggiunto” proposta da Donzelli.

E se questo non bastasse, ci sono due nomi che brillano nella storia italiana in Europa: Franco Maria Malfatti e Romano Prodi. Entrambi sono stati presidenti della Commissione Ue. Malfatti dal 1970 al 1972 e Prodi dal 1999 al 2004. Presidenti, non vicepresidenti. Un dettaglio che sembra sfuggire alla memoria selettiva di certa politica.

Il peso dell’Italia in Europa: una storia dimenticata da Fratelli d’Italia

Anche la storia più recente smentisce le affermazioni di Donzelli. Paolo Gentiloni, nel 2019, ha ottenuto la delega agli Affari economici, una delle più importanti all’interno della Commissione Ue. Federica Mogherini è stata Alta rappresentante per la politica estera e di sicurezza comune dal 2014 al 2019. Antonio Tajani è stato vicepresidente della Commissione Barroso dal 2008 al 2014. La lista potrebbe continuare, ma già questi esempi bastano a smontare la retorica trionfalistica di Donzelli.

Ma il vero nodo è la narrazione con cui la destra si ostina a dipingere ogni minima azione del governo Meloni come un trionfo senza precedenti. Questa tendenza a esaltare e presentare come straordinario ciò che è nella norma. L’entusiasmo è una bella cosa, non c’è dubbio. Ma quando si ricopre un ruolo pubblico, quando si è chiamati a rappresentare gli italiani, sarebbe auspicabile che questo entusiasmo fosse accompagnato da una conoscenza almeno basilare dei fatti oltre che dalla giusta misura.

La nomina di Fitto è certamente un risultato positivo per il governo ma presentarla come un trionfo senza precedenti non solo è esagerato, ma anche controproducente. Non serve studiare troppo. Ai parlamentari della maggioranza basterebbe fare un giro veloce e superficiale su Wikipedia o su Google. Potrebbero scoprire che l’Italia ha una lunga e importante tradizione di presenza nelle istituzioni europee. Ma in fondo, perché rovinare una bella storia con la fastidiosa intrusione dei fatti?

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Una facile profezia sul referendum di cittadinanza

Prendete questo articolo, ritagliatelo e tenetelo in tasca. Tornerà utile. La raccolta firme per il cosiddetto referendum sulla cittadinanza che si propone di dimezzare il termine di 10 anni di residenza per ottenere la cittadinanza italiana (com’era prima del 1992) nel momento in cui scrivo sta sfiorando la soglia delle 430 mila firme. L’obiettivo è di arrivare a 500 mila in pochi giorni per poter ottenere il referendum nella prossima primavera. Ci siamo, quasi. 

Il referendum è stato proposto da una rete di partiti (Più Europa, Possibile, Radicali Italiani, Partito Socialista Italiano, Rifondazione Comunista) e associazioni (Italiani senza Cittadinanza, CoNNGI, Idem Network, Libera, Gruppo Abele, Società della Ragione, A Buon Diritto, ARCI, ActionAid, Oxfam Italia, Cittadinanza Attiva, Open Arms, Forum Disuguaglianze Diversità, Recosol, MAEC, InMenteItaca, Le Contemporanee, InOltre Alternativa Progressista, ASGI) che stanno riuscendo a raggiungere un obiettivo che pareva impossibile fino a pochi giorni fa. 

È indicativo il fatto che i partiti più importanti di centro e del centrosinistra abbiano cominciato ad attivarsi quando hanno sentito profumo di possibilità (facile così, eh). 

Se, come sembra, si andrà a referendum sarà accaduto che un’iniziativa popolare abbia superato le moine della politica che su Ius scholae e Ius soli hanno banchettato durante la radura estiva. La politica istituzionale dovrà quindi riconoscere di essere stata superata dalla volontà popolare nel giro di pochi giorni, con lo strumento della firma digitale. A molti non piacerà (anche a qualche insospettabile) e lo strumento verrà messo in discussione. Voi potrete dire «l’avevo letto su Left». 

Buon martedì. 

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